Vedere la scuola. Conversazione con Giampiero Frasca
La scuola sta finendo, con lo strascico dell’esame di maturità o terza media per alcune classi e docenti, per tutti con l’ennesimo psicodramma degli scrutini, delle bocciature, dei debiti formativi, dei recuperi coatti. E poi, dopo, ancora una volta inizierà un periodo di riposo, convalescenza, rimozione e distacco da un mondo amato e odiato sempre più con ambivalenza quanto meno bipolare. Mentre i ragazzi potranno tirare il fiato e piombare in uno stato di standby rispetto alla cultura lettoscritturale tradizionale (per alcuni l’anticamera stagionale della vita adulta) gli insegnanti potranno dedicarsi a letture, studi e passatempi preferiti, alle famiglie, a viaggi più o meno istruttivi, alle segrete passioni di sempre. Molti riusciranno a ricordarsi perché gli piace il loro lavoro e potranno ripartire con l’energia necessaria per fronteggiare il summer-lag cognitivo settembrino che colpisce la maggioranza degli studenti tornati sui banchi.
Tra parentesi: i tre mesi di vacanza sono un mito antistatalista che alimenta il livore dei dipendenti del settore privato; al limite è vero che, chi nella scuola ha un contratto a tempo indeterminato, può godere di più ferie concentrate rispetto ad altre categorie. Per troncare ogni discussione invito i rancorosi a leggere le statistiche sul burn-out della categoria e la correlazione del lavoro di insegnamento con stress e disagio psicologico.
Nelle sale insegnanti si contano i giorni e si preparano i bilanci finali. Per la scuola è stato un anno terribile (per chi si era distratto ricordo che tra il 2008 e il 2011 sono state licenziate 150.000 persone) e mentre chi si è salvato tira il fiato l’orrida macina burocratica escogita le prossime manovre per colpire duro a settembre, con la pianificazione dell’organico e delle classi e con una nuova serie di tagli, decisa magari a ferragosto. Un’aria disperante si respira in modo netto, un disastro già avvenuto senza che nessuno riesca a intravvedere una via d’uscita realistica. Nel dubbio tutti discutono aspramente. Su qualsiasi cosa.
A questo punto, per non massacrarmi ulteriormente nella polemica Mastrocola sì/Mastrocola no o nell’ennesima digressione sull’incapacità della categoria di costruire l’unità sindacale, cerco un po’ di tregua in un libro che parla di scuola ma da un altro punto di vista. Il cinema va a scuola (La Mani, Genova 2011) di Giampiero Frasca, docente universitario di storia del cinema e simultaneamente di scuola media (può accadere anche questo nel magico mondo del precariato intellettuale): un libro che individua linee e percorsi nella storia del cinema offrendo una panoramica delle narrazioni visuali del mondo della scuola. Un modo per scartare di lato e sollevarsi dai miasmi putridi respirati durante l’anno e dal brusio molesto che offusca la mente.
Consigliato a tutti, in particolare agli addetti ai lavori, perché è uno scavo nel nostro inconscio post-moderno che di quelle immagini si nutre, uno strumento di analisi che permette di riportare alla luce le trame narrative di quello che viviamo quotidianamente, rispecchiate e potenziate come solo il cinema riesce a fare. Mi incontro con l’autore per parlarne nel tardo pomeriggio di un’assolata giornata quasi estiva, nella sala dei flipper del Liceo Marilyn Monroe…
Emerge dalla tua analisi, che si snoda a partire dalla visione di un numero impressionante di film, l’idea che la scuola sia un luogo centrale della vita dell’individuo: “scenario privilegiato per raccontare vicende interpersonali, formazioni individuali ed educazioni sentimentali, oppure per generalizzare discorsi sulla società esterna che si riflette all’interno del mondo scolastico”. Il cinema ambientato a scuola, proponi, è romanzo cinematografico di formazione, forma moderna del Bildungsroman.
Duecento è il numero opportuno di film che bisogna vedere e analizzare se si vuole ottenere un lavoro serio e completo sull’argomento, dal momento che duecento sono le pellicole sulla scuola uscite solo in Italia. Ovviamente, non tutti sono citati all’interno del volume, il mio lavoro propone percorsi e tendenze che attraverso i vari film trovano conferma o smentita, e citarli tutti avrebbe prodotto un catalogo, non un discorso critico.
