Una conversazione / Paolo Gioli: il cinema è ovunque
Paolo Gioli è l’ideatore di movimenti di cinepresa mai avvenuti, il discreto alchimista del “niger mundus”, il manovratore della metamorfosi, l’archeologo-scopritore del cinema sempre in anticipo/ritardo rispetto alla sua invenzione.
Lo incontro nella sua casa fuori Rovigo, grazie all’intervento di due amici cineasti che mi accompagnano, Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa. L’abitazione è un colloquio di oggetti, essa stessa congegno cinematografico. Prima dell’arrivo, mi sono fatto un piccolo consuntivo della sua lotta per immagini: proto-film, film-libro, film decomposti, filmfinish, poemetti filmici, schermi perforati, schermi disturbati, schermo di schermi, naturae, vessazioni, forme dell’annegamento, cronache di verticalità̀ simultanea, ottenebramenti e anatomie stenopeiche.
Durante la mia inquieta esplorazione ritrovo – sparsi per la casa – frammenti e reperti di questa lotta: otturatori vegetali, fogliame, bestiari fantastici, maschere funerarie, nudi d’arte, e un manifesto (tra gli altri) della banda Baader/Meinhof. Gioli mi mostra un libro aperto sul suo “pugno stenopeico” e le sue conchiglie con l’ombelico forato. Parliamo di Émile Cohl, lo straordinario (e dimenticato) animatore francese. Degli Etruschi di Volterra, di Magritte e di Duchamp, mentre un gatto ci passa attorno, attento alla nostra presenza. Beviamo limonata che Carla, sua moglie, ha preparato: “Non fatevi ingannare: lei conosce tutto Proust a memoria”.
Quando chiediamo se possiamo fare delle foto, Gioli ci domanda: “In analogico o in digitale? Detesto il digitale”. Poi sorride: “Ma se rinascessi domani, quanto ci sarebbe ancora da inventare!”.
Hai spesso manifestato interesse per quei momenti nella storia della fotografia dove una foto sarebbe potuta divenire altro da sé, magari cinema. Prima mi mostravi alcuni strumenti che la natura ti ha come “consegnato”. Dove “trovi” il cinema?
Ovunque. Lo posso trovare anche per terra: quello che mi viene incontro, un nulla, persino la polvere. Duchamp ha fatto “l'allevamento di polvere”, e l’ha fatto poi fotografare da Man Ray, come se la polvere fosse stata davvero seminata. Uno non deve essere mai stanco di abbinare cose differenti tra loro: occorre avere una sconfinata, instancabile curiosità. Io ho fatto passare una formica al fotofinish… una tecnica spietata, perché chi si ferma è perduto. Se il foro stenopeico è un punto di matita che tu fori, il fotofinish è una linea di matita che tu tagli. Punto e linea, come nel libro di Kandinsky.
In uno dei tuoi lavori che ammiro di più, Immagini disturbate da un intenso parassita, tu nomini una delle sezioni “Guardare attraverso”. Che cosa indica per te questa pratica?
Guardare attraverso è la cosa più semplice: guardare attraverso l’obiettivo della camera. Ma il discorso non finisce qui: adesso con il display la gente guarda allo schermo mentre filma. I film-maker tengono in mano i cavalletti come fossero trofei. Non trovo più nessuno che guardi nel mirino… sei sollevato da ogni responsabilità.
Quando si tratta di stampare nei laboratori cinematografici, devo spiegare tutto io: non c’è più nessun apprendistato, e quasi nessun ricambio generazionale. La stessa cosa per i laboratori tipografici. Una volta in entrambi i luoghi c’era il cromista. Osservava, e diceva: “Qui bisogna correggere la dominante, bisogna ristampare”. A occhio. Non aveva la tavolozza elettronica ad aiutarlo. Bisognava andare alla finestra, come quando i venditori di tessuti srotolavano le stoffe e uscivano fuori dal negozio alla luce del sole, perché lì cambiava tutto: mi ricordo alcuni episodi vissuti con mia madre…
Quando stampano uno dei miei libri, io vado sempre in tipografia. Mi chiedono un poco scocciati se sono intenzionato a rimanere: “Che altro dovrei fare? Il libro è mio”, rispondo.
Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro si è molto discusso della necessità che lo stato finanzi i film d’arte. Tu però ti sei sempre rivolto ad una pratica più isolata: “film liberi in libertà”. Quanto è importante per te questa libertà?
Se si tratta di film personali, di film-poema, non c’è necessità di fondi statali: una poesia la scrivi dove vuoi, su un pezzo di carta o sopra un mattone. Poi però le parole rimangono incise.
Perché il film-maker è interessante? Perché sei autore fino in fondo. Entri in un negozio, compri una bobina di pellicola, nessuno sa niente, e tu inizi un’opera: se qualcuno la vuole vedere, ben venga! Le Polaroid all’inizio me le compravo da solo, rimanendo senza soldi: opere che ora sono inserite nel cosiddetto “mercato dell’arte”. Ma bisogna crederci, o almeno avere qualcuno che ti sostenga nei momenti di crisi, nei momenti che sono all’opposto della produzione industriale: quelli di stallo, che sono anche i più interessanti. Quando uno è saturo di sollecitazioni, bisogna trovare il modo di sbloccarsi, e poi avviene come un’esplosione: ci sono stati periodi in cui giravo anche più film contemporaneamente, scalando le immagini, tuffandole una nell’altra, come nel mio Del Tuffarsi e dell’annegarsi. Mi dispiace averlo realizzato dopo Wavelength di Michael Snow, film straordinario di cui non ero ancora a conoscenza.
A proposito di Del Tuffarsi e dell’annegarsi: ho spesso pensato che questo tuo gesto cinematografico avesse preceduto il loop delle Torri Gemelle, l’infinito replay della loro caduta… Lo stesso avviene in Filmarilyn, con quella successione di immagini che fa tremare la vita tre le pose lapidarie di Marilyn Monroe. Tu hai più volte animato libri di fotografie, arrivando a rivelare un cinema che era già come prefigurato, in attesa. Credi che sia una questione di portare l’occhio ad individuare queste immagini dormienti?
Per ottenere quell’andamento, quella concentrazione di immagini bisognava lavorare ore intere in completa solitudine. Lo stesso per scomporre i corpi, anche se oggi – a guardare certi mostri estetici, gonfi e dilatati – non c’è più molto da scomporre: semmai si tratterebbe di ricomporli, di rifarli da capo. Io sarei stato curioso di conoscere uno come me: e lo dico per modestia, soprattutto per modestia. Avessi avuto uno zio così, lo avrei visitato ogni giorno. Un ragazzino che è venuto da me non arrivava all’ingranditore, e allora abbiamo dovuto prendere una sedia. Gli ho fatto stampare una foto: “Dove c’è il nero, non passerà la luce. Dove c’è il bianco, passerà”. Un miracolo.
Prima dell’invenzione del cinema, tanti autori avrebbero voluto vedere il movimento. Le riprese magari riuscivano, ma tutto crollava al momento di realizzare un proiettore che non fosse sgangherato… Poi sono comparsi i fratelli Lumière, e il loro treno che arriva alla stazione di La Ciotat è ancora perfetto. La stessa stabilità di immagine, lo stesso modo di riprendere, per anni e anni… e tutt’ora si potrebbe riprendere allo stesso modo. Non esiste l’evoluzione: era già quello l’avvenire del cinema!
E tu pensi che il cinema abbia ancora un avvenire?
Gli strumenti diventano sempre più desueti, e uno deve affrettarsi ad aggiornarsi. Ci sarà un grande ripensamento, un domandarsi: abbiamo cestinato troppo in anticipo? Abbiamo soffocato l’occhio di dispositivi? In questa discarica di strumenti super efficienti, non v’è capacità di distinguere un artista, di saperlo riconoscere davvero. Il papà di Picasso, anche lui pittore, decise di smettere di dipingere dopo aver visto il figlio realizzare La prima comunione: questo è un atto di attenzione autentica.
Quando uno osserva attentamente il mondo, tutta la storia dell’arte inizia a scorrere davanti agli occhi… basta stare un poco in alto. Le nubi, le nuvole: ecco il Tiepolo, ecco il montaggio!
Poco importano gli autori e i precedenti storici. È tutto lì, fuori dalle gallerie...
(In collaborazione con “La Camera Ardente”. Le foto dello studio di Paolo Gioli sono dell’autore)