Suspense!
Nel corso della “Conversazione con il cervello di Einstein” la tartaruga propone ad Achille un metodo alternativo per apprezzare un brano musicale: gustarne in un solo colpo struttura, modulazioni e sfumature osservando la superficie di un disco che lo contiene. «Poiché tutta la musica è sulla faccia del disco, perché non assorbirla con un’occhiata, o al massimo con una rapida scorsa?» si chiede la tartaruga nel surreale dialogo concepito da Douglas R. Hofstadter. Comprimendo l’esperienza in un breve e intenso attimo, essa potrebbe addirittura diventare più potente: l’animale ritiene che «ciò procurerebbe di sicuro un piacere molto più intenso.» La perplessità di Achille è anche la nostra perché intuiamo che l’ascolto di un brano musicale coinvolge in modo determinante la dimensione del tempo. La stessa componente è essenziale in qualunque tipo di narrazione per immagini, in primis quella cinematografica. La possibilità di agire su tale dimensione in modi sofisticati è al centro de La suspense. Forme e modelli della tensione cinematografica, saggio di Giampiero Frasca che, in modo approfondito e sulla base dell'analisi filmica di un vastissimo repertorio visuale, indaga i meccanismi di generazione e produzione della tensione come principio espressivo.
Cercando di individuare i fattori determinanti della suspense, il critico cinematografico evidenzia in particolare l’effetto giocato sulla linearità del tempo da parte di una serie di ostacoli fisici, che limitano l’azione dei personaggi e ne mettono in dubbio la possibilità di salvezza: l’enfasi della narrazione si concentra in modo drammatico su quelli che potrebbero essere gli ultimi istanti prima della catastrofe, magnificandone la durata e inchiodando così gli spettatori al lento dispiegarsi del racconto. Nel 1967 Jean Douchet aveva colto il ruolo chiave del concetto di “incertezza”, definendo la suspense “la dilatazione di un presente stretto tra le due possibilità contrarie di un futuro imminente.” Più di recente Aaron Smuts ha evidenziato l’ingrediente fondamentale della frustrazione: “l’impossibilità di intervenire attivamente, l’osservazione passiva, la partecipazione emotiva con il protagonista […] generano quelle sensazioni frustranti che rappresentano il sale della suspense.” Frasca conduce l’analisi un passo oltre, individuando la natura paradossale della percezione emotiva prodotta dalla suspense “situata a metà tra la paura che qualcosa di spiacevole accada e il piacere venato di conforto dovuto alla certezza che, per quanto pericolosa, la situazione è esperita indirettamente, senza che sia messa a repentaglio l’incolumità del pubblico.”
Il meccanismo è sfruttato sin dagli albori del cinema: nel film di David W. Griffith Intolerance (1916) la salvezza di un condannato a morte è legata alla frenetica corsa di chi ha tra le mani una lettera di grazia firmata dal governatore; ma se il saggio di Frasca approfondisce soprattutto la suspense cinematografica, il “salvataggio all’ultimo minuto” è un meccanismo che Hollywood eredita dal teatro. Nel melodramma di Augustin Daly Under the Gaslight, messo in scena a New York a partire dall’agosto 1867, il protagonista Snorkey viene legato ai binari di un treno dal cattivo, mentre la compagna Laura è rinchiusa nel gabbiotto del capostazione. «Oddio, il treno!» esclama la donna quando appare una locomotiva all’orizzonte. Dapprima è paralizzata, poi si accorge che nella stanza c’è un’ascia. «Apriti un varco nel legno!» esclama l’uomo: «Evita la serratura e colpisci intorno! Dannato formicolìo al collo… Coraggio! Coraggio! Sei una grande donna! Coraggio!» L’avvicinamento del treno si intuisce dalle luci sempre più intense che, da un lato del palcoscenico, incombono sull’uomo legato ai binari; il rumore del convoglio a vapore, intanto, si fa sempre più assordante. La salvezza arriva un istante prima che la locomotiva occupi l’intero spazio della scena, quando Laura riesce a slegare Snorkey e portarlo in salvo. L’idea fu al centro di una contesa legale quando, sull’altro lato dell’oceano, Dion Boucicault la sfruttò a Londra per la sua commedia After Dark. Come esito del processo Daly ottenne di farsi pagare una royalty per ogni replica dello spettacolo londinese. La dinamica divenne tanto celebre che sui poster di tutte le produzioni successive si leggerà l’annuncio “The Great Railroad Scene is Presented”. In tribunale venne anche fuori che la scena di Daly non era del tutto originale: se il cinema si sarebbe ispirato al teatro, il teatro si era a sua volta ispirato a un racconto pubblicato su una rivista.