Premesso questo, è innegabile che la scuola rappresenti il fulcro educativo di ogni individuo insieme alla famiglia, soprattutto in anni decisivi per la formazione personale del ragazzo. E il cinema che narra di adolescenze più o meno turbolente non può certo ignorare questa verità fondamentale. Anzi, al contrario, la assume in modo più o meno marcato perché è scenario di facile lettura per lo spettatore e anche perché rappresenta un’arena naturale di conflitti in cui un racconto prende forma in maniera quasi consequenziale. Una concatenazione immediata e forse anche semplicistica: i ragazzi presentano dei problemi che riguardano la loro formazione, la loro formazione si confronta/scontra con le figure istituzionali, le figure istituzionali più riconoscibili sono i genitori e gli insegnanti. La scuola rappresenta almeno metà delle eventualità drammatiche possibili (tenendo conto che anche i film che hanno al centro dinamiche familiari non sono alieni da qualche sequenza di ambientazione scolastica).
I film con protagonisti gli studenti tracciano uno sviluppo della loro esperienza che è insito nelle caratteristiche di una narrazione forte, che si sostanzia attraverso trasformazioni nette e mutamenti di stato, spesso inversioni, seppur annunciate, rispetto a uno stato iniziale: credo quindi si possa parlare di Bildungsroman e del relativo percorso culturale ed esistenziale di un giovane inserito all’interno di un determinato contesto, di cui la scuola può essere solo uno dei molteplici aspetti possibili. Tuttavia, rispetto al romanzo di formazione tradizionalmente inteso, in questo tipo di film non sempre lo studente possiede coscienza del cammino che sta compiendo e la consapevolezza può giungere anche dopo varie esperienze, cui segue una rivelazione finale decisiva per il protagonista.
A ben guardare, nel cinema di ambientazione scolastica esistono anche pellicole derivanti dall’Erziehungsroman, il filone del romanzo di formazione sul processo di apprendimento dello studente visto dalla prospettiva dell’insegnante/educatore. Ma al di là di Il ragazzo selvaggio (1970) di Truffaut e Diario di un maestro (1973) di Vittorio De Seta, il cinema ha preferito seguire altre strade, meno progettuali, meno a tesi, meno didascalico-educative.
Un altro aspetto interessante del tuo libro è che si possa raccontare una storia d’Italia attraverso i film che scelgono la scuola come microcosmo…
Un aspetto generalizzabile: ogni cinematografia in ogni determinato periodo può essere la lente attraverso cui leggere la storia di un determinato Paese. E questa lente può essere d’ingrandimento o deformante, indifferentemente, a seconda del filtro che ogni singola nazione, per tradizione e attitudine, decide di dare ai propri prodotti cinematografici. Tra le pieghe del western americano, ad esempio, è possibile osservare in filigrana non tanto la storia degli Stati Uniti, spesso falsata in un grande affresco epico privo di problemi e contraddizioni, quanto la volontà di costruzione di archetipi storici e sociali in cui far identificare l’intera popolazione.
Una restituzione fedele, nel cinema italiano, si può riscontrare in due stagioni particolarmente felici per il nostro cinema e storicamente contigue, il Neorealismo e la commedia all’italiana, testimonianze veramente attendibili di ciò che è stata l’Italia tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine degli anni settanta. Inevitabilmente, i film di ambientazione scolastica realizzati in questo periodo ci hanno detto molto di come eravamo, ma anche tantissimo di come avremmo voluto essere senza riuscirci.
Storia non solo italiana, dunque. Parlare di cinema significa anche confrontare il diverso sguardo narrativo che differenti ‘culture’ nazionali della scuola esprimono nelle rispettive cinematografie, penso in particolare al cinema americano, ma non solo.
Culture, predisposizioni, visioni. Così come sono differenti e non confrontabili tra loro le cinematografie nazionali a causa delle rispettive peculiarità produttive, così anche nell’ambito del cinema scolastico si osserva una diversa concezione non tanto dei principi educativi (le regole sono universalmente valide), quanto piuttosto dei presupposti normativi del racconto e delle varie figure caratteristiche. Prendiamo l’insegnante: se in altre cinematografie è figura sfaccettata, preda di incertezze riguardo se stessa e la sua missione, come nel cinema francese, o è personaggio grottesco e venato da un retrogusto farsesco, come nel cinema italiano, nel cinema degli Stati Uniti è un eroe. Quasi sempre, se è il protagonista. Può essere inconsapevole di questa sua natura, come il Glenn Ford de Il seme della violenza (1955), dubbioso, pronto ad arrivare sull’orlo del baratro del fallimento, che è condizione essenziale di ogni sceneggiatura di formazione; ma l’eroe è sempre destinato a prendere coscienza del suo ruolo e della sua funzione sociale per agire coerentemente con le aspettative di successo, compiendo un’azione che vada a buon fine e lasci un segno indelebile. Segno indelebile all’interno del film che si riflette nell’animo e nella convinzione dello spettatore.
