La FIAT in URSS / Operai, noi siamo il gran partito
C’era una volta una città di nome Stavropol’-na-Volga. Era stata fondata all’inizio del Settecento sulle rive di un grande fiume russo. Negli anni Cinquanta del Novecento fu costruita una diga e la città venne spostata altrove. Poi il 28 agosto del 1964 morì il Segretario generale del Partito Comunista Italiano, partito fratello di quello sovietico, Palmiro Togliatti, e dopo una settimana la città prese un nuovo nome: Togliatti. In quegli anni in URSS c’erano poche automobili. Il leader di quel grande e immenso paese, Nikita Sergeevic Krusciov, non era dell’avviso di dotare il suo popolo di vetture private, preferiva invece incentivare il trasporto pubblico. Tuttavia nel Partito c’era chi intravedeva la necessità di installare in Russia una grande fabbrica per la motorizzazione del paese. I dirigenti si misero perciò a cercare un’azienda affidabile in Occidente che potesse diventare il partner di questa impresa che s’annunciava necessaria e di grande impegno tecnologico.
Dopo aver escluso varie nazioni e fabbriche produttrici, la scelta cadde su una impresa italiana. L’idea di far partecipare la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino) a questa iniziativa nacque grazie anche a un uomo, che aveva aperto un ufficio commerciale di export-import a Mosca; il suo nome era Piero Savoretti. Nel giugno del 1965 Vittorio Valletta, grande capo della FIAT si recò a Mosca per incontrare i dirigenti sovietici interessati al progetto. E il mese seguente, in luglio, fu firmato un accordo per la realizzazione di uno stabilimento e per la produzione di un modello di vettura. La fabbrica di automobili fu battezzata AutoVAZ (Fabbrica Automobilistica del Volga) e fu deciso di costruirla a Togliatti in collaborazione con la maggiore azienda italiana del settore. Così tra il 1966 e il 1970 tecnici e operai specializzati della FIAT si recarono per lunghi periodi nella città russa (il suo nome è Togliatti e non, come spesso viene detto, Togliattigrad) per mettere in piedi le strutture necessarie alla produzione.
Il 22 aprile del 1970, centenario della nascita di Lenin, fondatore dell’URSS, la prima automobile uscì dalla catena di montaggio della AutoVAZ: una Fiat 124 adeguatamente modificata per reggere le strade russe dissestate e il grande freddo degli inverni. Da quel momento ogni anno dalle linee uscirono 600.000 vetture. Nel 1976 viene realizzata la tre milionesima automobile. Le auto sono acquistate non solo in URSS, ma anche negli altri stati del blocco sovietico. La macchina viene battezzata Zhigulì, mentre nell’Est Europa è commercializzata con il nome di Lada. A quel punto la città di Togliatti è enormemente cresciuta con uomini e donne provenienti da tutte le regioni dell’URSS, un crogiuolo di etnie. Sorge una città nuova di zecca come lo stabilimento, dove si trasferiscono giovani coppie e famiglie in cerca di fortuna e nuovi orizzonti di vita. Le maestranze e gli ingegneri della FIAT consegnano alla AutoVAZ le chiavi della produzione e fanno ritorno per la maggior parte a Torino; qualcuno resta lì a vivere. L’ipotesi coltivata da Valletta che la motorizzazione avrebbe fatto da volano per una trasformazione dell’economia russa in direzione del capitalismo di mercato, si rivela alla fine errata. Al governo dell’URSS si trova ora un nuovo leader, Leonid Ill’c Breznev, con cui il paese entra in un lungo periodo di stagnazione politica ed economica.
La collaborazione tra Torino e Togliatti non s’interrompe però del tutto, poiché negli accordi è scritto che la Fiat avrebbe dovuto assicurare all’azienda russa l’assistenza tecnica per la progettazione di un nuovo tipo di autovettura, la Lada Samara. Questa entra in produzione nel 1984 e quell’anno finisce la collaborazione reciproca. La AutoVAZ non si dimostra un’azienda molto competitiva. Nel corso dei decenni continua a perdere milioni e milioni rubli, fino a che negli anni Duemila l’acquista il gruppo automobilistico Renault-Nissan. L’URSS non esiste più e il GRANDE paese si chiama Russia. Togliatti ha oggi 751.000 abitanti e la fabbrica è ancora lì. C’è stato anche un referendum, dopo la fine del sistema sovietico, per restituire alla città il suo nome originario, tuttavia oltre l’80% dei votanti ha respinto la proposta: si chiama tutt’ora Togliatti. Cinquant’anni dopo la costruzione della fabbrica un docente universitario di Letteratura italiana, collaboratore di giornali, saggista e scrittore, Claudio Giunta, e una fotografa, docente in varie scuole universitarie, Giovanna Silva, partono da Roma diretti a Mosca per raggiungere Togliatti. Hanno deciso di dedicare un volume alla città russa e vanno a vederla di persona: lui scriverà e lei fotograferà.
