Pearl Harbour 1941: Da qui all'eternità
La prima pubblicazione di Da qui all’eternità di James Jones era stata pesantemente censurata, era il 23 febbraio 1951, c’era la Guerra Fredda e negli USA imperversava il maccartismo. Che cosa aveva allarmato i revisori dell’editore Scribner? Il linguaggio da caserma, certo, 259 occorrenze di fuck e 95 di shit, e più ancora la disinvoltura con cui i soldati della Compagnia G, di stanza nella base di Schofield sull’isola hawaiana di Ohau, trafficavano con i danarosi omosessuali di Honolulu. Ma sospetto che a disturbare il sonno dei custodi della morale americana dell’epoca ci sia stato altro.
La lettura dell’edizione integrale del romanzo, uscita in Italia l’anno scorso, ci conferma quale potente strumento di comprensione possa rappresentare la narrativa alle prese con i grandi fatti della storia. Siamo dalle parti di Pearl Harbour alla vigilia dell’attacco giapponese. I protagonisti sono soldati e graduati della fanteria americana impegnati nell’addestramento per una guerra ancora considerata lontana e improbabile. Passano il tempo a bere birra e whisky in caserma e nei bordelli della città, cercano e spesso trovano la rissa con marinai e avieri, organizzano tornei di pugilato e football, giocano a dadi e a poker, aspettano solo il giorno di paga.
Sopravvissuti alla miseria degli anni 30, si sono arruolati per sfuggire alla disoccupazione. Sentite come li racconta Jones, ci troviamo nella sezione peggiore della prigione militare, la cosiddetta Palizzata:
“Erano uomini duri… per la maggior parte avevano girato almeno una volta la nazione da vagabondi… avevano lavorato nelle cartiere del North Carolina, tagliato alberi nello stato di Washington, coltivato cetrioli in Florida, lavorato nelle miniere dell’Indiana, fuso acciaio in Pennsylvania, seguito il raccolto del frumento in Kansas e quello della frutta in California, caricato navi sui pontili di San Francisco e San Diego e Seattle e New Orleans, aiutato a scavare pozzi in Texas. Erano uomini che conoscevano il loro paese, e ciononostante lo amavano ancora… Facce americane e voci americane, deboli avare e bugiarde ma forti della forza generata dalla necessità, che è l’unica vera forza; facce ruvide scarne indurite e voci della vecchia tradizione americana dei boscaioli e dei contadini… Ecco il tuo esercito, America… Ringrazia i tuoi vari dei per le tue prigioni, America. Pregali intensamente di non insegnarti a farne a meno, finché loro non ti avranno prima insegnato a fare a meno delle tue guerre”.
Sono sempre furiosi: con l’esercito, con i civili e con l’America che li ha dimenticati, ma soprattutto con se stessi e con le proprie fragilità, detestano gli ufficiali e piuttosto che dargliela vinta accettano brutalità e degradazione. Robert Prewitt, il protagonista, suona la tromba e boxa come un dio, ma si rifiuta di suonare e di combattere per il reggimento perché non vuole sentirsi usato. Il sergente maggiore Milton Warden potrebbe rifarsi una vita con la moglie del suo capitano, Karen Holmes, personaggio femminile tragico e indimenticabile, se solo accettasse i galloni da ufficiale, ma non ce la fa, vuole restare con la truppa.
Quando la donna sbatte in faccia la sua relazione al marito puttaniere, che le aveva passato lo scolo rovinandole la vita, l’uomo se ne esce con una di quelle battute che avranno rovinato la permanente delle signore dell’American Legion: “Dove andrebbe a finire la nostra nazione se tutte le mogli fossero così?”. Il piccolo italiano di Brooklyn, Angelo Maggio, irascibile e amatissimo dalla Compagnia, si fa quasi ammazzare di botte per farsi dichiarare alienato e poi disertare: “Prewitt lo guardò allontanarsi, magro, stretto di spalle, le gambe storte… vero rappresentante della nuova razza di cavernicoli che non ha bisogno di muscoli: per camminare invece delle gambe usa la metropolitana; per arrampicarsi invece delle braccia adopera l’ascensore; per sollevare pesi invece della schiena va a noleggiare una gru”.
James Jones
Si capisce che un quadro simile dell’esercito americano, delle relazioni e dei sentimenti coltivati in quella base delle Hawaii, non andasse esattamente incontro alle ossessioni patriottiche di un paese come l’America degli anni 50. E non ho ancora accennato al capitolo dedicato al 7 dicembre 1941, quando gli aerei giapponesi attaccano la base navale di Pearl Harbour: sono pagine fantastiche, Jones addirittura era convinto di aver scritto qualcosa da “accostare alla Waterloo di Stendhal e alla Austerlitz di Tolstoij”, gli saranno costate fatica, non dico di no, ma quanto si sarà divertito... Lui c’era, quella mattina di domenica, subito dopo il giorno di paga, e racconta che in caserma chi s’era alzato per la colazione era ancora sbronzo per le bevute della nottata. Iniziano a sentirsi le vibrazioni delle prime esplosioni, “ci siamo” disse qualcuno.
