Leopardi e l’inquietudine della materia
Praticando l’usanza dei bagni termali, in ogni località visitata durante questa estate in Giappone, da Kyoto a Hakodate, da Kobe a Beppu, mi è capitato di assistere sempre alla medesima scena. Immergendosi contemporaneamente nella vasca e in una solitudine pronta a ospitare ricordi, pensieri, immagini, i miei “compagni” bagnanti, lontani dalle occupazioni frenetiche quotidiane, tendevano silenziosamente a compiere lo stesso gesto, che, nella mia mente, non poteva non evocare quello del giovanissimo “poeta dell’infinito” di Recanati. Collocati quasi sempre agli ultimi piani dell’albergo, i public baths offrivano, infatti, una visione spettacolare della città e della sua immensità, che ognuno si predisponeva a “mirare, sedendo” per lungo tempo, con uno sguardo contemplativo che chiaramente, però, si proiettava alla ricerca degli “spazi interminati” insondabili per l’occhio umano, al di là della “siepe” grigia e fitta di grattacieli e di reti stradali, ferroviarie e metropolitane. O meglio, con uno sguardo lungo che cercava di connettere la finita vastità della città, pur sempre ordinabile in una mappa, con l’infinito dove davvero ogni capacità di misura, di concetto naufraga. E la “dolcezza” provocata da questo naufragio andava visibilmente a sommarsi a quella generata dal bagno nelle acque termali col rilassamento e il benessere del corpo. D’altra parte, Giacomo Leopardi menzionando alla fine del suo celebre idillio il dato sensoriale legato a questa esperienza immaginativa dell’infinito, intende riportarci a quel punto di scaturigine in cui lo slancio immaginativo, il “fingersi nel pensiero”, si radica: il corpo, il mio corpo, il corpo di ciascuno di noi, che, per dirla con le parole di Maurice Merleau-Ponty accoglibili da Leopardi, è la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni. Il corpo, ovvero la materia di cui siamo fatti, quella “materia” al di là della quale non possiamo concepire nulla, come annota Leopardi nello Zibaldone, il 3 settembre 1821. Quel corpo in cui il giovane “filosofo naturale”, che ha esordito da adolescente con una Storia della Astronomia, e ora sempre più radicalmente materialista, scorge la sede dell’illimitatezza, inevitabilmente inappagabile e pertanto fonte di infelicità, del nostro desiderio di piacere. Infinità del desiderio e desiderio di infinito si rimbalzano, così, nella nostra capacità corporea di sentire.
Corpo, materia, natura. Sta qui, la chiave di volta per comprendere e ricondurre all’unitarietà, al di là dei suoi slittamenti o delle sue reali o presunte Kehre (a cominciare da quella stereotipata sul passaggio dal “pessimismo storico” al “pessimismo cosmico”), tutto il percorso filosofico e poetico di Giacomo Leopardi, secondo Gaspare Polizzi, come ci indica il suo ultimo e denso volume: Corporeità e natura in Leopardi, edito da Mimesis. Il volume raccoglie alcuni tra i saggi più importanti di una lunga frequentazione con l’opera complessiva di Leopardi e dell’attività di ricerca e ricostruzione meticolosa delle conoscenze scientifiche in campo cosmologico, fisico, chimico e medico che il poeta recanatese non ha mai cessato di acquisire e aggiornare, ancorando ad esse, esplicitamente o implicitamente, il suo materialismo naturalistico e il suo “pensiero poetante”. Si può dire che Leopardi sia per Gaspare Polizzi ciò che Leibniz è per Michel Serres (l’altro filosofo profondamente amato e studiato da Polizzi): un pensatore che non ha elaborato direttamente un sistema, ma che, con la sua filosofia e la sua poesia, suscita la sensazione di una sistematicità potenziale che si lascia intravedere e che, nondimeno, non cessa di negarsi, la sensazione di progredire in un labirinto di cui ci tende il filo senza metterci mai in possesso della mappa. Questo filo per Polizzi consiste appunto nella considerazione di Giacomo Leopardi innanzitutto come il “filosofo della natura”, uno dei più straordinari del XIX secolo in Europa, che parte dall’entusiasmo per la rivoluzione copernicana, capace di rinnovare “interamente l’idea della natura e dell’uomo” (come si legge nelle primissime pagine dello Zibaldone). Una prospettiva che ha consentito a Polizzi, negli anni, di riconfigurare in modo originale l’approccio storico-critico e filologico non solo alla produzione filosofica, ma anche a quella poetica di Leopardi.