Nel 1890 Joseph Arthur introduce sul palco una sega rotante e un nastro trasportatore: Perry, protagonista del suo melodramma Blue Jeans, viene legato al rullo in movimento mentre June, l’eroina della storia, è confinata a forza nell’ufficio della segheria. Il pubblico assiste all’inesorabile avvicinamento dell’uomo alla lama mentre la donna cerca di abbattere la porta per metterlo in salvo. L’artista che porterà all’estremo le possibilità della suspense sul doppio binario delle esibizioni live e quelle cinematografiche è il più noto illusionista del ventesimo secolo: incarnando il classico uomo-che-non-deve-chiedere-mai, Harry Houdini farà a meno di un’eroina salvifica, spettacolarizzando l’abilità di liberarsi da ogni costrizione senza alcun aiuto esterno.
Consapevole del ruolo chiave del tempo nel creare la suspense, seppure sia in grado di uscire da un bidone pieno d’acqua in pochi secondi, il mago presenta la fuga nascondendosi dietro un paravento. Prima di calarsi nel contenitore, Houdini invita il pubblico a prendere un lungo respiro e turarsi naso e bocca per tutta la durata del numero. Un grande orologio sul palco scandisce il passare dei minuti e ciò che avviene nel bidone è lasciato all’immaginazione degli spettatori – costretti uno dopo l’altro a interrompere l’apnea e immaginare la sfibrante lotta del mago contro l’annegamento. Chi potesse sbirciare dietro il paravento lo vedrebbe uscire sano e salvo dopo una manciata di secondi e accovacciarsi su un lato, in attesa che siano trascorsi svariati minuti. Solo quando è chiaro a tutti che nessuno sarebbe in grado di sopravvivere tanto a lungo in apnea, Houdini si alza di scatto e scaraventa da un lato la copertura, fingendosi stremato e ansimando fradicio tra gli applausi. Anticipando i quattro minuti e trentatré di John Cage, per un periodo interminabile sul palcoscenico non succede nulla, ma sono le premesse narrative fissate dal mago a riempire di suspense quel vuoto: la prospettiva della morte è l’ingrediente che caratterizza tutte le più note performance dell’escapologo ungherese.
Sfruttando il cinema come veicolo pubblicitario, Houdini porta le stesse dinamiche sulla pellicola: tra il 1919 e il 1923 è il protagonista di cinque film creati su misura per il suo personaggio; le trame sono studiate per collocarlo in tutte le classiche situazioni di pericolo già esplorate a teatro ed esaltarne le doti di artista della fuga. The Grim Game (1919) racconta il tentativo, da parte di Houdini, di salvare la fidanzata che è stata rapita da una gang. Il film incarna in modo fin troppo letterale il meccanismo della suspense così efficacemente riassunto da Frasca: “Il personaggio X si trova in una situazione minacciosa A e deve arrivare in un luogo B per mettersi in salvo. Segmento lineare. […] La narrazione invece differisce e inserisce tra A e B una successione di ostacoli, impedimenti, casualità e complicazioni che il personaggio X deve superare prima di poter raggiungere il suo scopo.” Come da manuale, il lungometraggio documenta una mera sequela di catture e successive fughe da parte di Houdini, limitandosi a variare gli ostacoli fisici che interrompono la linearità del tempo – dalle sbarre di una prigione alle corde che costringono il mago a un palo – fino all’agognata liberazione della donna amata.
Se è vero che, come scrive Sophie Lachapelle, “la crescente popolarità del cinema all’inizio del ventesimo secolo fu devastante per i teatri che mettevano in scena gli spettacoli dei prestigiatori”, è indubbio che una fuga rappresentata sul grande schermo non poteva eguagliare – in impatto emotivo – i brividi prodotti da Houdini quando metteva a rischio la vita in teatro; non c’è dunque da stupirsi se la magia ha continuato a essere rappresentata dal vivo fino ai giorni nostri, valorizzando in particolare la dimensione della presenza corporea dell’artista nello spazio della rappresentazione.
