Roberto Esposito: reinventare la vita
Non riescono a capirlo. Quello che i reazionari di tutti i tempi non capiscono (i reazionari sono coloro che contestano la modernità in nome della natura e della tradizione) è che non c’è niente, nella vita degli esseri umani, di semplicemente naturale: “non c’è natura senza storia, nel senso che l’uomo è un animale naturalmente storico, vale a dire situato in un contesto che egli stesso contribuisce a formare” (Roberto Esposito, Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione, Einaudi 2023, p. 130). La natura umana non è indipendente dalla storia dei modi con cui gli esseri umani hanno lavorato e modificato la loro stessa natura. Ma questo significa che l’unica natura umana effettivamente praticabile è quella che gli esseri umani hanno socialmente e storicamente istituito. Prendiamo il caso del corpo umano. Nonostante – come viene continuamente ribadito, benché in modo molto approssimativo – non si possa “prescindere dal fatto che i cromosomi siano quelli”, ebbene quegli stessi cromosomi non hanno l’ultima parola. Qualcuno può nascere con un determinato insieme di cromosomi, ma questo non gli impedisce di non trovarsi a proprio agio con quell’insieme. La biologia non è un destino, non sono i cromosomi a decidere. D’altronde non facciamo altro, dagli occhiali alle protesi di tutti i tipi (anche le sostanze psicotrope, compresi alcol e caffè, sono protesi cognitive) che modificare quello che non a caso chiamiamo il ‘nostro’ corpo; corpo che possiamo definire ‘nostro’ proprio perché è l’oggetto delle nostre azioni. In questo senso la vita, per gli animali umani, è appunto una vita sempre istituita, e quindi una vita storica e sociale, ché i modi di istituire la vita cambiano nel tempo.
Tuttavia questo non significa, qui risiede il punto propriamente filosofico del libro di Esposito, che allora la vita non sia altro che una istituzione affatto artificiale. Quella del vitam instituere è una prassi che non può, e non deve, mai interrompere la relazione con il fondo biologico, ‘naturale’, dell’esistenza umana. Altrimenti, ed è evidentemente il rischio del nostro tempo ipertecnologico e ipernormativo, si pone il rischio che la vita diventi esclusivamente un’entità istituzionale – e quindi astratta e arbitraria – e non abbia appunto più nulla di naturale. Una istituzione, di qualunque tipo, che abbia reciso i propri legami con il campo naturale diventa infatti un dispositivo che si presume autosufficiente, e che finisce per rendere impossibile la vita. Perché l’istituzione non ha per scopo di determinare che caratteristiche debba avere la vita (eugenetica politica), o tantomeno impedire la vita, ma renderla possibile nei modi che gli esseri umani scelgono e preferiscono: “le istituzioni si conservano se e fin quando non perdono il rapporto con la propria fonte – vale a dire con il potere costituente” (p. XI), cioè con il potere intrinseco alla vita stessa.
Sono evidenti i due rischi opposti ma in fondo simili che Esposito vuole evitare: da un lato quello di chi ritiene che lo spazio della vita si collochi al di qua delle istituzioni e della storia (la posizione del reazionario), dall’altro quella di chi ritiene che invece la vita sia ormai soltanto quella istituita, e quindi sia del tutto artificiale e, in fondo, del tutto ‘innaturale’. Mentre Esposito vuole assolutamente tenere insieme i due termini che compongono l’apparente ossimoro del vitam instituere, la vita e l’istituzione, il naturale e lo storico, il necessario (il dato biologico) e il contingente (il dato socialmente mutevole): “il pensiero istituente coglie da un lato la storicità della natura e dall’altro la radice naturale della storia. Storia e natura umana s’incrociano nella costituzione biologica del corpo vivente, naturalmente istituito” (p. XVI). Il reazionario e il transumanista (che prendiamo come prototipo di chi pensa che la natura non sia altro che un materiale da usare a proprio piacimento) non colgono, per Esposito, il legame intrinseco che unisce la vita e l’istituzione. Senza questo legame l’appello alla vita e alla natura diventa presto un ostacolo all’inevitabile e necessario cambiamento sociale, oppure la vita finisce per dissolversi per non diventare altro che una sorta di software disincarnato e del tutto virtuale.
Al contrario l’istituzione, per Esposito, deve sempre accompagnare la vita, renderla più vivibile e, paradossalmente, storicamente più ‘naturale’. Perché altrimenti il movimento della vita, lasciato a sé, correrebbe il rischio di diventare autodistruttivo, come sovente accade nel mondo della vita non umana, che non conosce altre regole che quella della fitness evolutiva. In questo senso “l’istituzione ha una funzione stabilizzante che interrompe la fluidità del movimento sociale in momenti discontinui che di volta in volta lo consolidano e lo determinano funzionalmente. Per stabilizzare il processo in forme durevoli, anzi, la prassi istituente deve rallentarlo attraverso una serie di pause in mancanza delle quali la vita si espanderebbe senza limiti. Il diritto, pur incorporandone la potenza, deve, per così dire, trattenere la vita per conservarla tale” (p. 118).