Dieci pellicole con il medesimo sviluppo trasmettono il messaggio di una certa infallibilità dell’individuo-docente e la convinzione che effettivamente le situazioni possano realizzarsi realmente in questi termini. Nel cinema americano non esiste una collegialità: l’insegnante è espressione di un’individualità spiccata che si erge sugli altri. Lungo questa prospettiva, l’insegnante eroe non è altro che una trasformazione del protagonista western. E chiunque abbia messo una sola volta il piede all’interno di una scuola anche solo per fare una supplenza si è reso conto che una classe funziona se anche tutti gli altri insegnanti contribuiscono allo scopo comune. Altrimenti l’equilibrio salta. Secondo questa prospettiva, gli incentivi in denaro proposti dal ministro Gelmini ai migliori docenti di ogni scuola sarebbero una proposta interessante almeno quanto l’Oscar per il miglior attore protagonista all’insegnante di matematica i cui studenti hanno svolto perfettamente le prove Invalsi.
Il tuo libro propone percorsi tematici che consentono un’analisi socio-culturale profonda, non semplicemente cronologica. Ad esempio, la scansione dei capitoli segue la partizione dei diversi attori sociali che danno vita alla scuola: docenti, studenti, dirigenti, bidelli, genitori, a loro volta ricollegabili a figure tipologiche ben codificate.
Ogni ruolo una funzione narrativa, ogni funzione narrativa una mansione sul palcoscenico educativo rappresentato dall’aula. È come se ogni film si facesse da sé, almeno per quanto riguarda l’impostazione preliminare data dai personaggi e dai susseguenti conflitti, scontri e alleanze che si possono originare. La divisione in capitoli in funzione delle figure più rappresentative è un passo quasi obbligato in un filone che parte dai suoi personaggi per svilupparne nel racconto i rapporti e le relazioni. Il cinema ambientato a scuola è cinema che modula voci, dialoghi e trasformazioni strutturali a partire dalla presenza di corpi e ruoli ben determinati. I primi non si giustificherebbero senza la presenza predefinita secondi.
Ho trovato molto interessante l’analisi topologica dei diversi luoghi fisici della scuola, che si caricano di significati ulteriori rispetto alla loro semplice funzione d’uso… le pagine dedicate ai corridoi di Elephantdi Gus Van Sant mi sembrano paradigmatiche in tal senso.
I luoghi, come tutte le ambientazioni in qualunque tipo di film, sono fondamentali per accrescere la connotazione del senso del racconto. L’ambiente in cui si sviluppano le storie si premura di stimolarne lo svolgimento, anche grazie a una precisa codificazione di elementi scenografici, che nel caso dell’ambientazione scolastica, pur essendo facilmente individuabili, possono trarre in inganno perché lo spettatore tende a darli per scontati, anche perché conosciuti da tutti, vista l’esperienza scolastica personale di ognuno. E di conseguenza ci si dispone spesso semplicemente a denotarli, a pensare che servano esclusivamente per situare e caratterizzare l’ambito della narrazione. Nel filone scolastico, come in qualsiasi altro genere dalla caratterizzazione scenografica forte (noir, western o horror gotico), questo aspetto identifica immediatamente il tipo di vicenda che si sta per narrare, ma l’evidenza dello scenario diventa successivamente fondamentale nel corso dello svolgimento della storia per stimolare gli equilibri che si vengono progressivamente a formare, diventando spazio espressivo e allegorico, non solo funzionale.
Questo è manifesto per le aule di lezione, i luoghi scolastici cui è dedicato più spazio, perché rappresentano l’arena in cui le istanze degli studenti e degli insegnanti si relazionano fornendo le motivazioni allo sviluppo della storia, ma lo è anche nel caso di spazi meno “visibili” e meno peculiari, come i servizi igienici, i cortili, le sale insegnanti e i corridoi. Ogni spazio è portatore di proprie specificità e di un sistema decodificabile di precise simbologie, che si alimentano di film in film, arricchendosi di volta in volta di nuove eventualità di significato. E ciò capita in tutti gli esempi migliori del filone scolastico: Elephant ha il merito di estremizzarne i termini per giungere pienamente all’obiettivo di una vorticosa alienazione che si nutre della solitudine annichilente dell’individuo.
