Qui il sentiero si perde
Al lettore italiano il nome di Peské Marty risulterà piuttosto sconosciuto, a meno che non abbia avuto la ventura di imbattersi in dottrine, tradizioni, costumi dell’Estremo Oriente. In realtà quel nome risponde a un’identità composita, nella quale confluisce una coppia; formata, a sua volta, da Antoinette Peské («figlia del pittore Jean Peské e discendente da parte di madre da una famiglia di principi mongoli», come ci informa il risvolto biografico) e da suo marito Pierre Marty, «giurista di formazione» e appassionato orientalista.
Dunque tra moglie e marito si consolida un interesse verso le civiltà asiatiche, che non si esaurisce nella reciprocità coniugale. Dopo l’apparizione di un romanzo, La scatola d’osso del ’41, che si guadagnò il plauso e l’attenzione di Cocteau, di Mac Orlan, di Follain, firmato dalla sola Antoinette, si passò alla scrittura di tre romanzi a quattro mani, come Qui il sentiero si perde, apparso da Gallimard nel 1955 e ora riproposto da Adelphi nella bella traduzione di Daniele Petruccioli, insieme a una preziosa nota introduttiva di Jean Pierre Sicre. A quest’ultimo, fondatore delle edizioni Phébus, si deve la riscoperta e la riedizione di questa straordinaria coppia, la cui «ubertosa» felicità espressiva – così la definisce il traduttore – ricalca un genere, o meglio la commistione di generi, che anima la stesura di questo libro.
Molto opportunamente il risvolto di copertina prende avvio con una citazione da Leonardo Sciascia, a proposito di quelle opere che recano in sé l’impronta della felicità, le assomigliano. È un’affermazione messa dallo scrittore sulle labbra di un personaggio di Il cavaliere e la morte e che riguarda L’isola del tesoro di Stevenson, libro che rappresenterebbe addirittura una «rara» forma di felicità. E se l’elenco del risvolto non può non proseguire con opere come Il conte di Montecristo, Kim, Michele Strogoff, il lettore può intuire nell’immediato in quale regione letteraria l’anonimo estensore lo stia conducendo. Siamo, decisamente, nel romanzo d’avventura, nel romance a pieno titolo. Qui il sentiero si perde, almeno per una gran parte dei complessi intrecci che svolge, appartiene a quel genere in grado di irretire a trecentosessanta gradi chi si appresti a entrarvi, avvolgendolo in una trama che sembra all’apparenza frantumarsi in più sentieri, a voler riprendere la metafora del titolo. E se la felicità richiede una condivisione, se il racconto tende a farsi riassunto nelle parole del lettore partecipe che cerca di guadagnare al proprio entusiasmo il prossimo lettore, è anche vero che in questo caso parlare di quest’opera, evocarne gli episodi all’insegna di una continuità narrativa diventa pressoché impossibile.
Le coordinate temporali e spaziali, infatti, sono molto dilatate. Le strade percorse non si riducono a paesaggi ma a vere e proprie geografie, distanti e diverse tra loro; vi appaiono luoghi i cui toponimi a stento si ritrovano nei repertori e negli atlanti. Non nascondo di aver seguito la lettura tenendo sott’occhio proprio una serie di mappe, per poter comprendere dove e fino a che punto il sentiero seguito dal protagonista appartenesse alla dimensione del terrestre o si perdesse nei meandri di spiritualità affascinanti quanto lontane, prendendo la tangente del misterioso, dell’incerto, dell’onirico, del trascendente. Spesso gli effetti della scrittura congiurano sapientemente (e con una certa ostinata insistenza, specie nell’ultima parte del libro) perché questo accada, lasciando il lettore nel più totale disorientamento; così il tasso di fascinazione risulta incrinato, specie quando quell’ostinazione tende a farsi sempre più espositiva, didascalica, informativa. Per quanto complessa e polidirezionata, la narrazione riesce quasi sempre a mantenere il ritmo giusto, quello della strada e dell’avventura; verso la fine la concessione a una certa astrattezza, rispetto alle precise descrizioni di città, gruppi, ambienti, siti naturali, lascia intuire la difficoltà di dare consistenza espressiva a dottrine e a concetti, la cui estraneità ai modelli spirituali e conoscitivi dell’occidente si palesa proprio nello sforzo di assimilazione a questo libro-mondo, a quest’opera che ambisce alla globalità.
