Biennale Teatro / Revenants
Lo scandalo della morte domina l’Orestea di Anagoor, lo spettacolo che ha inaugurato la seconda Biennale Teatro diretta da Antonio Latella dedicata all’attore/performer. Questa rivisitazione dell’antica tragedia si snoda in una luce crepuscolare, opaca, ravvivata ogni tanto da sbaffi appena colorati che segnano come didascalie drammatiche alcuni personaggi o oggetti. Ricorre a microfoni, amplificazioni, registrazioni, proiezioni, danze, visioni e videovisioni, musiche, soprattutto una musica continua (di Mauro Martinuz) che sprofonda in inquietudine assoluzione meditazione tempesta, in un lungo continuo crepuscolo dell’agire umano disegnato con meravigliosi colori purgatoriali da Fabio Sajiz, un vero mago della luce e della sua sottrazione.
Simone Derai e Patrizia Vercesi firmano traduzione e drammaturgia (il solo Derai la regia) dell’ultima creazione di uno di quelli che si sarebbero detti nuovi gruppi anni 2000, ormai assurto a un livello da grande ensemble europeo (anche per il numero di coproduttori e sostenitori). Un fitto gruppo di giovani e giovanissimi, cresciuti nella factory di casa a Castelfranco Veneto e dintorni o in precedenti incursioni della compagnia ai College Biennale, con la guida del didaskalos di Marco Menegoni e delle coreografie di Giorgia Ohanesian Nardin, costituisce il cast.
Lo spettacolo si incardina, mi sembra, su alcune diverse apparizioni dei Kindertotenlieder (canti per i bambini morti) di Gustav Mahler, eseguiti con voci diverse, prima dalla regina Clitemnestra (Monica Tonietto) e poi dalla veggente troiana, straniera, Cassandra (Gayané Movsisyan), sempre in modi strazianti, rallentati, dolcissimi, accompagnati dal pianoforte di Massimo Somenzi. Bambini morti. Morte come cesura irrecuperabile, come strazio di fango secco, rocce spaccate, mare tenebroso, sale e sudore, grida e silenzi, rapida putrefazione, che è la realtà sottostante l’indorata immagine classica trasmessa della Grecia, marmi e azzurro del cielo: una rimozione dell’abisso di una civiltà che ha cercato di rendersi comprensibile, con la filosofia e con il teatro, lo strazio della morte, la sua violenza irredimibile.
Il pezzo che avete appena letto è liberamente citato dal discorso, al microfono, del didaskalos nella prima parte: un’oratoria che spesso tornerà a chiarire, a domandare, ripercorrendo i cori dell’Agamennone, testi filosofici che si interrogano sulla vita e sulla morte, sulla violenza, sul peccato che conduce alla rovina, sulla giustizia e la stritolante immutabile necessità del destino, una catena che a un certo punto avvinghia e trascina. È uno degli inserti compositi della drammaturgia, con brani di un ampio ventaglio di scrittori della crisi della modernità, dal teologo Quinzio a Sebald, da Leopardi ad Annie Ernaux, riguardando indietro a Broch fino a Virgilio, protagonista di un altro lavoro “classico” di questa compagnia, che iniziò ripercorrendo quadri come La tempesta di Giorgione e che sempre di più propone un teatro “saggistico”, capace di aprire squarci nella nostra condizione in bilico.
Attore/performer è il dubbio che guida il secondo festival con la direzione di Latella: recitare un ruolo o essere in scena più o meno sé stessi (semplificando). Come sempre le sbarre, i versus, non prevedono il vero spazio del dibattito: il tra, i passaggi, quegli slittamenti tra personaggio, interprete, citazione del personaggio, finta identità dell’interprete o sua trasformazione in figura, eccetera, con cui, per esempio, ci ha folgorati il teatro di Deflorian-Tagliarini. Qui degli interpreti traspare poco: ma il taglio apparentemente saggistico, la rottura continua della fabula, ben presente nella stessa tragedia con i momenti di riflessione del coro, o amplificata con gli inserti video (di Derai e Giulio Favotto) riportano continuamente a questioni urgenti, nostre. Con quei bambini, al centro, bambini morti, il massimo dell’assenza: “Non devi in te la notte rinchiudere, e nasconderla, / ma lasciarla affondare e perdersi nella luce eterna” scrive Rückert (e Mahler musica). Quelli che determinano la tragedia: Ifigenia, giovane figlia di Agamennone, immolata in sacrificio dal padre alla dea per far partire la flotta greca contro Troia; i figli di Tieste dati in orrendo pasto al padre dal fratello Atreo per vendicare antichi torti… Un agnello vien portato in scena: sacchi di lana sono rovesciati sul fondo, animali portati al macello…
È la macchina dell’odio, della morte che chiama altra morte. È il ricordo della principessa straniera Cassandra, veggente e bottino di guerra, delle stragi della sua gente, a Troia, ancora Kindertotenlieder, mentre Clitemnestra fa entrare nella reggia il marito reduce da Troia su un tappeto prezioso (e lui non vorrebbe), e poi, a tradimento, lo colpisce a morte nella vasca da bagno, per vendicare Ifigenia, con l’aiuto del figlio scampato di Tieste, Egisto, per vendicare il pasto cannibalico offerto al padre. Museruole di stoffa sulle bocche, silenzi per celare, per non urlare l’orrore, per mascherare. Agnello che ha nel ventre, squarciato, teschi e ossicini. Morte in agguato. Tempesta. Vendetta. Il tutto raccontato, nel primo atto dello spettacolo, Agamennone, molto lungo, più di due ore, in modo apparentemente freddo, composito, che fa nascere l’emozione per associazione, per montaggio, per devastazione. Quando Agamennone arriva trionfante, tre portatori esibiscono riproduzioni velate della famosa maschera mortuaria ritrovata da Schliemann negli scavi di Troia: archeologia della morte, come una maledizione, come la memoria di un’eterna cancellazione.
