Che cosa significa Incassare? Risparmiare? Sprecare? Consumare? / Mida a Wall Street
“La storia degli uomini è un attimo tra due passi di un viandante” ha scritto Kafka e i quindici saggi in cui si articola Re Mida a Wall Street (a cura di Federico Leoni, Mimesis, 2015) provano a far durare quell’attimo convertendolo in moneta e lasciando poi che circoli tra le parole che il discorso filosofico, psicoanalitico ed economico, hanno messo a disposizione di quella “storia di uomini” affinché non cessasse di scriversi. Una storia il cui senso – “nexum rerum storico e non premessa naturale” come precisa Fachinelli in uno dei due testi ‘ritrovati’ e messi a disposizione del lettore nella sezione Materiali – si lascia però solo intravedere, dire a metà, indovinare perché, se la parola è come la moneta, l’oro del linguaggio, la Chose che infinitamente si esprime e brilla nelle perle della collana significante, è, per sua natura, inafferrabile. È stato Henri Bergson a fornire di questa infinita impareggiabilità una delle più belle immagini quando, per illustrare il principio metafisico di pienezza e continuità, ne L’évolution créatrice, si serve di un’immagine economico-alchemica e scrive: “la métaphysique établit entre l’éternité et le temps le même rapport qu’entre la pièce d’or et la menue monnaie – monnaie si menue que le paiement se poursuit indéfiniment sans que la dette soit jamais payée”. La domanda che sottende la riflessione sviluppata da Bergson in queste celebri pagine è cioè la seguente: una volta che il pezzo d’oro è offerto, quanta moneta spiccia in vile metallo servirà a regolare il conto? Una quantità infinita, nel senso dell’infinito privativo o potenziale, infinito che l’ossessivo conosce bene perché lo interroga quotidianamente. L’oro, inteso alchemicamente come termine massimo della serie, non implica infatti la totalità (che, come tale, non è mai data) ma, piuttosto, la molteplicità illimitata delle monete spicciole. Si potrebbe dire che l’oro generi indefinitamente le monete (causalità efficiente) e costituisca, nello stesso tempo, la causa finale del loro essere, la garanzia del loro valore (come avveniva del resto col Gold Standard System, soppresso nel 1971). E tuttavia, l’oro resta trascendente alla serie delle monete che pure genera e che aspirano a tornarvi perché è esattamente questa separazione, questo “salto di natura” (Federico Leoni), che gli permette di generare la serie della moneta spicciola in modo illimitato. Autentica res nullius in bonis, la pièce d’or può cioè funzionare come motore immobile eternamente in atto (che Bergson chiama Mouvant) e come causa finale di un movimento eterno non malgrado, ma grazie alla sua non implicazione col mondo, non implicazione che vale, appunto, come differenza di natura e non di grado. Questo Mida non lo sapeva. O meglio, ne dubitava, e perciò esprime il desiderio, strutturalmente simile alla scommessa su cui si fonda il gioco d’azzardo patologico (Niccolò Terminio), di esaurire la numerazione, di scaricare la macchinetta e, così, azzerare il conto.