Pochi anni prima un altro personaggio aveva giocato in modo insolito sulla suspense – ma senza porsi alcun obiettivo estetico; l’impresario Elisha Otis voleva soltanto fare colpo sui clienti e piazzare la sua nuova invenzione. La dimostrazione del funzionamento del primo ascensore ha luogo nel 1854 al Crystal Palace di Manhattan, dove l’uomo intende presentare il frutto del suo ingegno attraverso una sorta di spettacolo teatrale. Dapprima egli sale su una piattaforma che si solleva lentamente. Quando questa ha raggiunto il punto più alto, un assistente gli porge un coltello su un cuscino di velluto. Otis osserva il pubblico con sguardo obliquo, svelando poco alla volta le sue intenzioni: recidere l’elemento cruciale della sua invenzione, il cavo che ha sollevato la piattaforma e gli ha consentito di raggiungere quell’altezza. La minaccia incombe per interminabili istanti, durante i quali i presenti si interrogano sul senso della dimostrazione che l’uomo sembra intenzionato a offrire. Poi, tra l’orrore generale, l’impresario recide la fune di netto, esponendosi a una rovinosa caduta. Il cavo si spezza… ma non accade nulla. Né alla piattaforma, né all’inventore. Come spiegherà Rem Koolhaas, “invisibili ganci di sicurezza – l’essenza dell’ingegno di Otis – impediscono alla piattaforma di ricongiungersi alla superficie della terra. Così Otis introduce un’invenzione all’interno della teatralità urbana: l’anticlimax come finale, il non-evento come trionfo.” Koolhaas richiama l’idea di un presente stretto tra due possibilità contrarie commentando che “al pari dell’ascensore, ogni invenzione tecnologica porta con sé una doppia immagine: incluso nel suo successo vi è anche lo spettro del suo possibile fallimento. E i mezzi per evitare questo possibile disastro sono importanti almeno quanto la stessa invenzione.”
L’effetto sorpresa sortito dalla dimostrazione di Otis rende memorabile l’esperienza – e con essa il prodotto pubblicizzato – ed è tanto più emotivamente coinvolgente quando scaturisce al culmine della giusta dose di suspense. Paradossalmente, riflessioni di questo tipo sono comuni nell’ambito di una disciplina che sembra mirare alla sistematica compressione del fattore tempo – e sin dal nome: la “prestidigitazione”. Per riferirsi a un illusionista la lingua italiana offre due alternative, simili ma dai diversi risvolti: mentre “prestigiatore” si richiama alle praestigia (“illusioni”) latine, “prestidigitatore” allude ai movimenti veloci delle mani di chi pratica gli inganni – praesto (“velocemente”) e digitus (“dito”). La velocità – e non solo quella delle dita – è un ingrediente importante nelle performance illusionistiche. Quando, durante i suoi concerti, Michael Jackson spariva dal palco per teletrasportarsi in un batter d’occhio in mezzo agli spettatori urlanti, metteva in scena un numero classico della prestidigitazione: il “trasporto umano” intorno a cui Christopher Nolan imbastì la trama del suo The Prestige; in un effetto magico del genere, la sorpresa è direttamente proporzionale alla velocità con cui avviene la trasposizione. Mezzo secolo prima i coniugi Houdini presentavano “la Metamorfosi”, un’illusione teatrale durante la quale Bess si trasformava nel marito Harry nel breve istante in cui un lenzuolo copriva l’uno per far apparire l’altro. Come se si trattasse di una disciplina atletica, per tutto il corso del ventesimo secolo diversi illusionisti hanno cercato di presentare “la Metamorfosi” sempre più velocemente – fino alla conquista dell’attuale primato, detenuto da The Pendragons. L’idea che le illusioni si basino esclusivamente sulla velocità, però, è ingannevole: farlo credere al pubblico è solo un modo per sviare l’attenzione dagli altri principi più sottili alla base dei prestigi. Il mago argentino René Lavand (1928-2015) è ricordato come una delle più spettacolari eccezioni all’etimologia del termine “prestidigitatore”: aveva a disposizione solo cinque dita – avendo perso la mano destra a nove anni – e si esibiva più lentamente di qualsiasi altro collega, ripetendo più volte, nel corso delle performance, il mantra “No se puede hacer más lento” (“Non si può fare più lentamente”).