Tu sei anche un docente, sia universitario che di scuola media: nel libro sottolinei di non voler parlare di scuola, quanto del modo in cui la scuola è raccontata. Molto dell’‘eroismo’ che i protagonisti-professori mettono nella loro ‘missione’, che nel cinema è sempre tale prima ancora che essere un lavoro, stride con la routine e la quotidianità che ogni giorno si affrontano nelle aule scolastiche; ma allo stesso tempo il campionario di soggetti in formazione, umanità in età di mutazioni in tutti i sensi, permette un osservatorio davvero speciale sulla realtà.
Dipende dalle pellicole. Il campionario è vario e articolato. Certe sottolineano l’eroismo quotidiano, la presa di coscienza del docente che giorno dopo giorno si affeziona al suo lavoro, alla sua missione e, nonostante le difficoltà, anzi, soprattutto grazie alle difficoltà che ne saggiano tenacia e passione, continua per la sua strada, capendo che è quella giusta. Altre pellicole, invece, insistono sulla routine e sull’insoddisfazione dell’insegnante: Fabrizio Bentivoglio, ne La scuola (1995) di Daniele Luchetti, ad un certo punto della sua personale crisi sostiene che i veri ripetenti sono gli insegnanti a furia di svolgere lo stesso programma da anni. E in una certa prospettiva è assolutamente vero. È vero se si affronta la scuola come vuota ripetizione del programma, non modulandolo sulle esigenze di studenti che di anno in anno cambiano o crescono e che quindi presentano nuove urgenze, necessitando di distinte strumentazioni. Risulta poi rilevante il fattore umano, che probabilmente, al di là dei singoli momenti di dubbio, è la questione fondamentale affinché ogni giorno sia diverso dal precedente e ponga le basi per il seguente. Al di là del programma, è la relazione con le persone, non perché allievi, ma perché individui, che arricchisce. Non voglio che questo paia un discorso idealista. Non sono ‘Alice nel paese delle meraviglie’, anche se spesso mi meraviglio ancora molto: è solo che le possibilità di un programma prima o poi si esauriscono, le relazioni interpersonali si dissolvono più difficilmente e più lentamente.
Parlare di cinema a scuola con gli allievi significa spesso mostrare riferimenti identitari e culturali che diventano sempre più distanti e non-comunicanti: per dirla tutta, i ‘nostri’ film molto spesso sono per loro noiosi e difficili mentre i ‘loro’ film sono per noi docenti grossolani e poco significativi. Capita spesso di trovare territori comuni: ad esempio certi film di Kubrick piacciono sempre, I quattrocento colpicommuove anche le classi più problematiche dal punto di vista relazionale; nelle scuole superiori un film come Ogni cosa illuminataarriva dove altri film non arriverebbero mai...
Si tratta della differenza tra un capolavoro, firmato da un grande regista, e un film mediocre, realizzato da un miracolato delle congiunture favorevoli. Nonostante le resistenze verso il bianco e nero (è la domanda che mi sento fare più frequentemente dagli allievi quando propongo un film, almeno lo stesso numero di volte in cui mi sento chiedere con preoccupazione quanto sia spesso un libro), il ‘bel film’ appaga sempre.
Bisogna tenere conto che tuttavia la cultura visiva degli ultimi trent’anni ha asservito alle sue logiche spazi e tempi della percezione, centrifugando impietosamente miliardi di immagini, erodendo l’importanza di alcune altrimenti ritenute fondamentali ed esaltandone altre formalmente superflue. Tutto ormai è immagine e molto viene vissuto nella consapevolezza che in qualche modo sarà rivisto (l’ossessione per l’inserimento su youtube, ad esempio). La riproducibilità tecnica evocata da Benjamin non è più posta dall’alto, come istituzione cui fare riferimento, ma è alla portata di tutti e crea scambi, relazioni, connessioni, liste di visione, giudizi di merito basate sul mi piace/non mi piace. L’elementarità dell’atto stesso, che sia lo scavalcamento di una staccionata particolarmente difficile da superare oppure lo scherzo, anche pesante, ai danni di un compagno, è effettuato nella speranza/convinzione che ci sia qualcuno a immortalarlo e a renderlo ossessivamente riproducibile, creando una base più o meno ristretta con cui condividere situazione e sua conseguente riproduzione.
