Alex Katz, la profondità della superficie
Ce l’ha fatta, ce l’ha fatta, Alex Katz a diventare un grande e riverito maestro della pittura americana del Novecento. E non foss’altro che, splendido 95enne (è del 1927), non ha abbandonato mai quel “falsamente rassicurante” formato cinemascope, quei suoi soggetti e quel suo tratto inconfondibile, fatto da colori totalmente piatti, squillanti e pieni, quella sua mania di grandezza che fa splendere i faccioni delle persone che ama (sua moglie Ada è finita in centinaia di dipinti), e soprattutto esalta ciò che, in realtà, Katz dipinge incessantemente: il lavorìo della luce sulla realtà.
L’Albertina di Vienna (cui Katz ha donato in tempi passati molte sue opere e l’intera collezione delle sue stampe, che sono una più bella dell’altra) dedica al pittore americano (fino al 4 giugno) una retrospettiva ampia, solenne e significativa dal titolo esplicativo e molto pertinente: “Cool Painting”. Il dilemma del possibile equivoco con altri generi di “cool” è presto svelato e, del resto, dichiarato subito in apertura: ha a che fare con il jazz di Miles Davis. E se “cool” diventa una categoria estetica ben precisa, allora Katz non può che esserne il maggiore cantore, almeno in pittura.
Nelle stanze del museo austriaco si dipana il racconto della sua America casalinga, fatta di gente tranquilla, rasserenata, cocktail e spiagge, i suoi protagonisti sono bianchi, acculturati, benestanti, tranquilli, potremmo dire anche snob: hanno visi curati, sono ben vestiti, indossano spesso dei cappelli meravigliosi, non disdegnano di portare vistosi e scurissimi occhiali da sole. E poi, fronde di alberi che stormiscono al sole, spiagge e marine con riflessi accecanti, pochi notturni con le finestre viste da dietro i rami: atmosfere sempre sospese. Ineffabili. Piove rare volte nei dipinti di Katz, e quasi nessuno ha nulla da ridire: regna davvero una tranquillità assoluta, un clima che congela, in un momento assoluto, un istante di tempo. Davvero Katz cattura l’attimo, vive, del resto, per quello.
Ma c’è molto di più. Intanto, l’assoluta sicurezza con la quale dipinge. La sua è chiaramente una pittura adulta, allenata da decenni di stesure nette e qualificate. Lo racconta lui stesso e chi è stato testimone del suo modo di fare. Esegue delle prove e dei bozzetti molto precisi, ma poi lavora molto molto in fretta. Stende campiture di colore enormi, velocemente. Coglie la luce quando deve essere colta. Al tramonto ha pochi minuti per capirla, poi il sole non concede altro e lui non può sbagliare. Pennelli e lamette sono usati in maniera chirurgica. Tutto è geometrico nei suoi dipinti, tutto è di parossistica precisione. Ogni bordo, ogni segno, ogni disegno è una rasoiata definitiva.
La sua preoccupazione costante è il colore; il colore e la composizione. Ma perché, allora, l’opera di Alex Katz è rimasta così unica fino ad oggi: in fondo, di colore e composizione si potrebbe dire di molti suoi colleghi. E come mai ci sono voluti 50 anni perché il Guggenheim di New York lo celebrasse, lo scorso inverno, con una eccezionale retrospettiva che ha invaso la spirale del museo, aggirando tutta la superficie del museo newyorchese, e fondendo quadri e spettatori (sono praticamente in fine gli stessi) in una maniera così affascinante. Probabilmente, in termini di estetica formale, dobbiamo senza dubbio ringraziare Katz per aver salvato il rigore della pittura come una volta. Se i contorni spigolosi e la "piattezza radicale" erano stati visti come il punto terminale della pittura, fino almeno alla Pop Art, Katz ha compiuto un doppio salto mortale: la sua arte, che cercava di rappresentare pura astrazione e motivi artificiali, è diventata “realista” e, d’altra parte, il suo realismo è certamente astratto.