Ne consegue un altro problema, quello dell’attribuzione. Chi ha davvero scritto, e in che misura, questo romanzo? Come si sarebbe svolta la collaborazione tra i due autori? Nella sua nota, Sicre riporta la dichiarazione di Antoinette, secondo cui ad aver scritto in gran parte gli altri libri sarebbe stato il marito, mentre sul Sentiero peserebbe, al contrario, la sua mano. Stabilire «una divisione esatta» sarebbe impossibile, in effetti; il confronto col solo romanzo di cui non possiamo discutere l’autorialità, La scatola d’osso, rivela ben pochi tratti in comune, sia per la materia sia per lo stile. Eppure lo stesso traduttore ha espresso le sue perplessità, ben conoscendo la versatilità di Antoinette, e del resto all’epoca di quelle affermazioni Marty era morto da un trentennio e non avrebbe potuto smentirle. «Avrà fatto di più, qui – insiste Sicre – che dotare la sua compagna di un canovaccio tagliato su misura?»; e guardando all’intreccio, alle sue incessanti dislocazioni, alle inaudite ampiezze narrative precipitate in lunghe digressioni che non accrescono ma sottraggono mistero, parrebbe piuttosto più presente la sapienza orientalista di Marty, nutrita di letture neospiritualiste, al limite dell’esoterico, percorse da una evidente vena simbolista, come in Guénon, o improntate a una visione più psicologica che storica dell’Asia, come in Grousset, fino alla teosofia di Alexandra David-Néel.
C’era materiale più che in abbondanza, insomma, perché l’ultima parte del Sentiero prendesse una svolta iniziatica, soteriologica. A ben vedere, questi aspetti sono più che allusi anche nelle altre parti e alcune immagini – sorta di apparizioni che guidano il percorso dei protagonisti, suggerendo così che i personaggi siano in realtà uno solo – sono spia di una certa coerenza d’impianto. Il libro, per quanto esteso nei suoi propositi immaginativi, presenta una struttura, risponde al disegno di una narrazione destinata a svilupparsi oltre sé stessa; e ha facile gioco Sicre quando afferma che «la vera protagonista di questo racconto d’avventura è la Siberia stessa», percorsa da un eroe (se vogliamo ancora far ricorso a questa categoria per noi desueta, ma assolutamente calzante in un romanzo che ricalca ampiamente schemi ottocenteschi, proprio quelli dei libri che assomigliano alla felicità) che potrebbe essere reale, ovvero sottratto alla Storia; sì, quella con la maiuscola, perché il sospetto che si tratti niente di meno che del vincitore di Napoleone ci accompagna, senza mai lasciarci, per tutta la durata della lettura e sarà proprio questa ambiguità sostanziale, strada facendo, a orientare la nostra ricerca di significati, i nostri tentativi di afferrarci a qualsivoglia dettaglio, pur di non perderci dietro all’invito del titolo.
Di cosa narra, allora, Qui il sentiero si perde? Ci troviamo, sulla soglia del racconto, in una sala da ballo, in «una notte ciscaucasica». Ci affacciamo, quindi, sul confine fisico, e non solo, delle nostre categorie occidentali. Il nostro modello culturale e le sue aristoteliche certezze terminano lì. Oltre è in ogni senso l’«oltre», un territorio sconfinato in cui una decina di migliaia di chilometri, paesaggi mutevoli di pianure, improvvise catene montuose, deserti e foreste, fiumi ardui da guadare e laghi che ricordano vasti mari interni, città da fiaba o prigioni da incubo aprono la possibilità di ogni avventura. Un’intera porzione del più vasto continente non si limita a fare da sfondo, ma permea di sé le scelte dei personaggi, ne determina le svolte improvvise, le fughe, gli incontri e gli allontanamenti, sempre alonati da quella vaghezza e da quel mistero che segnano, nella loro ineluttabilità, la scrittura di un destino, il piegarsi a un moto di conoscenza che passa di necessità attraverso metamorfosi radicali; non soltanto tra un racconto e l’altro, nell’apparente staffetta tra personaggi diversi che risultano proiezioni, o stadi, di una stessa identità, ma anche all’interno di uno stesso racconto, dove la reattività del protagonista è profondamente veicolata dalla natura dei luoghi.