È una fase ulteriore rispetto a soli due o tre anni fa, ed è una fase di cui bisogna necessariamente tenere conto, perché il singolo individuo concentra in sé il ruolo di soggetto percipiente e di oggetto della visione. Insieme vedente e visto: questo porta a un protagonismo assoluto e insistente di cui gli insegnanti possono essere solo testimoni passivi e impotenti, se non si sforzano di penetrare nel sistema. Fase ulteriore che oltretutto ingloba in sé, proprio per questa ossessione a triturare impetuosamente una disposizione percettiva dietro l’altra, la giovane generazione dei videoclip, di cui anche noi quarantenni facciamo parte (anche se la nostra apparteneva a un’altra fase ancora, perché poggiava le fondamenta in presupposti meno agogici, meno schizofrenici, meno pirotecnici, per usare un termine lyotardiano), cresciuta per di più a videogames iperadrenalinici.
Difficile pensare che questa generazione di adolescenti possa apprezzare Bergman, Antonioni o Tarkovskij, anche al di là delle difficoltà intrinseche del contenuto. È necessario mettere insieme i vari rivoli scaturiti dalle diverse fasi in cui lo spettro percettivo si è disaggregato e capire quali sono i prodotti che possano effettivamente riscuotere l’attenzione degli studenti. Il film di ottima fattura, unito al ritmo del montaggio e alle effettive possibilità di identificazione con uno dei personaggi (ma che sia un personaggio che riscuota l’ammirazione dei ragazzi, uno in cui amino immedesimarsi), terrà incollate allo schermo classi intere per due ore senza problemi, proprio per l’unione di ritmo e protagonismo. È complicato, semmai, trovare la giusta alchimia tra cadenze con cui è affrontato il discorso filmico e azioni, più che psicologie, attraverso cui ancorarsi al nucleo interno della storia. Quello è il vero obiettivo da raggiungere per ogni insegnante che intenda proporre un qualunque film ai propri allievi. Ammesso che esista veramente una ricetta possibile.
Credo che la scuola dovrebbe educare alla visione: ma che posto c’è per la storia del cinema nella scuola italiana?
Francamente non so. Se ne parla da anni e non si è mai approdati a nulla. In realtà il cinema a scuola entra con progetti esterni, proposti da associazioni esperte del settore, oppure con la buona volontà di insegnanti cinefili. Anche se i progetti esterni hanno bisogno di finanziamenti da parte dei singoli istituti e spesso i pochi soldi residui vanno ad altri progetti che possano incidere in maniera diversa sulla formazione degli studenti.
Personalmente trovo utile fissare concetti storici oppure questioni letterarie (riguardanti soprattutto i generi della letteratura cosiddetta bassa) con film che siano particolarmente rappresentativi e che riescano a far visualizzare ciò che si è studiato in un’immagine definita. Il rischio c’è. Non tanto per il confronto tra genere letterario e genere cinematografico, di cui è interessante valutare le differenze presenti nelle modalità di racconto ed eventualmente quelle di adattamento con un testo conosciuto, quanto quella di dover inguainare la pellicola storica con opportune notazioni che rendano evidente lo scopo spettacolare per cui è stata prodotta, a scapito degli elementi che potrebbero essere interpretati erroneamente come oggettivi dagli studenti. E c’è anche la certezza che un allievo continui a pensare che Achille più che piè veloce e più forte tra i Danai sia smisuratamente bello, se per caso un insegnante gli avesse fatto vedere Troy.
Uno degli snodi cruciali della cultura della visione è il conflitto tra lo sguardo del cinema e lo sguardo proposto della televisione: si può anche rilevare una differenza del racconto sulla scuola nelle fiction televisive e al cinema?
Nel cinema italiano no, lo sguardo è appiattito spesso sull’estetica e sui ritmi della fiction. Si cerca il prodotto medio sicuro, non l’eccellenza, che rimane troppo rischiosa, soprattutto su un argomento come la scuola. Lo spettatore ha bisogno di riconoscersi in luoghi, personaggi, dinamiche, strutture del racconto ben delineate, dialoghi immediati e sviluppi prevedibili anche quando propongono un imprevisto. Il modello è il recente Fuoriclasse di Riccardo Donna, interpretato dalla Littizzetto, che ormai rifà se stessa in vari contesti, da Fazio alla pubblicità.