Allora, l’infinito, in Leopardi, ci avverte Polizzi, non è tanto la tensione all’assoluto dei coevi poeti romantici o idealisti tedeschi, ma sembra un “rompicapo”, nel senso dell’epistemologia di Thomas Kuhn, che egli risolve sostenendo senza indugi che l’infinito non esiste in atto, “è un parto della nostra immaginazione”, “è un’idea, un sogno, non una realtà” (Zib. 4177-4178), perché nulla in natura ne comprova l’esistenza. Asserzione che fa il paio con la negazione dell’esistenza di un Dio soprannaturale. Parimenti, l’infinità dell’inclinazione dell’uomo al piacere va intesa come “una infinità materiale”, da cui non è ammesso dedurre l’immortalità dell’anima umana. E, sempre in questa prospettiva, si può intercettare meglio il Leopardi decifratore ante litteram delle ambivalenze della modernità, da tutti acriticamente decantata, quando, ad esempio, parla della medicina come rimedio non risolutivo delle malattie generate dalla civilizzazione, che sembra precorrere il discorso di Ivan Illich sulle malattie iatrogene, o quando, nella Palinodia al Marchese Gino Capponi, intuisce che l’estensione delle reti di comunicazione ferroviarie e navali favorirà la globalizzazione dei commerci, ma anche quella delle epidemie e delle malattie (vv. 42-45), o quando, nel 1820, momento nel quale Leopardi ancora vede nell’allontanamento dalla natura la causa dell’indebolimento dell’umanità, egli preannuncia l’avvento di un rischio ecologico per la specie umana, scrivendo che “non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”.
Ma, al di là della notevole e puntigliosa ricchezza descrittiva con cui questi saggi delineano lo sfondo storico-filosofico-letterario in cui germinano le idee e le teorie leopardiane, la loro caratteristica principale è di concorrere tutti insieme a mettere in luce l’approdo filosofico di Leopardi a un materialismo naturalistico e agnostico, ma non riduzionista, non meccanicistico e mai dogmatico, anzi, a volte scettico e relativistico. Un materialismo che conduce Leopardi sovente sulla scia di intuizioni che vanno al di là della fisica classica, quella galileiano-newtoniana del suo tempo, e che troveranno una conferma nella fisica moderna e nella visione “complessa” della natura delle teorie quantistiche.
Innanzitutto, per Leopardi, ci ricorda Polizzi, il sistema copernicano non svela ma spalanca l’arcano della natura, “scopre nuovi misteri”, come afferma nello Zibaldone, che fanno incrinare il mito della possibilità di pervenire a una onniscienza, rendendo anzi necessario andare “oltre” la filosofia, la ragione, per indagare il “misterio grande” della natura, che ci stimolerà a una conoscenza sempre più estesa, ma anche sempre più “ignorante”. Parole a cui farà eco molto dopo Giuseppe Ungaretti, per il quale “non è vero che la scienza diminuisca le possibilità della poesia. La scienza, con le sue scoperte, ne aumenta le possibilità, perché estende, approfondisce e rende più intenso il mistero. Man mano che conosciamo di più, conosciamo di meno”. E la logica classica aristotelica, basata sul principio di non contraddizione, cardine anche della razionalità moderna, non è adeguata, per Leopardi, a comprendere la natura e le sue “contraddizioni palpabili”, a cominciare da quella che vede collidere la sua esistenza, indifferente al piacere e alla felicità degli animali, con l’impulso al piacere e alla felicità con cui la medesima natura si esprime in quegli animali. Corollario di una contraddizione più generale, così enucleata da Leopardi: “Il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti”. L’“ordine delle cose” sfida la nostra cognizione perché implica disordine e organizzazione allo stesso tempo.
