Umberto Eco a Toronto
Dopo tre mezze giornate di convegno da lui passate in platea, prendendo appunti e intervenendo solo di tanto in tanto e per brevi precisazioni, eccolo, Umberto Eco, finalmente al centro della scena. Sta seduto al tavolo dei conferenzieri, dietro a bottiglie d’acqua e succhi di frutta, sotto lo schermo di dimensioni colossali che occupa la parete dell’aula e copre la lavagna. Tiene il mento appoggiato sulle mani e le mani appoggiate al bel bastone che lo accompagna da quando le ginocchia lo portano in giro un po’ meno volentieri. Per strada, a volte lo fa roteare, il bastone, altre volte lo usa per accennare a passi di cabaret danzante canticchiando persino certe canzonette che sa lui.
Ora aspetta, e guarda il pubblico. Ha sempre avuto un certo atteggiamento sornione, Eco, nei momenti in cui non deve parlare, spiegare, intervenire, divertire, puntualizzare o satireggiare ad alta voce; pare ascoltare chi parla e pensare contemporaneamente ad altro, come un server che svolge ronzando diverse subroutine con pari efficienza. Eco &co, si potrebbe dire: è un’entità stratificata, una singolarità plurale; non sta mai facendo una sola cosa e forse la sua passione per witz e giochi di parole in genere si spiega anche così: vedere tanti significati convergere in una parola sola gli dà una strana sorta di piacere di rispecchiamento. Ma, sornione da sempre, solo oggi, a ottant’anni, questo atteggiamento appare così elegantemente (e anche un po’ sovranamente) distaccato. Il mondo lo affascina meno di un tempo ma Eco è troppo galantemente mondano per consentire al mondo di accorgersene e così lo tratta come un caro parente invecchiato non bene. Non sente più la voglia di mostrarsi come uno che la sa lunga: neppure in Canada c’è chi lo metta in dubbio e se al contrario qualcuno non se ne fosse accorto mai, beh, può pure arrangiarsi. Così ci guarda, tanto pronto alla stoccata quanto apparentemente noncurante. Unghie retrattili, prontezza e agilità di risposta, sensibilità di vibrisse sono le stesse di sempre, Eco è così. Ma, essere a parte, nel suo modo di apparire c’è sempre più sorriso, sempre meno gatto.
È il tardo pomeriggio del 14 aprile, siamo alla Muzzo Family Alumni Hall dell’Università di Toronto. Attraversando la piazza di Queen’s Park e proseguendo per un paio di block in cinque minuti si potrebbe arrivare alla colossale Robarts Library, fatta a esagoni, che si fregia di essere tra quelle che avrebbero ispirato il labirinto biblioteconomico del Nome della Rosa (l’autore non smentisce). Quel che Eco sta aspettando è che l’italianista Rocco Capozzi gli dia la parola per le conclusioni dei lavori, dopo una breve presentazione molto affettuosa e divertente, in cui l’ospite e organizzatore del convegno rievoca gli incontri e la familiarità che Eco ha da tempo stabilito con Toronto. A Toronto Eco c’è appena stato: alla fine del 2011 è venuto nel tour americano di presentazione dell’ultimo romanzo, Il cimitero di Praga, che anche qui come altrove ha fatto discutere e si è guadagnato qualche critica apertamente ostile. In quell’occasione l’amico Rocco lo ha convinto a tornare per questo convegno, che è anche un festeggiamento per gli ottant’anni compiuti da Eco a gennaio.
Nei due giorni di studio che stanno per concludersi, dodici oratori si sono alternati a discutere le “rhizomatic relationships” fra Eco e Italo Calvino, intesi come scrittori e saggisti, critici letterari e di costume, protagonisti dell’editoria e del giornalismo del secondo Novecento italiano, traduttori, intellettuali impegnati nell’accompagnare e possibilmente consigliare le evoluzioni di una faticata prospettiva politica e culturale progressista in un Paese che ama così tanto le ideologie e le religioni, il passato, i linguaggi allusivi e vacui, l’indulgenza verso vizi e duci... A parlarne sono stati chiamati personaggi di svariata provenienza: vecchi amici e colleghi, come il semiologo Paolo Fabbri, che bazzica Eco dagli anni Sessanta in veste di compagno di strada, punto di riferimento, pungolo polemico, spalla per irresistibili gag; studiosi internazionali, come Linda Hutcheon di Toronto o Martin McLaughlin di Oxford o Maria José Calvo Montoro dell’Università Castilla-La Mancha; allievi di Eco, come Renato Giovannoli e me; ma anche due giovanissime studiose italiane, Valentina Fulginiti e Wanda Santini, esempi preclari di intelligenze che l’Italia contribuisce a formare (con licei e atenei a volte ancora miracolosamente buoni o ottimi) e quindi manda a prendere PhD e specializzazioni ovunque, senza peraltro riuscire a richiamarle poi indietro o, e sarebbe l’ideale, ad attrarre giovani studiosi stranieri di pari valore.