Improvvisa giunge in quella sala la notizia della morte dello zar Alessandro I, così da legare il romanzo a un preciso contesto storico, finanche a una data: il 1825. Il sovrano ha avuto una figlia fuori del matrimonio, amata perfino dalla zarina. Il suo improvviso decesso getta Alessandro in un tale stato di costernazione da fargli rimettere in discussione ogni aspetto della propria esistenza. Questo, molto in sintesi, il già ampio antefatto; come nella migliore tradizione fiabesca, a cui tutto deve il romanzo d’avventura, la narrazione vera e propria inizia da uno stato di sciagura e di privazione, cui segue sempre un allontanamento. Se ci prestiamo a leggere l’intreccio con le lenti di un archetipo meraviglioso, l’ambiguità del protagonista (o dei protagonisti) si risolve nell’immediato; comprendiamo così che lo zar non è morto, ma, come vuole tutto un filone di leggenda che ancora oggi turba gli storiografi e che non cessa di alimentarsi in terra russa, avrebbe invece abdicato in segreto, per poi condursi, durante un quarantennio circa, come un vagabondo errante per le strade più estreme di un impero fin troppo vasto, lungo cui si sarebbe facilmente imbattuto in una vera (questa sì) staffetta delle spiritualità: dal cristianesimo ortodosso alle varie correnti islamiche, fino all’incontro con il buddhismo e addirittura con qualcosa di ben più remoto, arcaico, perturbante: lo sciamanesimo. Sulla scia dell’anonimo La via di un pellegrino, già pubblicato dalla stessa Adelphi nel lontano 1972, Alessandro avrebbe incrociato, come scrive Sicre, «gli enigmatici abitanti dell’Asia profonda: dervisci erranti alla ricerca di un’estasi non più di questo mondo, lama ascetici sfuggiti alle gelide desolazioni della Mongolia, sciamani iniziati ai segreti della taiga».
Questa prima parte si intitola L’angelo ed è quella in cui la perduta figura filiale pare assumere i caratteri di uno spirito guida, pronto a riapparire e a intervenire nei fondamentali momenti di svolta per orientare i passi del protagonista verso un altrove neppure agognato ma imposto. Il sentiero di Alessandro – sempre ammesso che di lui si tratti – in realtà è perso fin dal principio, nella mancata elaborazione del lutto e in una volontà di distacco dalla politica, dalla società, dal potere stesso. Come recita il titolo della seconda parte, il personaggio si fa «fuggiasco». La coerenza storica è rispettata: nel «gennaio del 1826», nei panni di un «cavaliere solitario», si trova a bussare al portone del monastero della Resurrezione. Da qui, da questo primo e potente segnale iniziatico, le sue peripezie prendono avvio in una incessante coazione al movimento: la stanzialità, si sa, è la prima nemica dell’avventura. Sono tanti e diversi i luoghi che si troverà a percorrere: da Semipalatinsk, «cittadina sonnolenta tra le sabbie dell’Irtys» a Bukhara, dalle cupole azzurre della città di Tamerlano, Samarcanda, alle più remote steppe mongole, fino all’ultima discesa verso il Mondo, in definitiva dentro sé stesso. Ed è qui che, messe di fronte all’ineffabile, le quattro mani scriventi hanno dovuto cedere al didascalico; ma fino a quel punto, fino ai tre quarti del romanzo la narrazione prosegue avvincente, costringendoci a salti spaziali non da poco, a vaste traversate compiute ora con insolita lentezza e difficoltà, ora con grande rapidità, in incessanti vortici del tempo, che più che confonderci ci spronano all’inseguimento di un personaggio divenuto inevitabilmente «altro», e in questo profondamente assimilato all’«altrove» che con lui ci chiede di attraversare.