Giunta è nato nel 1971 a Torino, appartiene a una famiglia d’immigrati meridionali, che ha avuto uno stretto rapporto con la FIAT, con la città sovietica e la sua fabbrica d’automobili. Lo zio Arnaldo, cognato della madre, prima operaio Fiat e poi impiegato nella medesima azienda, era partito dal capoluogo piemontese in treno per trascorrere sei mesi in Russia. Dopo un viaggio di 68 ore attraverso mezza Europa, era sbarcato a Togliatti un martedì alle ore 18. Era l’anno 1969. Claudio non era ancora nato, ma il ricordo di quella avventura nel paese del socialismo realizzato è rimasto nella memoria famigliare.
Lo zio e la zia sono morti da parecchio tempo e lui non può farsi raccontare da loro cosa sia stata la costruzione di quella fabbrica, le storie dell’avventura di quei piemontesi immigrati, che per la maggior parte non erano mai usciti dai confini della loro regione. Giunta tenta di suffragare questa assenza andando a interrogare alcune delle persone che hanno partecipato all’impresa. Togliatti. La fabbrica della Fiat (Humboldt Books, pp. 134, € 24) è in una certa misura anche un libro autobiografico, poiché l’autore è alla ricerca del proprio tempo perduto, un tempo che parla della grandezza di una città, Torino, e di una fabbrica, la FIAT, un tempo che è iniziato prima della sua venuta al mondo e che ha coinciso con l’apogeo e quindi con la decadenza di quel luogo e della sua fabbrica.
Non c’è tuttavia tristezza nel racconto, semmai una grande malinconia. Armato del suo taccuino l’autore va a incontrare i sopravvissuti dell’impresa, tra cui scova, forse non a caso, due discendenti di russi bianchi fuggiti dal paese dei soviet negli anni Venti del XX secolo. Uno è Giovanni Zagrebelsky, padre di due noti giuristi, scomparso da tempo, riluttante ad avere a che fare con i russi arrivati a Torino per l’accordo, nonostante il suo importante ruolo nelle relazioni internazionali della FIAT; l’altro è invece Roberto Kasman, oggi novantaduenne, attivissimo nell’ANPI, fratello di un eroe della Resistenza caduto a ventiquattro anni, e figlio di un ebreo russo esule dopo la rivoluzione. Kasman, che ha imparato il russo nelle scuole serali, è spedito dalla Innocenti a sovraintendere il montaggio delle presse che ancora oggi campeggiano nella fabbrica di Togliatti. La storia della visita in Russia di Giunta e Silva si mescola con la memoria del passato. Tra le prime cose che fanno i due viaggiatori arrivati a Togliatti è andare a vedere lo stabilimento durante una delle sue aperture al pubblico; lì scoprono che gli abitanti della città sono desiderosi di visitarlo e che per questo premono ai cancelli per entrare. Fanno il giro del perimetro della fabbrica, percorrono il reparto presse e il reparto verniciatura.
L’azienda è una città nella città, molto più grande della torinese Mirafiori: cinque milioni di metri quadrati contro i due e mezzo di Torino; i corridoi interni sono grandi come autostrade e orientarsi lì non è facile. Giovanna Silva viene fatta sedere vicino al finestrino del pullman dove salgono in modo da poter scattare le fotografie; entrambi sono accompagnati da una gentilissima ed efficiente interprete russa. Presente e passato si mescolano tra loro grazie alla penna brillante e icastica di Giunta, così questo libro colorato di rosso vivo si muove contemporaneamente nel passato e nel presente.
Una delle pagine più accattivanti è quella in cui Giunta riassume le leggende metropolitane che in cinquant’anni hanno prosperato riguardo la città e la nuova fabbrica edificata dalle maestranze italiane. Si riferiscono alle forme di pagamento effettuate dai sovietici, le frotte di bambini seminati dagli operai di Torino in URSS, le morti misteriose dei lavoratori, l’assenza delle tavolette del water dai bagni della città, l’interesse morboso per le giovani studentesse di una vicina scuola, l’allentamento dei ritmi della catena di montaggio per andare incontro ai russi e la presenza di esorbitanti volumi scritti in cirillico allegati al contratto e consegnati agli italiani. Senza dubbio Giunta si diverte nel costellare di dettagli inconsueti, ma sostanziosi, il suo viaggio, nel raffrontare il presente con quel passato quasi remoto. Vive orgogliosamente in un’epoca post-comunista e post-capitalista.
