Una rondine fa primavera
Siamo lontani dal disporre di una scienza dei conflitti. Consapevoli che sarebbe oltremodo urgente e necessaria, assistiamo intanto all’affermazione pervasiva di linguaggi e pratiche di aggressività distruttiva, di guerre e di indifferenza. Se si confrontassero gli investimenti in ricerca per la produzione di armi e per fare le guerre, con l’impegno per comprendere le dinamiche del conflitto e le possibilità di sue elaborazioni non distruttive, il risultato sarebbe deprimente. La domanda a questo punto potrebbe essere: ma guerra e conflitto non sono la stessa cosa? Nei linguaggi e nelle culture dominanti, più o meno ad ogni livello, la sinonimia tra guerra e conflitto è data per scontata. È questa la prova più evidente che non disponiamo di una cultura del conflitto e men che meno di una scienza dei conflitti. Non riusciamo, cioè, come sostiene Franco Vaccari all’inizio del suo libro, Ecologia del conflitto. L’approccio alla relazione secondo il Metodo Rondine, Il Mulino, Bologna 2024, a “vedere di buon occhio il conflitto”. Si potrebbe aggiungere che non lo vediamo, celato com’è dalla sua identificazione con la guerra, e soprattutto non ne vediamo le potenzialità.
Eppure le parole che contano e servono per capire meglio sono tre, o forse quattro, come sosteneva Luigi M. Pagliarani e come gli ho sentito dire in un incontro al Gruppo Anti H, a Milano, quando avevo diciannove anni, dove erano presenti Gaston Bouthoul, Franco Fornari e Giovanni Pellicciari. Bouthoul aveva pubblicato il Trattato di polemologia [ora stampato da PGreco editore, Milano 2013], un tentativo scientifico di analisi e studio dei problemi dei conflitti e delle guerre, capace di analizzare e “pensare” la guerra senza per questo demonizzarla, ma prendendone in esame gli aspetti costitutivi, sia essi psicologici che morfologici. L’evento bellico, secondo quella prospettiva, è considerato un “fatto sociale totale” capace di condensare in sé aspetti biologici e culturali e che diventa espressione della società come insieme di relazioni e di forze, e non solo come effetto del potere decisionale di chi governa. Comprendere la struttura dei conflitti si proponeva e si propone come condizione indispensabile per prevenire le guerre. Dal “si vis pacem para bellum” di von Clausevitz, al “se vuoi la pace impara a gestire bene il conflitto”.
Quali sono le quattro parole di Pagliarani? Pace, guerra, conflitto, indifferenza. La pace equivale all’accordo e non è pacifica, in quanto implica sempre rinunce, approssimazioni, cioè avvicinamenti e autolimitazioni, non solo, ma genera effetti di noia di cui è necessario tenere conto; la guerra è l’antagonismo, il giocare contro l’altro, la pratica dell’aggressività nella sua forma distruttiva a cui può giungere l’aggressività (adgredior, avvicinarsi) come tratto costitutivo di noi umani, distinguendo quindi tra aggressività e aggressività distruttiva; l’indifferenza, che si è amplificata come problema con la crescente crisi del legame sociale, può essere intesa come una sospensione eccessiva della risonanza incarnata con gli altri e il mondo [U. Morelli, Indifferenza, Castelvecchi, Roma 2023]. E il conflitto, allora, cos’è? È incontro, come dice la stessa etimologia: incontro tra punti di vista diversi, interessi diversi e contrastanti, culture e valori diversi, conoscenze diverse. Si tratta, quindi, delle prevalenti esperienze della vita, dalla cui elaborazione può derivare l’accordo e la reciproca emancipazione, o la distruttività organizzata. Un “cambio di passo” relazionale, lo definisce Franco Vaccari, fin dal primo capitolo del libro. La sua felice metafora mi richiama una considerazione di Gianpaolo Carbonetto, giornalista, che nel discutere un mio libro sul tema mi regalò un’immagine che non dimentico. Equiparò il conflitto al camminare e al rischio che ad ogni passo corriamo; rischio che può risolversi in un avanzamento efficace o in un crollo.
Vaccari, nonostante l’esiguità di coloro che studiano il conflitto così inteso e lavorano a uno sviluppo della cultura del conflitto, è in buona compagnia, non solo perché ha creato una comunità di pensiero che studia il conflitto con un approccio originale e applicativo, ma anche perché il suo lavoro si connette a un importante patrimonio. Il suo contributo di studio e di applicazione del Metodo Rondine, come fondatore di Rondine Cittadella della Pace ad Arezzo, richiama più o meno direttamente i tentativi di Gandhi, di Johann Galtung, di Giuliano Pontara, di Aldo Capitini, di Danilo Dolci, di Alberto L’Abate, per citare alcuni riferimenti fondamentali, e naturalmente di Pagliarani e Franco Fornari, tutti volti a creare una scienza e una prassi per la soluzione non distruttiva dei conflitti. Senza dimenticare un riferimento importante su cui alcuni di noi si sono formati: quel Thomas C. Schelling, autore di The Strategy of Conflict, [Harvard University Press, 1981, ultima edizione con prefazione dell’autore, divenuto poi premio Nobel].
