Zombi insight
Più reali che mai. Ecco come appaiono – e sono – gli zombi di Rocco Ronchi che nel suo ultimo lavoro dal titolo, quanto mai azzeccato, Zombie Outbreak (Textus, L’Aquila 2015), s’improvvisa regista di una fenomenologia degli spiriti e del Dead assoluto.
Già ne parlano tutti, come se ne fossero stati contagiati, ma del resto Outbreak significa anche questo: epidemia.
Quello di Rocco Ronchi è un libro che vale un morso e un contagio, entrambi letali. Zombie Outbreak è infatti solo all’apparenza un libretto dedicato alle decreature generate da Haiti e adottate successivamente da Hollywood; è solo cioè all’apparenza un libretto agile e pop-filosofico consacrato agli eroi del cinema di genere. In realtà è un libro-esca che, mentre dà voce (l’unica peraltro possibile) a queste ‘creature’ virali che ossessionano l’immaginario contemporaneo, non solo cinematografico, annuncia al mondo che è venuto il tempo della sua fine.
95 pagine che avanzano stupidamente, senza evoluzione alcuna, perché “quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’apocalisse – scrive Ronchi – è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito” (p. 18). Alla fine vincono gli zombi, ma solo perché l’avranno vinta sin dall’inizio. Nessun vizioso circolo del presupposto-posto in una logica dell’outbreak in cui alfa è uguale ad omega secondo la più perfetta e pirotecnica coincidentia oppositorum. Tutto è già deciso dalla prima pagina e l’unica suspense attivata è l’attesa frenetica di incontrare questi morti viventi, neppure troppo per caso, al luna park del quartiere.
Eva Besnjo
Ma in che senso gli zombie, frutto della fantasia, appaiono reali senza esserlo mai? Nel senso, tutto paradossale, per cui l’enunciato Ego sum, nemo sum, rovescio del cogito cartesiano e di ogni individuazione, se pronunciato in alcune circostanze, non solo ha senso, ma indica il Reale di ognuno di noi. E lo indica perché lo fotografa.
“Fin dai suoi albori la fotografia ha avuto a che fare con revenants di ogni genere, comunicando al cinema questa sua inclinazione” (p. 70) e nel suo testo, di questa consustanzialità tra immagine e morto vivente, Ronchi non smette di far parola, come se da queste “sante icone” fosse stato infettato a sua volta. Nei termini di un vizio di forma (Inherent vice), per riprendere il titolo dell’ultimo film di P.T. Anderson, si possono perciò interpretare sia la vocazione foto-cinematografica degli zombi che quella dell’autore per queste creature con cui il piccolo Hans non avrebbe potuto giocare al rocchetto senza impazzire. Ogni volta che si cade nella trappola dell’obiettivo, fotocinematografico, si è infatti letteralmente ‘zombificati’ e l’andirivieni tra Fort e Da cortocircuita fino a farsi schisi assoluta.
Fatti di materia onirica non meno che cinematografica, gli zombi sono lì a ricordarci che “la quiete posizione di colui che ricorda”, e che guarda, è soggettivamente impossibile: niente e nessuno può assicurarcela, nemmeno quando dormiamo. “Dormire – scrive infatti Henri Bergson – è disinteressarsi” e il sogno, diversamente da quanto ipotizzava Freud, è per il filosofo francese una specie di “immensa danza macabra”, a Carnival of Souls come recita il titolo dell’unico zombie-movie realizzato da Herk Harvey.
“Personaggio concettuale che meglio incarna la materia del cinema” (p. 72), lo zombi, in quanto “decreatura” che non ha un mondo pur facendone ancora parte, dimora nel non luogo dell’immaginario. In barba all’antropologia filosofica di Gehlen e all’analitica esistenziale di Heidegger gli zombi, che del Dasein rappresentano il rovescio speculare, non hanno nessun mondo da formare perché, più che di istinti e risposte, è di questo che sono irrimediabilmente carenti. Carenti perché, rispetto al mondo, sono postumi, vengono cioè dopo l’uomo e dopo il Dasein, pur non facendo altro che insistere, già da sempre, in ogni piega dell’Esserci. Il loro essere è fatto di tempo che decrea, la loro autocoscienza è garantita fortuitamente dal sale dei pistacchi (“che consegna lo zombi a un anonimato essenziale e lo sradica dall’essere senza peraltro consegnarlo al nulla” p. 83) e la loro felicità affidata occasionalmente a qualche “grossolano effetto speciale” (p. 93).
“Finalmente un’idea di fango, capelli e unghie che non sia raccapricciante e assurda!”, direbbe Platone se potesse commentare queste brillanti pagine in cui le proposizioni speculative flirtano amabilmente con i crani fracassati. Già perché gli zombi di Ronchi sono proprio della stessa sostanza (godente) di quei resti intrattabili per il giovane Socrate interlocutore di Parmenide, intrattabili perché ottusamente limitati a “essere semplicemente quello che sono”, a essere cioè “proprio come li vediamo”. “Il loro essere – scrive Ronchi commentando il Parmenide di Platone – si risolve nel loro apparire senza fondazione ulteriore” (p. 28), come un felice e semplice esempio di cosmesi e/o di ‘estetica’ dell’esistenza, per fare il verso a Foucault.