Scatta la rincorsa ad impadronirsi di fucili mitragliatori e munizioni e ad occupare le postazioni migliori sul tetto. E’ una gara selvaggia a chi centra il primo caccia giapponese, la preoccupazione di tutti è disporre di una tazza di caffè e di una pinta di whisky: “Warden abbassò il mitra, le budella e la gola strette dal desiderio di levare al cielo un urlo insensato di pura gioia. Questo è il mio reparto. Questi sono i miei ragazzi. Afferrò la bottiglia che teneva tra le ginocchia e fece una bevuta che non era una bevuta ma un’espressione di commozione. Il whisky gli bruciò la gola facendogli provare una gioia incontenibile”. Prewitt, nel frattempo, dorme a casa di Alma, la prostituta che lo ama e lo protegge; quando si sveglia e sente alla radio dell’attacco, è ancora ubriaco e fa un po’ di confusione: ““Quei luridi bastardi di tedeschi”. Piangeva. “Oh,quei porci bastardi tedeschi stupratori di bambini”. Alzò la mano che reggeva la bottiglia per sfregarsi il naso e si riempì ancora il bicchiere””.
Ecco, insomma, come i due protagonisti del romanzo vivono l’ingresso americano nella Seconda Guerra Mondiale: il culmine della fabula coincide con l’anticlimax più paradossale e straniante. Un po’ come se a Cappuccetto Rosso, di fronte al lupo che indossa la vestaglia della nonna, scappasse un goccio di pipì dal gran ridere. Trovo che quelle pagine siano semplicemente magistrali.
Lo stesso Norman Mailer, autore del capolavoro Il nudo e il morto, dove si narra della paura che artiglia un reparto di marines intrappolato nella jungla in un’isola del Pacifico, riconobbe il talento di Jones, che peraltro combattè a Guadalcanal e ne scrisse in La sottile linea rossa. Gli scrittori americani di quella generazione, a differenza di quelli europei, si rivelano a tratti spudoratamente affascinati della guerra, e questo risulta piuttosto indigesto ai lettori contemporanei, che forse hanno dimenticato la bellezza delle battaglie raccontate da Omero nell’Iliade…
Il cinema ha saccheggiato questi romanzi, quello di Mailer e quelli di Jones: Fred Zinnemann portò a casa otto Oscar nel 1953 con Da qui all’eternità. Prewitt aveva lo sguardo febbricitante e appassionato di Montgomery Clift, Maggio la simpatia malinconica di Frank Sinatra, Warden la risata minacciosa di Burt Lancaster, Karen la sensualità inquieta di Deborah Kerr… Che film!
La narrativa è necessaria nello studio della storia, lo sanno gli storici migliori e lo ripetono gli insegnanti ai loro studenti. Vuoi capire davvero cos’è successo a Stalingrado? leggi Vita e destino di Vasilij Grossman. Sei alle prese con la tragedia italiana delle guerre fasciste, non ti spaventa il grottesco e non hai pregiudizi? devi affrontare Tempo di uccidere di Flaiano e poi Kaputt e La pelle di Curzio Malaparte.
L’orrore nelle trincee delle Fiandre nella Grande Guerra? Viaggio al termine della notte di Céline. Le porcherie subite e commesse dai carristi tedeschi sul fronte orientale? Ci sono i romanzi di Sven Hassel. Alto e basso, senza paure. Se poi sei sicuro di voler fare i conti con l’incubo del Vietnam, non perdere tempo, leggi Dispacci M.Herr. Perché chi ha scritto quei romanzi ha vissuto dal di dentro quei disastri e se dalla storia non possiamo pretendere verità assolute, la narrativa è in grado di restituirci la verità relativa dell’esperienza individuale. Miserabile, magari, ma forse proprio per questo irrinunciabile.
E per tornare al soldato semplice Prewitt, che “amava l’esercito e quindi era pazzo”, ecco come Jones lo fa uscire di scena e morire, mentre cerca di raggiungere la Compagnia a piedi, fra i campi da golf di Honolulu, sotto le pallottole della Military Police: “Ti eri sempre chiesto come sarebbe arrivata. Avevi sempre pensato che sarebbe stata in qualche modo una cosa speciale. Quello che non potevi immaginare era che potesse essere così normale. Come cagare. O scopare. O rollarsi una sigaretta. Proprio normale, ordinaria, di tutti i giorni”.
Qualcuno si sarà spaventato alla Scribner, è chiaro, e alla fine i fuck furono ridotti a 106, ma il romanzo vendette 163.000 copie in tre mesi. La saggezza dei lettori, a volte, supera ogni aspettativa.