Uno dei segni più determinanti della ricerca di Vaccari e del suo gruppo sta nel dialogo fitto, o potremmo chiamarlo sano conflitto della conoscenza, che nel libro ingaggia con quella tradizione che, tra psicoanalisi, neuroscienze e psicologia, ha pure contribuito allo studio del conflitto e della distruttività umana. Un conflitto e un confronto condotti con dedizione e cura, proprio con quella cura che nel libro è indicata come una delle condizioni essenziali per la elaborazione e gestione efficace del conflitto. Con una sintesi che per ragioni di spazio non dà conto della complessità del tema, e con la parzialità inevitabile di chi scrive questo articolo, coinvolto ampiamente nel confronto, si può sostenere che le ispirazioni epistemologiche e morali di Vaccari lo inducono a considerare categorie come la relazione, il contatto, la fiducia come a priori indiscutibili per l’elaborazione efficace del conflitto, anche se non sempre nel testo le cose stanno così. Spesso infatti viene riconosciuto che la fiducia è fragile ed è un esito della relazione, esposta ad ogni atto relazionale, così come è riconosciuta la delicatezza del contatto e il limite fatale che lo caratterizza, esposto a sua volta al rischio di ogni approssimazione. Ma l’ottimismo della volontà, decisamente ispirato di Vaccari, tende a far prevalere una visione, diciamo così, positiva della relazione. L’altra prospettiva con cui il confronto si sviluppa per tutto il libro, ritiene che la relazione sia il luogo delle possibilità e dei problemi; che la fiducia possa emergere nelle asimmetrie relazionali che attraversano l’elaborazione di un conflitto, ma possa non emergere o essere compromessa ad ogni passo; che gli esiti siano sempre incerti; che la distruttività sia un esito possibile; che quando quell’esito prevale si affermi il piacere della distruttività e della guerra; che sia necessario, accanto alla prassi educativa e psico-sociale proposta efficacemente e operativamente da Vaccari, cercare di comprendere le ragioni profonde della distruttività umana e della sua permanente attrazione, al fine di mettere a punto le condizioni di una scienza dei conflitti. E guardiamola quella tradizione che nella tensione e nel confronto con l’approccio di Vaccari può condurre a un’ulteriore emancipazione della conoscenza e della prassi per un’ecologia del conflitto.
Nel 1964, a Milano, al XXV Congresso degli Psicoanalisti di lingua romanza, Franco Fornari presentò per la prima volta in forma sistematica il suo pensiero sulla guerra in un contributo dal titolo “Psychanalise de la guerre” che venne prima pubblicato in Francia, e poi, rielaborato, con il titolo “Psicoanalisi della guerra”, nella Rivista di Psicoanalisi nel 1964. Il confronto che si avviò generò un pensiero in costante formazione e ampliamento. Nel 1966, infatti, fu pubblicato Psicoanalisi della guerra atomica, nel 1969 Dissacrazione della guerra, e nel 1970 Psicoanalisi della situazione atomica: titoli che segnalano la rilevanza e l’urgenza del tema, fino alla Conferenza dell’ONU sulla pace a New York, e al Comitato Mondiale di ricerca sulla pace di cui Fornari diventò un membro. Accanto alla ricerca e alla conoscenza, Fornari contribuì alla nascita in Italia di un movimento di educazione alla pace che si concretizzò nel 1965 nel Gruppo Anti H e nel 1967 nell’Istituto Italiano di Polemologia. La certezza che l’umanità fosse arrivata a un punto di non ritorno segnato dalla possibilità di distruggere contemporaneamente senza distinzione il nemico e l’amico diede vita all’ipotesi interpretativa della guerra come elaborazione paranoide del lutto, e alla speranza che l’umanità diventasse capace di cercare vie alternative. Quella ricerca è stata portata avanti, in particolare da Luigi M. Pagliarani, sodale di Fornari in tutto il suo percorso, fino al tentativo di mettere a punto una prospettiva per la gestione generativa del conflitto [U. Morelli, Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2014]. La profonda attenzione che Vaccari riserva a questa tradizione di studi e ricerche e il serrato dialogo che instaura tra affinità e differenze, fanno del suo libro uno dei documenti più avanzati e aggiornati sul tema del conflitto inteso come fattore costitutivo delle relazioni umane, come incontro di differenze e come opportunità di emancipazione umana.