Anche a Wall Street si sa dell’oro e della moneta, del non rapporto (nulla proportio) che li lega fino all’obbligazione reciproca (Giancarlo Ricci) e dal 1971 in poi si è deciso di fare a meno dei lingotti, salvo poi trovarsi a rivestire di potere aureo le banche centrali e tutte quelle entità impersonali, “dalla Troika fino alla fiducia nel mercato” (Andrea Mura), che mostrano sempre più spesso la loro faccia austera. Un’austerity che però non va confusa con la tanto invidiata – e temuta – verginità del denaro, merce sempre merce che rende possibile ogni consumo senza consumarsi mai, motore dello scambio e del commercio, del sesso e della ricchezza, che tuttavia, “inspiegabilmente”, non si traduce mai in godimento e resta eternamente inconsunta.Nel linguaggio di Lacan si potrebbe dire che, mentre Mida vuole la luna e mira alla Chose come die Sache, alla Cosa nel suo valore d’uso, alla Cosa come bene materiale e naturale di cui godere narcisisticamente, (ossia in un’eternità fatta di accelerazioni e solitudine come è quella del GAP, gioco d’azzardo patologico), Wall Street, solo apparentemente più avanzata, lascia a terra il peso dell’oro, rinuncia alla Chose perché la intuisce come Das Ding e prende il volo, petrolifero e globalizzato, verso il paradiso fiscale dell’alta e astratta finanza. La zavorra dell’oro, la res solida a cui ogni speculazione dell’intelletto era costretta ad adeguarsi è lasciata nel caveau-cripta dell’inferno statuale e fordista, salvo poi penetrarvi, occasionalmente ed enigmaticamente (“le banche non sanno quello che fanno”), per rubare di tanto tanto il segreto-esecreto del metallo più prezioso (ossia interpretarlo, fissarne il prezzo, com’è suggerito dalla prossimità tra le parole latine interpres e pretium segnalata da Jean-Luc Nancy nell’altro testo recuperato e accolto nel volume). Le banche avrebbero cioè preso il posto dell’oro zecchino quando hanno iniziato a emettere (e controllare) i pegni-moneta dalla Zecca mondiale. L’arcano della moneta, a cui Enrico Readelli consacra più di una riflessione nel suo saggio, dopo che Massimo Amato gli ha dedicato, nel 2012, un intero lavoro, riguarda proprio questa creazione di denaro ex nihilo – in quanto la moneta, si dice, è un debito emesso (e controllato) dalle banche centrali – e quel debito pubblico inestinguibile in via di principio visto che la moneta con cui lo si dovrebbe solvere è essa stessa debito. E ciò è talmente vero che, così come interrogarsi sull’origine dell’universo e della coscienza è lo stesso dal punto di vista del Reale della scienza, allo stesso modo, tra la domanda sull’origine della moneta e quella intorno alla possibile estinzione del debito non c’è alcuna differenza.
La calunnia di Sandro Botticelli.
Di questo paradosso, vero e proprio doppio vincolo in cui risuona il fenomeno tutto inedito e übermenschlich del segno e del tempo, i saggi raccolti in questo volume cercano di dire qualcosa. Alcuni (Enrico Redaelli, Gianluca Solla) approfondendo la vertiginosa archeologia temporale dell’umano attraverso il debito, altri (Federico Chicchi, Andrea Mura, Alberto Russo) indagandolo dal punto di vista della sua forma temporale attuale, altri ancora (Riccardo Panattoni, Rosalba Maletta) inserendolo in ulteriori paradossi e salti mortali simili a quei punti esclamativi necessari, secondo Kafka, per parlare delle ballerine senza sacrificare il ritmo e il godimento del loro movimento; infine, circoscrivendo senza remore e pregiudizi il vuoto intorno al quale ci costituiamo come monete nevrotiche e viventi, altri (Giovanni Mierolo, Silvia Lippi, Niccolò Terminio, Giancarlo Ricci) mettono a fuoco un certo tornaconto, un singolare godimento strisciante e sonoro anche nel più mite e silenzioso compromesso. Ed è forse proprio grazie a questo conio tutto psicoanalitico della moneta-sintomo e alla luce proiettata dall’astuzia di Lacan sul volto bifido col quale questa moneta, che pure guardiamo e scambiamo, “ci” guarda e “ci” scambia” a sua volta, che è possibile “imparare” a spendere il proprio denaro, a “farsi complici dei vulcani” (ani aperti e popolari) e con un balzo, per contraccolpo, ritrovarsi al di là della logica del debito e del sacrificio (Federico Leoni).
