Speciale
Occhio rotondo 34. Tour
Che cos’è la fotografia? Un colpo d’occhio, d’un occhio che si apre, guarda e poi si richiude. Colpo d’occhio è quello che definisce l’arte di Robert Capa. Non c’è molto da spiegare, basta guardare quello che nel clic della macchina fotografica, protesi dell’occhio umano, è rimasto impigliato ed è fatta. Certo nelle macchine analogiche c’era il lavoro in camera oscura, altra potente metafora della fotografia, con i suoi sviluppi, aggiustamenti e maneggiamenti, ma quello che conta, l’unica cosa che fa di una fotografia una fotografia è quell’attimo fondamentale in cui si incontra l’immagine là fuori e la si fissa per sempre. L’eterno istante, recita il titolo di un bel libro. Vero, l’istante è per sempre, ma appunto è un istante, uno “stare sopra”, come indica il significato originario della parola. Nessun fotografo è stato così istantaneo come Robert Capa. Poi anche tra i suoi amici e colleghi della Magnum c’è stato chi ha teorizzato quel momento o attimo felice in cui accade la fotografia. Teorizzato, ma anche fatto, perché senza il “fare” non esiste la fotografia, tutto il resto sono discorsi. Servono ma non sono la fotografia, la quale come si sa produce poi discorsi, come sto facendo io in questo momento. Capa, no.
Vero che anche lui ha parlato molto, e anche scritto, ma come dimostra questo scatto, preso al Tour de France del 1939, quello che conta è quel tempo di posa che è inferiore a 1/20 secondo (visibile nella mostra Tour de France, di Robert Capa e altri fotografi della Magnum, Spilimbergo (Pn), Palazzo Tadea, dal 6 luglio - 29 settembre 2024). Le macchine fanno anche di meglio oggi, ma non credo che ancora ci sia una macchina che possa fare quello che ha fatto Capa. Guardatela questa fotografia. Se avesse cercato le persone per includerle nell’immagine, se le avesse scelte una per una e poi messe in posa per fare uno scatto, insomma se avesse predisposto questa scena per ricavarne un’immagine memorabile, forse non ci sarebbe riuscito. Ma Capa possedeva il colpo d’occhio, che per altro gli è capitato di usare molte volte, ad esempio nella memorabile icona del soldato colpito che cade spalancando le braccia durante la Guerra civile spagnola. Foto molto discussa, ma senza dubbio un’icona, colpo d’occhio magistrale. Ma non ha forse diritto di diventare una figura memorabile anche questa immagine presa al volo lungo la strada al passaggio dei ciclisti? Non avrebbe tutte le ragioni per diventare anch’essa una foto memorabile?
Partiamo da destra. I sei ragazzini che guardano qualcuno che sta per arrivare. Che meraviglia le loro posture, in particolare quella del ragazzo che allarga le braccia; sembra quasi prendere la rincorsa per slanciarsi in avanti, in realtà si piega un poco all’indietro. E gli altri attorno: guardate come si posizionano, come s’appoggiano gli uni agli altri. Fanno gruppo ma ciascuno è singolare nella fotografia. Una plasticità invidiabile. E poi sono fermi, perché l’istante fissa, blocca i gesti e, come in questo caso, li rende evidenti, li enfatizza. Potremmo quasi tentare una anamnesi dei caratteri dei ragazzini: pose emblematiche dei loro temperamenti? Possibile, ma non è quello che importa; è piuttosto la dinamicità del gruppo che colpisce, lì è il punctum della foto, un punctum non individuale ma collettivo, composto da singolarità ma interagenti. Tutti gli altri sembrano fermi, o appaiono così in raffronto alle posizioni dei ragazzi.
Hanno tutti la testa girata verso sinistra. Non sappiamo cosa guardino, se è qualcosa che va o invece che viene verso di loro. Il ragazzo con le gambe divaricate e le braccia leggermente aperte trasmette un senso d’apprensione, molto lieve, però visibile. Gli altri intorno no. La fissità degli astanti scesi dal marciapiede per veder passare i ciclisti è perfetta. A dare forza alla scena è senza dubbio la doppia fila dei guardanti, alcuni sono sopra il gradino del marciapiede, altri semplicemente più alti dei ragazzini in primo piano, e anche meno agitati, meno tesi. Non impassibili, ma solo più calmi. Sono tutti uomini nella fila, tranne una donna che indossa un curioso copricapo. Molti di loro hanno in mano una gazzetta. Su uno di questi si legge la testata: L’Humanité, organo del Partito Comunista francese. I giornali che reggono con le mani, poi le teste e i cappelli, sono tutti dettagli che contribuiscono ad accrescere la forza della fotografia.
Tutti insieme ragazzini, ragazzi e adulti sono una piccola folla. Dietro di loro una donna con in braccio un bambino ha il viso leggermente corrucciato. Poi ancora il rettangolo nero del negozio dietro di loro su cui è scritto Mercier A. Leducq: un merciaio, detto in italiano, un tipo di negozio che non esiste più. Perché questa bellissima fotografia non è iconica? Perché troppo bella? Perché non evidenzia un evento storico? Perché non è uscita sul quotidiano o settimanale giusto e al momento giusto? L’iconicità di una fotografia è un’aura, qualcosa che viene consegnato all’immagine da qualcosa che è extra-fotografico. Qui l’evento non c’è, ci sono solo le reazioni ad un evento che non appare: il Tour. Sono passati i ciclisti, o stanno per passare, e quindi non appare la “cosa” per cui sono tutti lì. Non è una icona, ma è una foto meravigliosa, di quelle da ritagliare e appendere al muro, perché lì c’è qualcosa di più di una icona: la manifestazione della vita, la sua dinamicità. Capa era lì in quel momento e ha schiacciato l’occhio.
A crowd gathered in front of Mr. Pierre Cloarec's bicycle shop, who is racing in the Tour de France. Pleybon, France, 1939 © Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos.
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