È sulla base di queste riflessioni che Darwin Ortiz può dedicare una lunga e articolata analisi alla “suspense” nel classico volume teorico sulla prestigiazione Strong Magic, raccontando – tra l’altro – un interminabile numero proposto negli anni Settanta dal mentalista Kreskin. Invece di mettere in gioco la sua vita, l’artista faceva nascondere nella sala del teatro l’assegno che gli spettava per lo spettacolo; bendato e mosso esclusivamente dall’intuito (o almeno così raccontava), egli trascorreva l’ultima mezz’ora dell’esibizione a cercarlo barcollando tra il pubblico, madido di sudore, dando continuamente l’impressione di affrontare un compito più grande di lui. Ortiz cita la performance in risposta a chi pontifica sul fatto che le strategie di creazione della suspense messe in scena all’inizio del Novecento oggi non funzionerebbero, perché “la televisione ha ridotto nel pubblico la capacità di mantenere un’attenzione prolungata [e] nessuno di chi è cresciuto ai ritmi di Miami Vice e MTV resterebbe seduto a guardare qualcuno che fondamentalmente non fa nulla per mezz’ora.” Avendo assistito dal vivo all’esibizione di Kreskin, Darwin Ortiz ricorda distintamente che per tutto il tempo “l’attenzione non calò mai, nessuno osò dire una parola e nessuno lasciò il teatro. […] Chi pensa che il pubblico stesse osservando il nulla per oltre mezz’ora, in questo caso perde di vista l’elemento cruciale. Ciò che va in scena in queste performance è un uomo impegnato in uno sforzo il cui esito ha un’importanza cruciale. Nel caso di Kreskin, è il suo incedere esitante tra gli spettatori a manifestare quello sforzo. Nel caso di Houdini, la fatica avviene tutta nella mente del pubblico, costretto a immaginare quello che sta accadendo dietro il paravento. In entrambi i casi si tratta di una forma di intrattenimento in grado di mantenere gli spettatori sotto una sorta di incantesimo.”
Sul meccanismo hanno giocato in modo più sfacciato Penn & Teller durante una puntata della serie The Unpleasant World of Penn & Teller (1994), dove – parodiando la più classica fuga di Harry Houdini – il minuscolo Teller si fa immergere in una pagoda piena d’acqua con il doppio obiettivo di liberarsi e ritrovare una carta scelta e dispersa in un mazzo. Il verbosissimo e imponente Penn racconta in modo altisonante i dettagli più irrilevanti del numero in corso, lasciando trascorrere un tempo interminabile e ignorando le richieste di allarme che provengono dalla pagoda. Contro ogni aspettativa – e tra le risate nervose del pubblico – Teller muore annegato e l’indifferente Penn si limita a ruotarne il cadavere, rivelando che per metà il gioco ha funzionato: incastrata negli occhiali (e ormai fradicia) c’è la carta scelta all’inizio del numero. In una brillante analisi Francesca Coppa ha rilevato che “la performance non enfatizza soltanto l’intrinseca crudeltà del numero, ma anche la crudeltà dello spettatore. […] Se Harry Houdini era un simbolo per l’epoca in cui visse, ‘l’uomo nuovo per un Mondo Nuovo: il piccoletto che non si sottraeva alle sfide […] che aveva la meglio anche quando affrontava le cose nel modo più arduo’ (per citare Bette Howland), Penn e Teller sono esponenti della loro epoca – quella capitalistica dell’America anni Ottanta di Reagan. Nella versione di Penn e Teller, l’evasione dalla pagoda piena d’acqua è una critica alla teoria della mano invisibile dei mercati. Parafrasando Stevie Smith [e il suo titolo Not Waving but Drowning], Teller non si agita ma annega. Penn e Teller non possono far affidamento ad alcuna trascendenza intrinseca nella magia. Al contrario, i due ostentano quanto sia poco realistica la narrativa eroica che vede Davide sconfiggere Golia e contempla il sistematico trionfo degli ultimi.”
Perfino lo studio del passaggio dal “salvataggio all’ultimo minuto” al classico numero della donna-segata-in-due ci porta lontano: l’evento che cambia il panorama teatrale è la conquista del voto da parte delle donne. Quando, durante Under the Gaslight (1867), Laura riesce a liberare Snorkey, costui si rivolge al pubblico maschile ostentando una fiera gratitudine verso la compagna: «E queste sarebbero le donne che non dovrebbero votare?» Oggi sembra inconcepibile che i melodrammi mettessero in scena uomini legati come salami il cui destino era in mano a un’eroina in gonnella. Come racconto nel mio documentario “Donne a metà”, la nascita e le vittorie del movimento delle suffragette provocarono un violento contraccolpo sulle narrative teatrali, capovolgendo definitivamente i due generi, relegando le donne nel ruolo di vittime passive e facendo del maschio l’unica figura salvifica ipotizzabile. A Londra la conquista del voto femminile nel 1921 segnò la nascita del numero della donna-segata-in-due, cristallizzando fino ai giorni nostri la nuova suddivisione dei ruoli. Sarà Harry Blackstone a riprendere letteralmente la scena della lama rotante in segheria, collocando una ragazza su un nastro trasportatore ed esplorando i risvolti dell’evento più infausto: dopo un tempo interminabile – reso ancora più disturbante dall’indifferenza dell’uomo sul palco – la donna viene segata in due senza che nessuno tenti di sottrarla all’orrido destino; il mago interviene solo quando il sacrificio si è compiuto, e per ostentare il potere supremo: quello di controllo sulla vita e sulla morte; un gesto e la donna torna intera.