Il regno della banale realtà, per Katz, è terreno di esercitazione continua ma anche di fuga sottile: i placidi individui che popolano le casette al mare nel Maine, i suoi amici e personaggi letterari che provengono dalla scena intellettuale di New York sono figuranti astratti e radicali, per quanto volti noti (i quadri hanno il nome delle persone ritratte) e realissimi. Katz, in un filmato realizzato dal Guggenheim, mentre cammina in un prato inondato di luce dice di sé una cosa fondamentale. “Si impara lentamente” e lentamente, “però, la pittura restituisce ciò che hai appreso”. La fredda distanza nella quale i suoi soggetti, pur emotivi e vibranti, sono collocati da lui stesso, non gli impedisce di farci cogliere la verità del suo messaggio; la pittura è ciò che è. Non altro.
Non ha e non vuole trasmettere messaggi sociali, non rivendicazioni politiche: solo l’instancabile luce che investe e circonda il mondo. E se si pensa che ancor prima che la pop art entrasse in scena, Katz era già Katz, pittura figurativa, razionalismo, sensualità e astrazione abbiamo detto molto. Ma bisogna essere, di nuovo, precisi: dire “figurativa”, nel suo caso, è una semplificazione intollerabile: a un esame più attento, infatti, ci si rivela un grado di astrazione infinitamente alto. Tanto che, diventato celebre solo dopo i 70 anni, oggi Katz è uno dei pochissimi artisti le cui opere possono essere viste in contesti diversi come la collezione permanente del Whitney Museum of American Art nel Meatpacking District di New York e le case dei collezionisti: Katz è uno dei pittori “più contemporanei”. Ha la “maledizione” di piacere, la sua superficialità (ossia l’instancabile soffermarsi sulla superficie) paga e appaga: piace a colpo d’occhio.
I suoi quadroni, quindi, corrono consapevolmente il rischio di apparire ripetitivi, eppure, spesso, nei suoi ritratti senza sfondo, di taglio quasi cartoonistico, la mancanza di elementi di distrazione, rievoca nientemeno che classici fondi oro bizantini, o i cieli blu del Quattrocento e, ancora, la pagina bianca del manoscritto sopra cui si stagliava la miniatura del capolettera.
E così la figura, qualunque essa sia, finisce per dominare insospettabilmente chi la guarda: troppo facile per essere fraintesa, intinge in un immaginario (è il caso di dirlo) che è quello della pubblicità, della cartellonistica (Katz aveva dipinto una stupenda infilata in Time Square a New York, che faceva concorrenza alla reclame murale), della locandina cinematografica. Eppure, va ripetuto, bisogna stare attenti: le sue opere ci possono ingannare: la piacevolezza di una magnolia in fiore sullo sfondo di un verde primaverile, il luccicante viso di una donna con grandi orecchini, i sorrisi, con denti sempre perfetti e bianchissimi, incorniciati da labbra sempre rosse, hanno un potere seduttivo formidabile. Ma forse è proprio questo che ci dicono: “parlano del potere seduttivo di ogni immagine e di come, attraverso di esso, gli uomini si siano sempre reciprocamente influenzati, controllati” ha scritto di lui una volta Angela Vettese.
Nella bella mostra che, con grande e coerente intuizione, Vittorio Sgarbi aveva fatto portare al Mart di Rovereto, nel 2022, era stato escogitato un altro titolo accattivante: “La vita dolce”. Rovesciando il titolo felliniano, però, si ottiene lo stesso straniamento che immagine e significato in Katz rivelano in profondità. Contemporaneamente astratto e realistico, ogni dipinto di Katz, tranquillo, silente, freddo e apparentemente rassicurante (come si diceva all’inizio) è una trappola logica. Ci dice che appaga l’occhio, tiene a bada l’inquietudine, fa, forse, ciò che l’arte deve fare. Ma si ferma un attimo prima del baratro. E il naufragar ci è dolce nelle sue pennellate: perché restituiscono a noi tutta la responsabilità di capirle a fondo.