Ogni problematica è solo accennata, mai percorsa e analizzata: meglio convergere sulla piccola crisi adolescenziale, sull’incomprensione iniziale con diversi allievi della classe, sulla prevaricazione di alcuni colleghi lavativi e approfittatori. Ma i veri problemi dove sono? Ma soprattutto: c’è qualcuno tra il pubblico interessato a vedersi investito in prima serata di questioni che ignora totalmente e che potrebbero rispecchiare il nostro allarmante stato sociale, dopo aver lavorato un giorno intero ed essersi meritato una lauta cena? Non credo, meglio diluire in salsa da commedia.
Prevale il cliché di una scuola che racconta se stessa attraverso il filtro cinematografico (e televisivo) cui è stata sempre vista e mai come è in realtà. La situazione non è così negli Stati Uniti e non per semplice esterofilia: basterebbe soffermarsi a osservare la grande abilità nel narrare le contraddizioni del sistema scolastico in un serial come The Wire (la quarta serie, del 2006, è dedicata alla scuola) oppure vivere l’impatto emotivo ed espressivo di un piccolo gioiellino come Precious (2009)di Lee Daniels per capire l’impietosa differenza esistente.
Una visione che emerge dall’immaginario cinematografico è quella della scuola come luogo di resistenza ai valori disumanizzanti di un mondo feroce, dai tratti assurdi e ottusi.
Dipende dalle prospettive assunte dai film, dai protagonisti, dal periodo di produzione e dal target di riferimento. A volte quella stessa ottusità, assurdità e ferocia che si imputa al mondo esistente all’esterno si rispecchia all’interno della scuola rappresentata al cinema. E in quest’ottica la scuola diventa metafora di un mondo senza qualità, che può essere visto sotto molteplici aspetti. Una delle tendenze più sfruttate, ad esempio, è quella dell’horror circoscritto alle mura scolastiche, nel cui microcosmo si può realizzare il sogno di una società massificata, in cui le singole individualità siano annullate e nel quale tale disegno è organizzato in prima persona o con la compiacenza degli insegnanti, ritenuti più o meno direttamente colpevoli di questo mostruoso tentativo di livellamento delle coscienze (ad esempio in pellicole come The Faculty di Robert Rodriguez o come Generazione perfetta di David Nutter, entrambi del ’98).
Un modo non dissimile da quello metaforizzato dalla sci-fi anni ’50, quando l’omogeneizzazione delle diverse individualità rappresentava l’ossessione primaria degli americani, che temevano e in questo modo esorcizzavano il pericolo di un’invasione comunista. Insegnanti di fine secondo millennio come i sovietici mangia-bambini, quindi. E a quanto si legge sui giornali, anche l’attualità non se la passa così bene, visto che non sembrano passati 55 anni da L’invasione degli ultracorpi (Don Siegel, 1956): qualcuno è ancora ossessionato dall’infiltrazione degli insegnanti comunisti a scuola. Conforta sapere che la fiction arriva ad attualizzare con molti anni di anticipo ciò che si presumeva irrealizzabile. Che sia uno dei segni attraverso cui capire che viviamo in una società distopica?
Che ruolo ha la scuola nel cinema italiano di oggi? Esiste film-tipo o modello ideale di narrazione o addirittura regista che pensi potrebbe essere in grado di raccontare la scuola gelminiana?
Non so se la scuola attuale possa essere raccontata compiutamente. Gli ultimi esempi non sono incoraggianti: La scuola è finita di Valerio Jalongo, che è un insegnante liceale e quindi la scuola la conosce bene, pur avendo mirabili intenzioni, è zeppo di quei luoghi comuni narrativi e rappresentativi che derivano da una concezione cinematografica che ripete se stessa invece di osservare al di là delle apparenze ciò che veramente intende raccontare. Il primo incarico di Giorgia Cecere punta a mostrare molto del percorso di emancipazione dell’identità femminile di una giovane insegnante, ma lo fa a scapito della scuola rurale in cui insegna, la quale è proposta in forma ancillare rispetto allo sviluppo della protagonista. La stessa opacità si osserva nelle fiction come Fuoriclasse, come ho già dettoprima.