Individuo un ultimo obliquo cortocircuito tra l’analisi della “sospensione” di Giampiero Frasca e l’illusionista francese cui Houdini si ispirò per scegliere il proprio nome d’arte. Il critico cinematografico mette in luce la tecnica della dilatazione del tempo per ritardare un effetto e rinviare la soddisfazione di una domanda che si presenta alla mente del pubblico; in questo caso la suspense “va anche oltre l’operare un aumento di intensità della singola inquadratura (come nel cinema horror, in cui lo sguardo raccapricciato del personaggio dura sempre qualche secondo in più del lecito, in modo da forzare i confini della singola immagine e caricare di tensione la susseguente, che mostra il motivo del terrore).” Al rigore argomentativo di Frasca, che isola specifiche soluzioni tecniche per ottenere effetti di “dilatazione temporale” impossibili nella vita reale, fa da contraltare una delle illusioni più affascinanti che Jean-Eugène Robert-Houdin abbia mai realizzato. Dopo una lunga carriera da orologiaio, seguita da una stagione di enormi successi a Parigi come illusionista, nel 1867 il mago si ritirò presso un’ampia tenuta a Saint-Gervais. Qui allestì in casa una serie di sofisticati meccanismi, il più interessante dei quali coinvolgeva la dimensione del tempo. Tutti gli orologi dell’abitazione, compresi quelli sulle due facciate che indicavano l’ora all’intero villaggio, erano collegati a un meccanismo centrale ospitato nello studio di Robert-Houdin. Oltre a garantire la sincronia tra tutti i quadranti, il collegamento consentiva al padrone di casa di rallentare o accelerare la velocità delle lancette – e con essa la durata di un minuto, che il mago poteva dilatare o contrarre a piacimento: che si trattasse di allungare un’ora d’amore o accorciare l’incontro con un ospite sgradito, nell’ultima stagione della sua vita il mago dispose di uno strumento di manipolazione del tempo la cui efficacia trascendeva l’illusione teatrale, confermando le parole di quel mesmerista secondo cui “la magia segue [la scienza] non come suo effetto, ma come sua perfezione.”
Mariano Tomatis: Scrittore e illusionista, si occupa dei risvolti culturali e politici della magia secolare. Collabora con il blog Giap. Il suo ultimo libro è La magia dei libri (Editrice Bibliografica 2015).
Riferimenti bibliografici
La “Conversazione con il cervello di Einstein” è tratta da Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett, L’io della mente, Adelphi, Milano 1997 (I ed. 1981), pp. 415-439. La ricostruzione storica dei melodrammi ottocenteschi che mettevano in scena il “salvataggio all’ultimo minuto” è tratta dall’articolo di Jim Steinmeyer “Above & Beneath the Saw”, ora nel suo Art and Artifice and Other Essays on Illusion, Carrol & Graf Publishers, New York, 2006 (I ed. 1998), pp. 77-106. L’impatto dell’industria cinematografica sull’illusionismo teatrale è analizzato in Sofie Lachapelle, Conjuring Science, Palgrave Macmillan, New York 2015 (in particolare alle pp. 121-127.) Il “non evento come trionfo” di Elisha Otis è analizzato nel manifesto di Rem Koolhaas, Delirious New York, Electa, Milano 2000 (I ed. 1978), p. 23. La più ampia analisi illusionistica della “suspense” è in Darwin Ortiz, Strong Magic, Kaufman and co., New York 1994, pp. 193-217. Lo studio dei risvolti politici delle performance di Penn e Teller è tratto dall’articolo di Francesca Coppa “The Body Immaterial: Magician’s Assistants and the Performance of Labor” in Francesca Coppa, Lawrence Hass e James Peck, Performing Magic on the Western Stage, Palgrave MacMillan, New York 2008, pp. 85-106. Il mio documentario “Donne a metà” e la relativa trascrizione annotata sono disponibili all’indirizzo tinyurl.com/donneameta. Il sofisticato sistema di orologi regolabili tramite un singolo meccanismo centrale è descritto in Jean-Eugène Robert-Houdin, Le Prieuré. Organisations mystérieuses pour le confort et l’agrément d’une demeure, Michel Levy frères, Parigi 1867, pp. 25-29. La citazione finale è tratta da Robert Darnton, Il mesmerismo e il tramonto dei lumi, Edizioni Medusa, Milano 2005 (I ed. 1968), p. 45.