Grazie anche all’accostamento con Calvino, foriero di sfaccettature caleidoscopiche non banali, il convegno è stato tutt’altro che celebrativo. Fu Calvino a suggerire al pressoché esordiente Eco di scrivere un libro sull’“opera aperta” ed è dunque da quella stagione, cioè dalla seconda metà degli anni Cinquanta, che si è risaliti per riannodare i fili di un rapporto intellettuale, o di due possibili vite parallele alla Plutarco, come pure è stato detto. Dal punto di vista poi autobiografico e narrativo, le relazioni indirette sono anche più antiche, grazie alla narrazione della Resistenza fatta con gli occhi dei bambini, e consegnata in libri come Il sentiero dei nidi di ragno, Il Pendolo di Foucault, La misteriosa fiamma della Regina Loana (un vero topos, quello del bambino nella Resistenza, appena ripreso dalla scrittrice esordiente Paola Soriga, Dove finisce Roma).
Analisi stilistiche minuziose, ricostruzioni storiche, rievocazioni critiche. Molte relazioni, a partire dal rapsodico keynote address con cui Paolo Fabbri ha inaugurato i lavori, si sono soffermate sul rapporto tra scrittura e immagini: dai tarocchi di Calvino alle figure pop della Loana di Eco. Vezzo meno originale, e oramai anche meno interessante ma forse inevitabile, in alcuni momenti si è insistito sulla ricerca delle “fonti” e delle ispirazioni comuni o diverse tra Calvino ed Eco. Valentina Fulginiti ha mostrato il lavoro parallelo di Calvino ed Eco nei primissimi anni Sessanta sul neonato consumismo, il benessere e il pop. Calvino, con Marcovaldo, Eco, con il Diario minimo, allora la buttavano sul ridere, avvertendo ancor prima che Eco lo teorizzasse il rischio di finire dentro alla ganascia dell’apocalisse opposta, simmetrica e articolata a quella dell’integrazione. Satira, umorismo, fiaba, pastiche erano gli strumenti per guardare di sbieco il luccichio delle merci, cercare di evidenziarne i presupposti, il funzionamento, il potenziale ipnotico, senza però soffocarlo sotto il grigio dell’elucubrazione deprecante, dell’invettiva consolatoria e ipocrita. È stato uno degli interventi più interessanti, anche perché sottolineava (sia pur solo implicitamente) le lacune della riflessione odierna, che forse non è più riuscita a elaborare forme critiche da applicare al pop in modo da non farlo degenerare in populismo (come invece è poi accaduto, e lo dimostrano la storia e la merda italiana recenti). Doveva esserci qualcosa di scabroso sotto, poiché l’intervento è passato, o stato lasciato passare, sostanzialmente inosservato.
Ieri ha promesso che non avrebbe dato voti, e in effetti Eco (che intanto ha cominciato a parlare) nel ripercorrere i diversi interventi non picchia duro. Nel dibattito successivo all’intervento dell’altra dottoranda, Wanda Santini (la quale aveva proposto un’analisi stilistica della “leggibilità” della prosa dei due autori) Eco si era spinto a dirle che questo lavoro - sia ben chiaro, asciuttamente tecnico e scevro da piaggeria - era tanto convincente da fargli venire voglia di commissionare un approfondimento all’autrice e compensarlo personalmente. Ora elogia, più di sfuggita, altri interventi ma non trova molto da ridire su alcuno di essi. Forse gli sono davvero piaciuti tutti, o forse non gli sembra il caso di alzare il dito monitore in un’occasione in cui è stato festeggiato. Consulta gli appunti presi durante le sessioni, menziona alcuni interventi, ricostruisce percorsi storici, la conoscenza con Calvino a casa di Luciano Berio, l’epoca della lettura di Jorge Luis Borges, strappa qualche risata con le sue tipiche battute, ma si capisce che c’è un punto a cui vuole arrivare e infatti ci arriva, citando gli interventi di Pepa Calvo Montoro e Fabbri. Il punto riguarda la verità.
