Picasso e i bambini (via Pistoletto)
Complice una fuga all’inglese dagli impegni di rito, una visita al Reina Sofia si prospetta come insperata ora d’aria. Raggiungo il museo alle dieci del mattino, scalpitante al botteghino, e per gli spagnoli è una specie di insulto. Là tutto è posposto (che non significa rimandato o mai realizzato, ma solo fatto – e bene – un po’ dopo), dagli orari dei pasti a quelli degli uffici, dalla siesta alle cinque del pomeriggio a, appunto, le visite alle mostre d’arte. Risultato: in giro per le sale ci sono solo io e frotte di scolaresche di tutte le età, uniformi e colore, accompagnate dalle maestre d’ordinanza che indicano dettagli invisibili nelle tele di Dalì, Mondrian o Mirò interpretandoli con inaudita competenza e incantevole curiosità.
Le scene cui assito sciolgono il cuore. Le docenti – sorridenti come mai – pongono ai bimbi domande sofisticatissime sul senso del post-impressionismo, sulla rottura cubista dello spazio o sulla poetica implicita nel blu Klein. E i discenti si disputano fieramente il tempo della risposta. Tutti alzano la mano cercando di dire la loro: e non per dar mostra di abborracciata competenza ma perché – almeno mi pare – seriamente appassionati al magistrale problema estetico che progressivamente affiora dal quesito della loro insegnante. Queste scene idilliache mi distraggono dai quadri. Inizio a fissarle con divertita commozione – evitando a fatica di pensare quanto tutto ciò da noi sia quotidiana, esagerata fantascienza.
Tiro fuori la macchinetta fotografica e inizio a scattare, per immortalare e fieramente mostrare il tutto agli increduli amici e parenti lasciati in patria. Indovinate chi, accigliato, immediatamente si avvicina? Manco a dirlo il custode, che mi dice che lì è vietato fare foto: non alle opere, libere perciò d’ogni autoriale copyright, bensì ai pargoli, la cui privacy innocente occorre pur difendere. Desculpe, dico digrignando un sorriso di circostanza: il mondo alla rovescia (penso) e un dilettantesco scoop fotografico in meno (sospiro).
La rivincita arriva davanti a un’opera di Michelangelo Pistoletto che, come ognuno sa, usa abitualmente specchi a mo’ di sfondo dei suoi quadri, di modo che la persona che li guarda si ritrova forzatamente a far parte dell’opera. L’osservatore dentro l’immagine, e con lui tutto ciò che gli fa da sfondo, in modo programmaticamente casuale. Per di più, nell’opera in questione sullo specchio è dipinto un cavalletto molto simile a quello di Las Meninas di Velasquez (esposto al Prado, a due passi da là), di modo che lo spettatore può stare là dentro non solo come protagonista ma al modo del pittore, in una vertigine costruita ad hoc per smarrire e insieme divertire il pubblico di passaggio. Cosa che puntualmente accade. Io fotografo il quadro, dentro il quale stanno specchiati i frugoletti che a turno mimano le pose stereotipe di un artista secentesco.
Il custode mi rimprovera duramente, ripetendomi che è proibito riprendere i bambini. Io rispondo che sto eseguendo alla lettera il suo dettato, perché non sto fotografando la realtà ma il suo riflesso, che è costitutivamente parte dell’opera: cosa assolutamente permessa. Lui mi dice che non va bene, perché in ogni caso c’è l’immagine degli infanti. Io replico che sì, e che nessuno mi potrà fermare. Ne viene fuori una disputa infinita degna degli scolastici medievali. E se avessi avuto una parlata ispanica un po’ più sciolta, forse l’avrei vinta. Ma non importa: all’arrivo di una legione d’altri guardiani con muso duro, abbandono, sconfitto, l’obiettivo.
Avvicinandomi alla sala con Guernica tutto cambia. Appaiono dappertutto segnali che indicano il divieto di fotografare le opere, come se il valore del capolavoro di Picasso ribaltasse il dettato legislativo non solo per se stesso ma per tutto ciò che lo circonda. È il ritorno del rimosso benjaminiano, che – dinnanzi alle esigenze del merchandising del museo – fa riapparire l’aura nella sua letteralità: qualcosa che si diffonde progressivamente nello spazio, come l’Uno di Plotino, ammantando il mondo circostante della sua sacralità.
La mescolanza dei criteri di valore – estetico, etico, economico – è patente: e il povero fotografo, turista finto cronista, non può che subirli. Resta la consapevolezza che viviamo in tempi bui: Picasso come i bambini?