La nostalgia resta la musa di queste pagine. Ma di quale nostalgia si tratta? Mentre in Europa questo sentimento si fondata sulla percezione del tempo – il tempo passato e perduto –, quello presente invece nell’anima russa nasce dallo spazio, dalle immense estensioni di quel paese, che anche qui nella regione del Volga dominano incontrastati – lo stesso fiume davanti a Togliatti è quasi un lago. Tra le molte malinconie presenti in questo libro non c’è però quella per la fine del comunismo. Anzi, Giunta è quasi consolato dall’epilogo storico dell’URSS. Quando l’autore visiona insieme con l’ingegnere Mangiarino, suo mentore nel viaggio dentro la storia della AutoVAZ, un documentario dedicato alla città di Togliatti, l’uomo Fiat richiama la sua attenzione sulla parte dedicata all’inaugurazione dello stabilimento.
Quel giorno i dirigenti sovietici in un impeto retorico si erano rivolti ai posteri per celebrare un momento importante nella causa del comunismo, che coincideva con l’uscita la prima automobile dalla catena di montaggio. Nel momento in cui l’ingegnere blocca il filmato, all’autore viene fatto di pensare una frase ad effetto che dia il senso “di questa avventura tragicomica che è stata la storia del mondo nell’ultimo secolo”, ma non gli riesce. La frase che pronuncia è più rasoterra – “Incredibile come sono andate le cose” –, eppure assolutamente perfetta. La seconda parte del volume, stampata su carta patinata, comprende 63 magnifiche fotografie di Giovanna Silva.
Anche lei come Giunta è stata colpita dagli spazi di Togliatti. Ritrae le strade di quella che appare come un’immensa periferia priva di uomini e donne; a tratti compaiono, come nelle incisioni piranesiane, singole persone, quasi a dare il senso delle proporzioni dei palazzi, delle strade, degli slarghi e dei fabbricati. Mentre si sofferma sui ragazzi che fanno il bagno, che salgono sulle insegne, che si sdraiano su travi di cemento. La città appare decrepita, in via di disfacimento, come se il suo destino, al pari della doppia ideologia che l’ha edificata – il comunismo sovietico e il neocapitalismo italiano –, fosse d’essere sin dalla sua nascita una rovina del passato. Fanno eccezione le spiagge in riva al Volga, un ramo ferroviario dismesso, il lungolago; lì sembra vivere almeno un rimasuglio di quel genius loci cui noi, abitanti del Bel Paese, siamo abituati senza tuttavia che ce ne rendiamo ben conto. L’occhio fotografico di Giovanna Silva è privo di nostalgia. Scatta e basta, e a tratti raffredda quello che vede e ritrae. Non è una freddezza intensa, da gelo russo; solo una forma particolare di distanziamento. Mentre qualche leggero brivido sembra attraversare lo scritto di Giunta, come quando manifesta la propria preoccupazione per cosa sarebbe accaduto all’Italia se nel 1948 avesse vinto le elezioni il Fronte Popolare guidato da comunisti e socialisti. La nostalgia delle pagine di Claudio Giunta è doppia, o forse tripla: nostalgia della sua Torino, che non c’è più, nostalgia di un cinquantenne che si trova a vivere in un’epoca postuma, nostalgia della nostalgia russa, comunismo escluso.
Togliatti è lo schermo su cui proiettare una sorta di delusione per come sono andate le cose? Uscito nei giorni della seconda ondata della pandemia, che ha congelato le nostre vite in un’attesa che non sembra finire mai, nella sospensione dei giorni e del lavoro, dello studio, dei viaggi, e altro ancora, questo bel libro risulta postumo a sé stesso. Tuttavia nelle foto di Giovanna Silva il volume risulta riposante, perché non sempre il tempo passato suscita ricordi malinconici, a volte rappresenta invece un meraviglioso momento di sosta nell’incessante accelerazione che connota la nostra epoca. Camminando all’indietro a passi di gambero, Giunta e Silva ci hanno concesso un prezioso e salutare tempo di riflessione.