Che fare del godimento e del debito? Come comportarsi con la moneta? Che postura assumere ‘davanti’ al Reale? E, soprattutto, che cosa significa “mancare”? Incassare? Risparmiare? Spendere? Sprecare? Consumare? E ancora: come spiegare “lo strano miracolo per cui qualcosa vale” e quello, ad esso contiguo, del perché qualcosa si equivale? Come si dovrebbero, in altri termini, concepire la moneta e l’interesse affinché la disoccupazione, il debito e le disuguaglianze non crescano così vertiginosamente come sembra? Tentando di rispondere a queste domande i saggi raccolti nel volume procedono a una vera e propria emendazione dell’intelletto economico e capitalistico. L’indebito tocco di Mida, fascista-maniacale-paranoideo, è qui presentato come uno dei due poli oscillanti del Reale schizofrenico del capitalismo, l’altro essendo quello, anarchico-melanconico-perverso della mano invisibile del liberismo economico che produce gli effetti, visibilissimi, di un debito incalzante e non estinguibile. Da un lato, l’automaton della risposta privilegiata, ma disfunzionale, a un evento scatenante che torna a ripetersi in modo anticreativo e stereotipato (assoluta convertibilità dell’oro: assoluta immobilità del desiderio), dall’altro la tyché come incontro mancato con “la mancanza di ciò che fa funzionare la rappresentazione”, incontro intempestivo che commemora l’irruzione di un godimento e prende il sopravvento sul soggetto, indebitandolo. Il grande merito di questo lavoro è però quello di stimolare, attraverso l’individuazione di problematiche cruciali e la coraggiosa messa a fuoco delle loro strutture elementari, la critica a queste stesse individuazioni e focalizzazioni non appena vengono avanzate. Nessun cedimento nei confronti di una troppo rapida, seppur seducente, vis solutiva: in ciascun articolo è piuttosto fatta salva l’oscillazione essenziale al movimento del pensiero e gli enunciati sembrano torcersi ad ogni istante verso la loro enunciazione. Ogni cornice è cioè allestita dalla sua macchia come in un tropismo fotosintetico ed è per questo che, seguendo le vicissitudini di Re Mida a Wall Street, è possibile porre domande ancora più cruciali e coraggiose di quelle che, pure, hanno reso indispensabile lo sforzo di ciascun autore. Queste domande circolano come spettri nel testo quasi a loro insaputa, albeggiano in ogni sezione del cono infettando la stesura dei piani che articolano la superficie del rapporto tra Debito, Desiderio e Distruzione. Anzitutto: è davvero così mostruosa quella dialettica tra credito e debito, oro e merda, liquidità sfrenata e depositi cauzionali che allestisce lo spazio fatto d’oro e che rifà d’oro le cose che diventano segni l’una dell’altra? Non è forse l’aspetto vivente della vita e mouvant del movimento ad animare questo commercio che è circolazione di segni-che-sono-già-cose, monete-che-sono-già-oro e che assomigliano così tanto alle immagini di Henri Bergson e ai simulacri di Gilles Deleuze? Non è, insomma, come sentenzia Platone, l’essere stesso (il to on) una potenza di relazione e di comunicazione (dynamis tes koinonias)? Detto altrimenti: ha ancora senso ragionare nei termini di uno spazio disincarnato e disincarnante, astratto e ideale, in cui si uccidono le cose per mano di simboli? Ha senso cioè ostinarsi con il mito dell’espropriazione di una natura originaria e della prevaricazione che l’osceno valore di scambio compie sul sacrosanto valore d’uso rubandoci la nostra bella anima assieme all’autentico e sano Spirito che la amministrava come un sovrano buono e legittimo? Quanto feroce ma dissimulato risentimento c’è, a ben guardare, in una certa retorica dell’alienazione e della mancanza, troppo spesso rimovente l’altro lato del corno, quello che Lacan chiama “separazione” e che è il lato in cui si perde-e-produce qualcosa, il momento in cui il soggetto ritiene e procrea, senza troppi “brividi mistici” né “spasmi retentivi” (Elvio Fachinelli)? Infine, se l’uomo è un segno, senza significato secondo l’aforisma di Hölderlin, siamo proprio sicuri che questo significhi esclusivamente essere in debito e non anche essere una potenza, affermativa, di espressione?