De-creazionismo potrebbe essere battezzata la teologia che cerca di farne oggetto di discorso e increato, nel senso di non formulabile, e quindi mai generato, l’enunciato con cui ciascuno zombi cerca di dire che e chi è dentro e fuori questo discorso, costretto a perdere la faccia (più che a salvarla) per guadagnare un volto e un nome. Privo di qualsivoglia intonazione espressiva “il detto del suo dire è infatti – come osserva Ronchi – l’indicibile stesso, è la contraddizione – performativa – della parola” (p. 85). L’insight non può farsi espressione perché per enunciare qualcosa bisogna essere, “l’istanza del discorso essendo vivente per definizione” (p. 86). Dunque, a rigore, o zombi o parola. Eppure in quel “niente che assomigli a una voce” (p. 87) qualcosa parla, ça parle, insistentemente, e sta, “impreciso e larvale” come il nome momentaneamente dimenticato, sulla punta della lingua.
Sfogliando il libro di Ronchi, che da questo punto di vista funziona un po’ come le Meditazioni cartesiane, ciò che si sperimenta è che, almeno da un punto di vista psichico, enunciati come “io sono morto”, parimenti a quelli del tipo “io non ricordo nulla”, “il gatto è sul tappeto ma non credo che lo sia” o “ti prometto che farò in modo che 2+2=5”, non solo hanno senso, ma svolgono, come si diceva all’inizio, una precisa funzione. Contraddittori da un punto di vista performativo, enantiosemai per la logica classica e atti linguistici autodistruttivi secondo la pragmatica della comunicazione, quegli enunciati, e in modo particolare l’ego sum, nemo sum, funzionano, di fatto, come deittici rispetto a quello che Lacan chiama Reale e come strumenti di una logica dello sfondamento e dell’outbreak, più che della fondazione.
Per definizione indicibile, essendo precisamente ciò che sfugge alla presa del significante, il Reale, come il cogito zombi, trova infatti espressione solo in enunciati immediatamente paradossali, al limite dell’impronunciabile. Il loro statuto è il medesimo di quello della fotografia: essere memoria, in quanto indice, traccia, impronta o calco, del passaggio misterioso dell’evento, del suo “che è stato” (p. 71).
Per gli zombi il reale, il “che è stato”, è l’esistenza stessa, l’essere in vita e cosciente di sé. Reale perché impossibile a realizzarsi prima che a dirsi. E tuttavia, quante volte capita anche a ciascuno di noi di perdere coscienza, di sentirsi svanire, di aver già visto e vissuto e quindi di essere, in certo senso, già morto? Spersonalizzazione, derealizzazione, sentimento di irrealtà, paramnesia e allucinazione sono frammenti di Erlebnisse prima che voci del DSM e figure della clinica. Senza concluderne necessariamente nella direzione di una psicosi generalizzata (ammesso poi che si tratti di una condizione così spaventosa come si è soliti credere), sostenere che l’enunciato zombi è l’enunciato del Reale, significa però, e per lo meno, sottolineare che gli zombi sono de-creature democratiche, molti dei molti che siamo, quando tutti sono altri e nessuno è soggetto.
Così come nessuno sfugge al Reale che, come i dead torna incessantemente al suo posto, nessuno è infatti mai davvero al sicuro dal rischio di diventare uno zombi (o di esserlo già). “La materia è una madre gravida” (p. 57) di morti viventi non soltanto quando a impressionarla sono una forma o un modello preesistenti. L’individuo stesso, in quanto è processo in atto, sostanza che si costituisce facendosi e mai interamente data, e soprattutto se è pensato in questi termini insiste giustamente Ronchi, non solo continua a implicare il “living dead come suo ineliminabile rovescio, lo implica anzi più che mai” (p. 53).
Il linguaggio comune è del resto lì che lo attesta. La possibilità del “becoming dead” è sempre attuale e questo è solo un altro modo di dire che lo zombi è “la tendenza che caratterizza l’uomo come essere sociale” (p. 61) e, aggiungerei, individuale. “Sei diventato uno zombi!” oppure “sei un morto che cammina” non sono soltanto formule colloquiali con cui si ammonisce un amico o un’amica per una lugubre piega che la sua vita ha preso o sta prendendo. Simili esclamazioni funzionano anche come campanelli d’allarme di un rischio reale, di una tendenza che, in determinate circostanze, si attualizza. La condizione comune dei revenants e di molti nevrotici è infatti in fondo la stessa: la coazione a ripetere in quanto “messa in scena”, spettacolare e cinematografica, della morte-in-vita.
Escher
Del resto, l’intero saggio di Ronchi ha come obiettivo primario quello di farci sembrare meno assurdi, ridicoli e insignificanti proprio quegli scarti dell’esistenza (che per questo diviene “existance sans existants” – p. 89) e quei rifiuti con cui talvolta ci identifichiamo, la cui eventuale partecipazione all’alto regno delle Idee-vampire angosciava così tanto il giovane Socrate nel Parmenide. E ci riesce! Dopo aver letto il libro viene voglia non solo di andare di corsa ad acquistare il cofanetto dei film di Romero e di prenotare un biglietto aereo per Haiti, ma di farlo con un sacchetto di pistacchi in una mano e nell’altra un petardo, canticchiando, beatamente, “io sono morto! Io sono morto! Io sono morto”. E sentirsi vivi come non mai.