Shakespeare non sapeva il greco e Omero non sapeva l’inglese / Sapere di greco e di latino
“Il signor Vladimir, aggiustandosi la cravatta, osservò Verloc nello specchio sopra il camino.
– Ho l’impressione lei conosca abbastanza bene il gergo socialrivoluzionario, – disse in tono sprezzante. - «Vox et»… Ma, il latino, l’ha mai studiato?
– No, – ringhiò Verloc. – Pretendeva lo sapessi? Io appartengo alla massa. E chi sa il latino? Solo poche centinaia di imbecilli, incapaci di provvedere a se stessi”.
È The Secret Agent di Joseph Conrad ed ecco balenarvi d’un tratto (e con forte connotazione sociale: erano appunto gli inizi del Novecento) il tema della lingua di Cicerone, in una coppia di ruvide battute. La chiusa suona tutt’altro che consolatoria per la maggioranza di coloro che, in questi mesi, si sono impegnati nel dibattito sul valore delle lingue classiche.
Come si sa, latino e greco antico sono infatti venuti inopinatamente di moda. Tutti a parlarne, molti a scriverne sui giornali, in rete o, addirittura, a dirne in televisione. In libreria, correlativamente, alcuni libri. Geniale il greco antico, bello il latino, inutili ambedue ma ovviamente solo per antifrasi e via invece con le apologie.
Forse non in tutti i loro dettagli, tali apologie sono condivise da chi scrive, che tra studio e lavoro ha trascorso più di mezzo secolo in compagnia del latino e quasi altrettanto in compagnia del greco antico. Compagnie non sempre amabili, ma ce ne sarebbero potute essere di peggiori. E poi alle frequentazioni intime e annose ci si affeziona.
Sulle due lingue, come si diceva, un temporale di parole. Classico, anche quanto alla durata: un temporale è sempre prevedibilmente breve. Presto, su latino e greco antico tornerà il sereno. La tempesta si è addensata anche a causa di ventilate misure di ridimensionamento didattico delle due lingue nei programmi delle scuole che ancora le contemplano. “A qual pro lo farebbero, nel mondo d’oggi?”, ci si è chiesti. Le risposte hanno cominciato a venir giù come chicchi di grandine.
C'è tuttavia il sospetto che, nella considerazione collettiva, a ridimensionare latino e greco antico abbiano forse già provveduto i fatti e che, giunta al suolo, la grandine finirà per sciogliersi, così come svaniranno paroloni e paroline. Ove fossero adottate, le misure sarebbero quindi una banale presa d'atto. Il mondo fa da sé, di norma. Poi, ci sono coloro che, per mestiere, fingono di governarlo. I meno svegli lo rincorrono. I più svegli lo cavalcano (capita pure ne vengano disarcionati). E quanto alle lingue classiche, i buoi sono già fuori delle stalle. Circostanza decisiva a sostegno di un’eventuale nuova norma che, in fase transitoria, consenta ai buoi di stare fuori delle stalle e, in fase definitiva, li obblighi a farlo.
Del resto, proprio oggi e “in exitu”, latino e greco antico mostrano di avere una loro modesta e paradossale utilità. Servono a vendere qualche libro e alimentano una letteratura in quella chiave etico-elegiaca con cui ci si esprime a proposito di valori perenti, di memorie perdute e di cari estinti. Nel bacino d’utenza, soprattutto coloro che, della cultura, hanno per retaggio scolastico una visione edificante e considerano la decadenza culturale tema di bruciante attualità. Dimenticano forse che la crisi è lo stato perenne della cultura. Non hanno presente che (la faccenda era così riassunta da Ennio Flaiano, già sul principio del fatidico Sessantotto) “Shakespeare non sapeva il greco e Omero non sapeva l’inglese”.