Se la mancanza, il vuoto, il debito sono effetti ottici, un miraggio retrospettivo a partire dall’iscrizione del soggetto nella trama dei significanti, perché non trattarli, “una buona volta”, come tali? Lacan ha definito la cultura un’immensa cloaca e il soggetto, lo “stronzo del proprio fantasma” che albeggia nell’insieme vuoto della pagina bianca di ogni scrittura e che, in filigrana, si lascia intravedere proprio in quella inconsistente coincidenza della moneta con la propria spesa. Se questo è vero, e se la castità allo stesso tempo perversa e piena di grazia del denaro è fatta della stessa stoffa di quella fides indisponibile e incommerciabile pur permettendo essa stessa il commercio (Giancarlo Ricci), perché non spingere una primultima volta il pensiero critico fino a quel limite inumano e pernicioso, sudicio e fangoso che è il Reale della legge ma solo perché del capitalismo e, prima ancora, del simbolico? Perché, cioè, non renderlo forte abbastanza e a tal punto “degno di ciò che accade” da permettergli di stare e frequentare, senza sdegno e disgusto, quella soglia agalmatica e magmatica che, prima ancora del riconoscimento di un debito, riguarda quello di un desiderio immondo che alberga in ciascuno di noi?Andare al di là della paranoia e del principio di piacere, sfuggire all’articolo determinativo e ossessivo che è il sintomo dell’indeterminazione umana e così avviarsi al compito infinito della giurisprudenza, sono movimenti che presuppongono che ci si confronti con quello statuto di surrogato, sostituto (Ersatz) e supplemento (Nachfolge) che prima di inerire allo schifoso e vile denaro, è il segno proprio della Cosa impropria, attorno alla quale veniamo su come in un movimento a spirale; uno schifo che è il marchio autentico dell’inautenticità messa a punto dalla schisi tra l’occhio dell’io e il soggetto dello sguardo, schisi all’origine persino della più limpida e trasparente visione. Andare al di là della paranoia significa cioè chiedersi quanto è sporco il denaro, ma chiederselo implica necessariamente sporcarsi le mani con l’ambiguità della Cosa (Lust=Unlust) che possiamo chiamare Mida o Wall Street senza, in fondo, grandi differenze, a patto che questi nomina (letteralmente: debiti) funzionino come monito, sempre attuale, a sorvegliare il Mida-fascista e il Wolf of Wall Street che ognuno di noi può sempre diventare e che già sta diventando. È sufficiente, per questo, appena una moneta, uno scambio, uno spicciolo perché il denaro è abbastanza sporco da doversi lavare le mani prima di metterle in bocca (Hermes) ma non a sufficienza per alimentare il camino della nostra casa (Hestia). È sporco come una puttana eternamente vergine, indebitata e sovrana, moneta di scambio per ogni nuova alleanza e merce prediletta da ogni guerra.
L’intreccio tra Debito, Desiderio e Distruzione è dunque, in conclusione, la trama della fabula (“storia degli uomini”) di un capitalismo che produce desideri ma solo perché capace di sfruttare il desiderio che lo precede e che è. Questa è la sua astuzia, simile a quella dell’olofrase Mida-Wall Street. Mida è infatti il primo capitalista della storia e Wall Street la “piazza”, il mercato, dove gioca Zoe, una delle figlie del re greco secondo il mito. “O la borsa, o la vita” è la regola-motto di questo gioco, regola che, fra le altre cose, indica che non c’è, prima, un principio di piacere (omeostasi pre-capitalistica) e, dopo, il suo al di là violento e perverso (capitalismo). Non c’è nessuna successione aurea e ben regolata perché, come l’oro rispetto alle monete (secondo la bella immagine che ce ne offre Bergson), l’inconscio rispetto all’Io (Freud) e il Reale nei riguardi della sua vita simbolica (Lacan), l’al di là e il suo piacere sono (in) una sola superficie, un kamp, una piega, uno scambio, un commercio continuo. Questo è il mostruoso da pensare per inaugurare quella giurisprudenza del debito e quella infinita riforma monetaria che valgono come condizioni trascendentali dell’economia dell’assoluto rivendicata nelle ultime pagine del volume da Leoni. Questo è il mostruoso che, prima ancora del debito, dobbiamo decidere se saldare, rimuovere o trasferire, lasciandoci, eventualmente, farci trasferire a nostra volta. Se non c’è rapporto sessuale c’è, scrive Lacan, del sesso, dello scambio, del commercio. C’è dell’essere come potenza commerciale. E l’essere, come vuole un’antica e minore tradizione del pensiero filosofico, si dice in un solo senso di tutti gli enti di cui si predica e presso i quali è, pur non essendovi mai come tale. Per questo motivo, andare al di là del sacrificio (sacer-facio) significa fare cose pro-fane, sciuparsi e spendersi come monete, e poi lasciarsi rigenerare dall’oro dello scambio condiviso e sociale in cui si trafficano eventi e mercanteggiano segni, mettendo, anzitutto, a disposizione “cose” e “beni”. Fare cose profane potrebbe significare, ad esempio, scommettere su una sharing economy che è praxis terziaria perché dei servizi e dei figli, dei processi e delle immagini, oppure, impegnarsi a ragionare pubblicamente su quella pace del prezzo in cui anche la merce più infuriata, come ha colto Walter Benjamin, si placa o, ancora, imparare a camminare in uno spazio globale con la madre-moneta in tasca e il nome del padre scritto in un verbo che dice: muoversi! Circolare!