Credo che nessun regista di oggi, seppur grande, possa dire esattamente che cosa sia la scuola italiana. Moretti la renderebbe un balletto surreale (cosa che in un certo senso ha già fatto in Bianca, nel 1984, precorrendo i tempi), Sorrentino probabilmente restituirebbe la solitudine incomprimibile di un insegnante alle prese con l’insolubilità di un ruolo e di una situazione esistenziale ormai senza sbocchi possibili; Virzì ci mostrerebbe (e ci ha mostrato nel passato) un gran circo di spersonalizzazione progressiva in cui il singolo individuo (allievo o insegnante) cerca di conservare identità e carattere a dispetto di ciò che lo circonda. Gli esempi potrebbero essere tanti. Ma la verità è che l’immagine della scuola attuale è restituibile con attendibilità solo attraverso le inchieste di “Report” o di “Presa diretta”, oppure, sul versante cinematografico, lungo questa nuova tendenza dei documentari sulla scuola, tendenza che il più delle volte passa inosservata, visto che la distribuzione di questi prodotti è inesistente e che l’unica possibilità di vederli sono i festival. E a quel punto è necessaria la figura di un individuo che coniughi in sé il lavoro da insegnante, per la sensibilità relativa all’argomento, e la passione del cinefilo per la frequentazione dei festival.
Il panorama mostrato da questi lavori, alcuni dei quali veramente apprezzabili (come Pesci combattenti del duo Di Biasio - D’Ambrosio, 2002, A scuola di Leonardo Di Costanzo, 2003, Welcome Bucarest di Claudio Giovannesi, 2007, Signori professori di Maura Delpero, 2008, solo per fare qualche esempio), non è per niente confortante seppur caratterizzato da alcune sacche di coraggiosa resistenza. Ma, ad onor del vero, questo è uno stato che preesiste alla comparsa dell’affettatrice Gelmini, che ha soltanto dato il colpo di grazia, pur nascondendo la mano con la pistola fumante.
Dieci film imprescindibili, a questo punto...
Cercherò di coniugare criteri di interesse generale e mio particulare. In ordine sparso.
Un film di un cinismo difficilmente eguagliato è Election (1999) di Alexander Payne (tratto dal romanzo di Tom Perrotta Intrigo scolastico), fantastica allegoria del rampantismo della società e acuta parodia del mito della capacità di rigenerazione americana.
La classe(2008) di Laurent Cantet, perché mostra la grana del sudore quotidiano e l’amarezza della delusione di fronte alla vanità dello sforzo.
L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, perché è retorico, è tronfio, trasuda idealismo letterario da tutti i pori, ma ci sarà pur un motivo se gli studenti che lo vedono apprezzano le dinamiche didattiche del professor Keating. Utilissimo per farsi alcune domande.
I quattrocento colpi(1959) di François Truffaut, perché rappresenta il momento di più alto lirismo per gli allievi considerati reietti e problematici. Una speranza in versi tradotta in inquadrature.
Elephant (2003) di Gus Van Sant. Per il suo notevole valore cinematografico, per l’ammirevole discorso stilistico coniugato a una tragedia prosciugata di qualunque orpello spettacolare. Un autentico deserto dell’anima.
Il maestro di Vigevano (1963, da Mastronardi) di Elio Petri. Per la maschera di meschina sofferenza che si dipinge sul volto di Alberto Sordi, ben prima che si coniasse il termine mobbing.
La strada verso casa (2000) di Zhang Yimou. Perché narra di una vocazione e di un amore che si stringono inscindibilmente fino alla sublimazione.
Quelle due (1961) di William Wyler. Remake de La calunnia (1936), sempre di Wyler. Per la sua grande capacità di far materializzare l’innocenza del demonio e per il coraggio di affrontare in anticipo sui tempi una storia di affetto fra insegnanti amiche.
L’onda(2008) di Dennis Gansel. È un film che non amo, lo trovo pieno di errori e forzature nello sviluppo del racconto, di luoghi comuni e di situazioni difficilmente giustificabili, ma è una pellicola didatticamente importante proprio per la sua obbligata costruzione a tesi.
Se poi devo finire con un ultimo titolo, cito la sequenza della scuola in Amarcord (1973) di Fellini, perché ci vuole classe a svillaneggiare personaggi e modalità didattiche della scuola durante il fascismo in pochissimi minuti e con un tratteggio delle situazioni così intenso e tagliente. Indimenticabile.