Per il filosofo recanatese rimane, dunque, almeno una certezza: l’“ipotesi dell’eternità della materia” che equivale ad affermare che “il finito è sempre stato e sempre sarà”. Ogni forma vivente, ogni cosa ha un tempo limitato, finito, e il tempo è la vita del corpo. Distruzione e creazione nella trama della natura sono opposte e complementari. Questa visione collima sorprendentemente, oggi, con la teoria dei campi quantistici, da cui emerge l’idea principale che la creazione e la distruzione di materia sono una caratteristica essenziale della natura. Questa idea è alla base di tutte le interazioni tra particelle, e quindi di tutte le leggi naturali e in ultima istanza di tutta la vita. La materia, lungi dall’essere inerte e morta, è sempre pulsante, e crea e distrugge particelle a un ritmo impressionante. Anche la materia di Leopardi è viva, dinamica, inquieta, non inerte e passiva come l’aveva rappresentata Cartesio, e l’universo di Leopardi non è quello ordinato e statico newtoniano, laplaciano o kantiano, ma anch’esso è vivo, bruciante, convulso, “tragico”, visto che in esso potranno un giorno addirittura perire “i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro” e da quest’ultima potranno formarsi “nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo” (Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco).
Per questo, secondo Polizzi, “pessimismo” e “ottimismo” sono categorie prive di senso se riferite alla visione filosofica e cosmologica leopardiana. Il suo materialismo inquieto, eterodosso, non contempla un cosmo governato dal determinismo assoluto, ma aperto a un gioco di vincoli e possibilità. E se la presenza del male inficia ai suoi occhi la tesi ottimistica di Leibniz sul migliore dei mondi possibili, non per questo Leopardi si sente di convalidare la tesi opposta: «Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» Un Leopardi da definirsi, allora, semmai come un “ottipessimista”.
Più o meno negli stessi anni in cui Hegel, insomma, parlava di uno spirito inquieto, in movimento, rivitalizzato continuamente dalla “potenza del negativo”, Leopardi parlava di una materia inquieta, in movimento, la cui esistenza è scandita da “un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione” (Dialogo della Natura e di un Islandese). Polizzi sembra suggerire questo: più che nella vicinanza con Schopenhauer, è nella distanza da Hegel, che potremmo cogliere e misurare l’originalità e la statura filosofica di Leopardi, nello scenario culturale europeo del XIX secolo.
E se si parte dalle premesse di questa originale “filosofia della natura”, che mette al centro la corporeità e la materia con le sue “forze eterne”, si comprende meglio la critica di Leopardi al “progressismo” ingenuo e fideistico del suo tempo. D’altra parte non è proprio dalla scissione cartesiana tra materia e spirito che nasce la “presunzione” prometeica occidentale di dominare la natura e di astrarsi da essa?
Ed è ancora un materialismo inquieto, eterodosso, eretico, perché non si arena nella deriva del nichilismo (o meglio del “nichilismo passivo”, avrebbe detto Nietzsche, estimatore di Leopardi), ovvero nella “pazzia ragionevole” (come la chiama pirandellianamente il giovane Leopardi in una lettera a Pietro Giordani del 6 marzo 1820, citata da Polizzi) indotta dalla coscienza della natura illusoria delle illusioni, ma pone le basi filosofiche per un’“etica senza Dio”. La Ginestra, forse la più alta lirica in tutta l’opera poetica leopardiana, può essere intesa, secondo Polizzi, come la declinazione di un’idea laica di re-ligio. A legare è proprio la condivisione della condizione comune e universale di fragilità e nullità. Un sentimento e una consapevolezza che dovrebbero integrare, “federare”, gli uomini e le nazioni, senza generare gli integralismi delle religioni rivelate e delle Leggi divine, che portano a uccidere in nome della giustizia, a martirizzare in nome della compassione, a torturare in nome della misericordia. Quel che annuncia la Ginestra di Leopardi è un vangelo non della salvezza, ma della perdizione. Infatti, l’approdo icastico e disincantato della riflessione filosofica del Leopardi materialista si trova, secondo Polizzi, nella penultima pagina dello Zibaldone, laddove egli conclude: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Se non lo crederanno mai del tutto o di fatto, è perché è la solitudine, che alimenta l’immaginazione, e quella virtù dell’immaginazione che è la contemplazione, al di là della siepe o dello sterminato spazio urbano di una grande città, che ci fa sperimentare l’impossibilità della perfetta o totale disperazione, inibita, in ultima analisi, dal desiderio inscritto naturalmente nel nostro corpo. Desiderio infinito e desiderio dell’infinito. Anche questa è una verità, che il filosofo e poeta Leopardi ci consegna.