Per Esposito il diritto, cioè la prassi che istituisce il campo della vita propriamente umano, non si oppone alla vita, come tuttavia spesso è difficile non pensare (si pensi ai regolamenti sempre più minuziosi che pretendono di normare ogni aspetto della vita umana), al contrario, lo rende possibile. Cioè permette alla potenza intrinseca della vita di scorrere, e quindi di rimanere appunto vitale, senza distruggere sé stessa, ad esempio attraverso un conflitto incontrollato fra le diverse parti sociali: “la società non coincide totalmente con sé stessa, non ha la forma dell’Uno, ma piuttosto del Due – nel senso che è stabilmente alterata, cioè in rapporto costante con un’alterità che la taglia dall’interno e la sfida dall’esterno” (p. 136). Questo è un punto su cui Esposito insiste molto e spesso, perché per evitare le derive immunitarie che pretendono di sterilizzare ogni conflitto sociale (come nelle società dispotiche e illiberali), si tratta piuttosto di accogliere il conflitto come elemento fondamentale e fondante della vita sociale senza però che questo stesso conflitto renda impossibile la vita: “compito del potere – del quale, contrariamente a quanto immagina l’anarchismo, sia politico che filosofico, nessuna società può fare a meno – non è quello di ricomporre la divisione sociale, mettendole fine, ma di governarla, evitando che degeneri in forma autodistruttiva” (p. 135).
Vitam instituere vuol dire appunto tenere insieme, o piuttosto provare a tenere insieme, la dimensione vitale, ‘naturale’ con quella storica, arbitraria, contingente del mondo umano. Questo significa, però, che una vita del tutto ‘naturale’ è ormai del tutto preclusa, se non impossibile, per gli esseri umani. Se la vita biologica è affermazione (l’istinto di autoconservazione), allora la vita umana non può non accogliere al suo interno un elemento di negatività, di coercizione istituzionale: “per restare in vita, riproducendosi ad un livello superiore, la vita deve confrontarsi con un elemento negativo che ne impedisca la dissipazione e la rafforzi. Per consolidarsi, deve trattenere i propri impulsi eccessivi” (p. 118). Ricorre spesso, in queste pagine, questo tipo di osservazioni, sulla vita che non può essere lasciata a sé stessa, ché altrimenti rischia di trasformarsi nel suo contrario, la morte che brutalmente pone fine ad ogni possibilità vitale. Per questa stessa ragione il mondo umano, per Esposito, si configura come un mondo istituito: “l’esito è una ontologia giuridica che si proietta sull’intera realtà, guardata tutta dal punto di vista del diritto. […]. Questo non si limita a descrivere la realtà – anche quella situata al suo esterno. Ma ha la facoltà performativa di crearla, facendone appunto una ‘realtà giuridica’” (p. 121).
Ma se il mondo umano è ormai “una realtà giuridica”, che cosa diventa, allora, la stessa natura? La natura, per così dire, semplicemente naturale? C’è qualcosa, nella vita degli animali della specie Homo sapiens, che non venga rilavorato della potenza delle istituzioni? Crediamo che la risposta, per Esposito, non possa essere che negativa, proprio perché vita e istituzione, nel mondo umano, non si escludono ma piuttosto si implicano reciprocamente. Ma questo – come abbiamo visto – non equivale a dire che l’umano sia ormai un vivente del tutto artificiale: “non solo l’istituzione non soffoca il libero gioco degli istinti, ma ne favorisce l’espansione. Diversamente dalle leggi che ne inibiscono la soddisfazione, la prassi istituente la facilita attraverso un sistema di mezzi che raggiungono lo scopo non direttamente, ma in maniera obliqua, passando […] per l’immaginazione” (p. 128). Nonostante questa mutua implicazione di vita e istituzione, l’esperienza del nostro tempo (si pensi alle misure di limitazione della libertà personale, peraltro necessarie da un punto di vista sanitario, prese per contenere la diffusione della pandemia del Covid-19) sembra però indicare che la potenza delle istituzioni sia sempre maggiore, e sempre più rischi di sterilizzare la potenza della vita, che è una potenza proprio perché non è del tutto (e spesso per niente) istituzionalizzabile. Esposito si rende conto di questo rischio, che altererebbe per sempre il peraltro difficile equilibrio fra il dinamismo della vita e la potenza normalizzante del diritto attraverso cui si manifesta la potenza delle istituzioni. Per questa ragione l’ultima parte del libro è dedicata all’immaginario, ossia a quella potenza di figurarsi mondi possibili e sempre nuovi che spezza la tendenza delle istituzioni a chiudersi in sé in una bolla immunitaria: “noi immaginiamo sempre, anche e soprattutto quando pensiamo. E che anzi la più alta attività umana, quella del pensiero, dipende dalla produzione di fantasmi immaginativi. Ma ciò vuol dire che l’immaginazione non è sottoposta al discrimine tra vero e falso, perché lo precede, esercitando un potere che non è nelle nostre mani, essendo presupposto a ogni attività mentale” (p. 138). Alla base delle istituzioni c’è questo potere che sfugge ad ogni presa, e che anzi rende possibile l’esistenza stessa delle istituzioni che di volta in volta si realizzano concretamente. Un’immaginazione che trae la sua potenza da quel fondo ‘naturale’ che sempre di nuovo inventa modi diversi di essere umani. Un’immaginazione che non smette di reinventare la vita.