“Mi sono sempre occupato della verità”, dice, “perché mentre abbiamo molti criteri per dire che qualcosa è falso dire positivamente che qualcosa è vero è molto più difficile”. La sua semiotica è notoriamente la scienza di ciò che può essere usato per mentire (“Se qualcosa non può essere usato per mentire, non può neppure essere usato per dire la verità”, diceva su per giù nel suoTrattato di semiotica generale, del 1975): ed eccolo allora scrivere svariati saggi sul falso, esplorare i paralogismi del pensiero ermetico (che a lezione, negli anni Ottanta, chiamava affettuosamente “pensiero pirla”), mettere limiti all’interpretazione. L’odierno neo-realismo filosofico non lo trova impreparato: “è trent’anni che dico cose analoghe”, anche se poi in un intervento a favore della tradizione costruzionista della semiotica Paolo Fabbri prova a insinuare il sospetto che in Eco il tema della verità è solo una parte, certo qualificata e per niente irrilevante, di un problema di “correttezza”: correttezza della descrizione del mondo, dei modelli rispetto alla realtà, del sistema semiotico rispetto al mondo di riferimento (e sullo sfondo resta la correttezza dello stile intellettuale, che non è una questione di bon ton ma è sostanziale). È interessante che Eco qui non smentisca, e anzi sorrida quando Fabbri distingue il relativista dal costruzionista: “Al relativista il mondo va bene come è, è pigro; chi il mondo deve costruirlo, come modello di cui poi verificare l’adeguazione al reale, fa invece un sacco di lavoro”. E all’incolpevole Capozzi che gli chiede se pensa di essere scettico, Eco risponde pronto: “Sì, sono scettico, ma essere scettici non significa non credere a nulla: significa non credere a te!”.
Sul relativismo Eco esordisce con la sua mossa d’apertura favorita: incomincia a tipologizzare: “relativisti ce ne sono di almeno nove tipi diversi, ma relativismo non significa non credere a niente. Pensiamo che la Terra giri attorno al Sole, e lo pensiamo da cinquecento anni. Passato un po’ di tempo, possiamo anche cambiare idea. Ma solo se è proprio il caso. E finché non arriva una prova contraria, ci crediamo fermamente”. È la gnoseologia che si pratica comunemente e si può dire universalmente. Ma quell’accenno svagato ai cinque secoli ricorda anche il tipo di atteggiamento nei confronti del cosmo consegnato al titolo originale, e vero, delle cosiddette Lezioni americane: “Six memos for the next millennium”: fogliettini e promemoria da proiettare sulla scala dei millenni (qualche anno dopo forse Calvino avrebbe anche potuto giocare con le parole post e next e dire: Six post-it for the next millennium).
Il realismo che a Eco ora interessa di più, però, è quello letterario. In questo momento appare molto più narratore che semiotico, e prende esempio dai suoi romanzi dove appunto è contemporaneamente costruzionista e realista. Un romanzo è la costruzione di un mondo possibile, aveva dichiarato già nel 1978, pubblicando il suo libro narratologico Lector in fabula, mentre già scriveva Il Nome della Rosa; e i mondi possibili costruiti da Eco hanno, da sempre, un rapporto robusto e anche maniacale con il mondo che almeno per alcuni è possibile chiamare reale.