Si avvia più veloce lo spettacolo alla fine nella seconda parte, che riprende Coefore con un atto chiamato Schiavi e Eumenidi con Conversio, dominato da greggi di pecore e agnelli tosati, in video. Si apre ancora con un intervento del didaskalos che racconta la presenza ingombrante, perseguitante dei morti, che non lascia requie ai vivi in certe culture, in molti rituali, ossessionando con il complesso di essere sopravvissuti. Si sente dire, in un lungo, bellissimo pezzo sui cimiteri, che accompagna gli atti rituali di Elettra, la figlia inconsolabile di Agamennone, e l’arrivo di Oreste, il figlio che vendicherà il padre uccidendo la madre:
Regrets éternels – come quasi tutte le formule con le quali esprimiamo il nostro affetto per coloro che ci hanno lasciato, anche questa non è priva di ambiguità, perché i superstiti annunciano sì con somma concisione la loro eterna inconsolabilità, ma nel contempo – a ben vedere – quasi inoltrano un'ammissione di colpa ai loro morti, una fredda richiesta di indulgenza rivolta a chi, troppo presto, abbiamo messo sotto terra.
Morti che ritornano, che improntano la vita. Padri che hanno ucciso i figli e che non smettono, neppure da fantasmi, di perseguitare la loro stirpe, chiedendo nuovi tributi, in una lotta per la libertà che pare impossibile.
Il fascino di questo spettacolo è il tempo lento, meditativo, fatto di piani separati che si intarsiano, di voci lontane, rimbombanti, riprodotte e presenti, di danze trattenute e slanciate, e l’esplosione della seconda parte, la concentrazione, l’evocazione di aspri rituali di distacco, lutto, grida e graffi, le Furie come voce della morte che esige ascolto. Si precipita nella danza, il finale, danza in cerchio, rotatoria, come quelle estatiche dei sufi, uscire da sé, non sappiamo se verso vincoli ulteriori o verso una liberazione come evasione dalle ristrettezze di una realtà che si impone attraverso la parola codificata, che cerca le sue vie di fuga per mezzo della rievocazione memoriale, la sovrapposizione dei piani, la liberazione del linguaggio e della storia.
Tutte le immagini scompariranno. Quelle reali, quelle immaginarie, quelle che persistono anche nel sonno, le immagini di un momento bagnate da una luce che è soltanto loro. (…) Eppure la lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa, pur sempre più senza volto, noi saremo ancora un nome. (…)
Lo spettacolo si chiude con un trapano che lavora il gesso e fa emergere una classica figura di Virgilio, il poeta mago, rievocato attraverso le parole di Hermann Broch, in un’apparizione, negli ultimi istanti del poeta, di un’ora in cui tutto si sovrappone, passato e presente:
Allora “la pura parola lo investì fragorosa, sempre più piena, sempre più forte, tanto che nulla più poté resisterle e l'universo svanì dinanzi alla parola, si dissolse e si vanificò nella parola, e tuttavia era ancora contenuto nella parola, custodito in essa, annientato, e creato ancora una volta e per sempre, perché tutto era salvo e nulla era andato perduto”.
Le immagini svaniscono e si contengono in una parola al di là della parola assoluta. Quella del teatro, che crea moltiplicazioni, innesti, illusioni, che percorre passato e presente, classico e contemporaneo, incalzato dal bisogno di provare, soltanto provare, a decifrare il mistero.
Nel primo fine settimana della Biennale Teatro Antonio Rezza e Flavia Mastrella, leoni d’oro (gli Anagoor erano il leone d’argento), hanno presentato una personale dei loro lavori, dei quali più volte abbiamo parlato su doppiozero. Scenografie come case, come ambienti, come casacche da indossare percorrere rivoltare con la fisicofollia dell’attore romano, un po’ Totò un po’ Artaud.
Notevole la prova prima del regista under 30 Leonardo Lidi, prescelto tra molti partecipanti ai College (i momenti didattici, laboratoriali) della Biennale, in una produzione dell’Ente veneziano (iniziativa ottima): Spettri, da Ibsen (drammaturgia dello stesso Lidi). Il punto debole del lavoro è che per apprezzarlo appieno bisogna bene conoscere l’opera di partenza dello scrittore norvegese. Perché lo spettacolo varia, fa a pezzi, disossa dall’interno il testo. Magnifica, asciutta, profonda, mobile è l’interpretazione di Michele Di Mauro in straniante zimarra nera femminile, accompagnato da una Matilde Vigna virata a toni apparentemente leggeri, un’attrice giovane assolutamente da ricordare, da Mariano Pirrello, forte fino alla violenza, da un Christian La Rosa rattrappito nella parte di un Osvald che traduce le sue deficienze morali in handicap fisico (bravissimo, ma non sarebbe certo piaciuto a Piero Giobetti, che esecrava questa soluzione, usatissima da Zacconi).
Di Mauro è la vedova del sempre incombente Capitano: lei, come tutti gli altri personaggi, vengono a poco a poco invasi dal loro passato, e quindi dal fantasma di lui, che domina, possiede, strazia, le persone e le parole, con sovrapposizioni e trasformazioni nei rapporti tra i quattro personaggi viventi e l’ingombrante fantasma, il già compiuto che torna come destino in una società borghese ridotta a riti familiari senza eroismo verso un finale fisico, travolgente, che in un diluvio che non diventa lavacro lascerà morti e feriti sul palcoscenico. Una prova notevole, che forse avrebbe bisogno di qualche ulteriore aggancio drammaturgico per essere pienamente apprezzata. E comunque un’opera prima di spessore, da far circuitare.