Un vissuto rischioso, incerto e vulnerabile, ma generativo di scoperte del valore delle differenze e di inedite possibilità, è quello che Vaccari indica come prospettiva “se il conflitto verrà posto al centro dell’umano”. La stessa torsione positiva di categorie esperienziali come vulnerabilità e precarietà, che nel libro sperimentano una riconfigurazione di significato e realisticamente indicano una presa d’atto della condizione umana e del loro valore propositivo insito nell’elaborazione ecologica del conflitto, diventa un modo di dare conto della complessità del fenomeno, della sua intima contraddittorietà e dell’impegno necessario per una sua elaborazione efficace. Basterebbe il gioco della reciprocità tra hospes e hostis, tra ospitante e ospitato, per rendersene conto. Nelle dinamiche conflittuali ognuno è contemporaneamente ospitante e ospitato, impegnato a riconoscere e comprendere le buone ragioni dell’altro, buone dal suo punto di vista e magari diverse, fino ad essere incomprensibili partendo dalle proprie. La costruzione di un campo di fiducia condiviso, un habitat della fiducia, come lo definisce Vaccari, è parte della dinamica stessa del confronto e dell’elaborazione del conflitto. Per accedere a un’efficace elaborazione del conflitto sono indicati alcuni fondamentali cambi di passo. Il primo cambio di passo riguarda la mentalità più che la teoria e i relativi paradigmi: le persone, che si incontrano sulla base della fiducia, costruiscono la relazione consapevoli che la potenzialità del conflitto delle differenze può prevenire la degenerazione nelle inimicizie e quindi nel farsi guerra. Vi sono due considerazioni critiche, finalizzate allo sviluppo di un maggiore approfondimento, che si possono fare su questo punto. La prima riguarda l’assunzione di una fiducia a priori laddove, in quanto risorsa fragile, la fiducia emerge durante le relazioni e la sua effettiva portata e corrisponde a un esito più che a una premessa. La seconda considerazione ha che fare con un’affermazione di Vaccari che contiene molti aspetti dell’orientamento e delle prassi proposte dal libro: “nella nostra prospettiva ogni incontro-attrito è sempre fecondo, a patto che rispetti l’esperienza intima altrui”. Ancora una volta siamo di fronte ad un assunto a priori: la direzione della fecondità nell’elaborazione del conflitto sembra in ogni caso dipendere proprio dai vincoli e dalle possibilità di rispettare l’esperienza intima altrui, ovvero di riconoscere e ammettere le sue buone ragioni. È su questo aspetto che si gioca la possibilità di un’elaborazione del conflitto che conduca alla reciproca emancipazione o che degeneri in antagonismo e distruttività. Il secondo cambio di passo, di natura più culturale, si innesta sul precedente proponendo una via efficace per conseguire i risultati fin dove è possibile, e si gioca principalmente sul potenziale dell’umano e sull’alfabeto dell’interdipendenza sociale da cui possono scaturire relazioni di cura accomunanti. Il terzo cambio di passo riguarda la sfera politica. La costruzione di habitat attrattivi può orientare i comportamenti operando concreti mutamenti etico-politici, i più importanti dei quali riguardano il superamento della contrapposizione noi-loro. Di particolare importanza, nell’approccio di Vaccari, è la scelta di un paradigma rivolto all’accoglienza della complessità dei fenomeni e quindi al riconoscimento e alla valorizzazione della circolarità, oltre la linearità causa-effetto, al fine di poter prestare attenzione alle qualità emergenti dei fenomeni, stabilendo una affinità coincidente tra relazione e conflitto. Il fatto che “la persona esiste solo in relazione” è in fondo la base essenziale per poter sviluppare efficacemente il confronto tra le differenze e l’elaborazione del conflitto. Nel contatto umano la stabilità del legame è sempre messa alla prova ed è necessario non dimenticare, come ci ricorda la grande poetessa Anna Achmatova, che c’è nel contatto umano un limite fatale e la reciprocità non neutralizza l’asimmetria, anzi mette costantemente alla prova la relazione stessa. Si tratta insomma di riconoscere la fatica inevitabile della relazione e gli attriti inerenti le rispettive differenze concrete sapendo che, quello che Vaccari chiama l’anello ricorsivo tra relazione, conflitto e fiducia, proprio del paradigma sistemico del Metodo Rondine, pone i singoli in una costante valutazione reciproca e nell’impegno ad accettare l’equilibrio instabile tra le proprie conoscenze, i propri interessi, i propri orientamenti di valore, la propria ignoranza e le zone cieche della processualità in atto. Gli adeguamenti emotivi richiesti per stare “al di qua dei fili di alta tensione” che ostacolano il prendersi cura della relazione in situazioni conflittuali, si possono apprendere e richiedono una particolare sensibilità alle soglie critiche, in quanto la stabilità del legame è costantemente messa alla prova e il dialogo è un’arte sottile, dove nulla va dato per scontato. Occupandosi delle soglie interattive, al fine di fare dell’obiettivo di costruire ponti e abbattere muri il proprio impegno quotidiano, emerge l’importanza della soglia temporale e di quella spaziale, nonché l’impegno a evitare quel fenomeno/schermo che si manifesta quando i soggetti pur stando vicini non riescono più a vedersi. Arricchito di dettagli metodologici chiari basati su una metodologia di ascolto e sospensione del giudizio, al fine di tessere relazioni che rispettino le soglie interattive accettando le gradazioni di sensibilità diverse, e fecondato da un’ispirazione etica molto precisa, questo contributo di Franco Vaccari si configura come una delle più complete analisi della complessità del conflitto, delle sue potenzialità generative e della necessità impellente di sviluppare una cultura per l’elaborazione efficace del conflitto nella nostra contemporaneità.