L’atto artistico ha bisogno di vincoli, restrizioni, costrizioni, contraintes. “Quelle dell’Oulipo sono sul significante: scrivere senza usare la lettera E, o usando solo la iniziale A; sono cose che ho anche fatto spesso, e mi divertono. Ma nei miei romanzi io uso contraintes sul contenuto”. Non è detto che ci abbia mai fatto caso, ma proprio questo è stato il contributo originale di Calvino all’Oulipo: la contrainte semantica, che non limita il linguaggio ma il mondo narrato. Alle riunioni dell’Oulipo, Calvino parlava di un Hamlet en palindrome (con la vicenda che procede a ritroso) o un’Odissea, con Ulisse pigro che non si muove di casa. Non è molto lontano da quanto Eco dice di Eco. Il realismo per lui non è un genere ma appunto una contrainte (o una metacontrainte, o megacontrainte, o sistema di contraintes) e ora arriva a compiacersi mentre racconta, con intensità crescente, tutti gli studi minuziosi e i sopralluoghi per le abbazie, le passeggiate notturne per Parigi per controllare tempi e incroci stradali da far rispettare al Casaubon del Pendolo di Foucault, le ispezioni dell’interno della nave dell’Isola del giorno prima, la cronologia del romanzo che deve tenere conto delle date storiche, come il Sessantotto o l’entrata in commercio del computer o l’abbazia messa in montagna perché dove fa freddo i maiali si possono ammazzare anche a novembre e a lui serviva il novembre e il sangue fresco di maiale. E ancora i patemi per la via di Parigi che (scoperta avvenuta a romanzo stampato) all’epoca dei fatti narrati non si chiamava ancora così; il controllo sullo stato astronomico del cielo australe in quella certa notte, sulla fase lunare e sulla presenza di nubi in una certa notte sul Marais...
“Una differenza che non avete trovato con Calvino” quasi rimprovera i relatori, “è che lui era uno scrittore fantasy, e infatti la prima copertina delle Città invisibili era il Magritte con la città sospesa a mezz’aria su una roccia. Io invece sono uno scrittore realista”. Dopo il realismo magico e il realismo isterico, il realismo maniacale, dove ogni singolo dettaglio che non sia dovuto all’intenzione artistica dell’autore deve corrispondere e non smentire la realtà storica, o anche solo cronachistica, dei fatti. Un’ossessione, poi ammette Eco, che gli serve oltretutto per ribadire la propria pudicizia.
La relazione di Eugenio Bolongaro su erotismo e lettura nel Nome della Rosa e in Se una notte d’inverno un viaggiatore... ha mostrato come Calvino usi la sua sapienza di autore di pastiche letterari per incarnare credibilmente i panni di scrittore erotico. Eco invece filtra l’erotismo tramite i testi sacri, antichi e medievali, con un’operazione anche più ardita ma certamente più indiretta. E quando Fabbri commenta dicendo che Eco viene ritenuto un romanziere cerebrale e invece scrive storie d’amore grandemente passionale, Eco rivendica il suo pudore, che ora professa in modo praticamente spudorato. “A me del mio io non importa niente, anche per questo diffido della psicoanalisi; non ne racconterei mai nulla, se non dietro a parecchie maschere” (negazione che - si commenterà poi - implicitamente afferma che dietro alle maschere qualcosa ne racconta, e quindi si può andare a cercarlo: ma è possibile che proprio Eco non si accorga delle trappole della denegazione?). “Invece che spendere soldi per lo psicoanalista per cercare il mio io preferisco guadagnare soldi scrivendo romanzi che raccontano cosa combina al mondo l’io degli altri”.
C’è ancora tempo per una domanda, prima che Eco possa spostarsi in un luogo dove sia possibile concedersi un Gin Martini on the rocks ben eseguito e offrirne a chi vorrà. Una studentessa che ha seguito scrupolosamente ogni intervento si alza e incomincia a parlare del filosofo Charles Sanders Peirce, pioniere della semiotica a cui la teoria echiana si richiama per molteplici aspetti. La domanda non si capisce, la ragazza si emoziona e confonde anche perché sta mettendo in dubbio qualcosa che Eco ha scritto, e il tutto si fa sempre più nebuloso. Eco taglia corto: “La questione che lei pone richiederebbe una settimana di lavoro comune per rivedere i Collected Papers di Peirce e ritrovare tutti i punti in cui ne parla. Non dico che non mi dispiacerebbe passare una settimana in un seminario su questo argomento. Ma ora è impossibile. Allo stato attuale delle mie conoscenze non ho alcuna risposta da darle”. E anche nel senso della brusca correttezza intellettuale, alla fine è realismo pure questo.