Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Prima di tutto un’esclamazione: finalmente! Finalmente il romanzo fondativo di un certo modo di fare, scrivere, concepire la letteratura (e metterla in pratica), torna disponibile, per un grande editore nazionale e in una collocazione che gli è appropriata. Una sorta di “ritorno a casa” che ha carattere di palingenesi e di catarsi, tema, tra l’altro, quello del ritornare “a casa”, almeno in un’accezione mitica, che è del tutto sotteso alla narrazione di cui parliamo.
Parliamo di Passavamo sulla terra leggeri, il libro postumo di Sergio Atzeni (1952-1995) che, edito per la prima volta da Mondadori, dopo diverse peregrinazioni editoriali che ne hanno relegato la circolazione ad ambiti, diciamo così, più ristretti, è finalmente approdato sulle sponde siciliane della Sellerio, la casa editrice che non solo tenne a battesimo il giovane autore sardo con Apologo del giudice bandito (nel 1986, allora aveva 34 anni e di mestiere faceva tutt’altro), ma ne ha segnato la vita da scrittore.
Dobbiamo inoltre, a questo ritorno, un ulteriore elemento di gratitudine (misto a un po’ di stupore perché la dedica all’inizio della versione mondadoriana alla sua compagna dell’epoca sia inspiegabilmente saltata in questa edizione). Gli scrittori tendono ad essere dimenticati molto in fretta; persino quelli di successo; tutto si perde nell’eterno presente dell’editoria, e in maniera ancora maggiore da quando, verso gli anni Duemila, l’essere “giovane” o “esordiente” ha costituito una precisa categoria narratologica, al di là di qualsiasi merito specifico.
Fateci caso: provate a nominare gli autori che negli anni 60-70 andavano per la maggiore: è un cimitero di memorie editoriali, che so da Tomizza a Sgorlon, da Festa Campanile a Saviane, da Pratolini a Pomilio, autori ormai destinati al fuori catalogo, alle bancarelle dei remainders, o, se va molto bene, alle ricerche degli specialisti; e sto parlando solo di scrittori all’epoca premiati da prestigiosi riconoscimenti e talora con ampio successo di critica e vendite. E non è che le cose vadano meglio ad autori anche più vicini a noi nel tempo: dello stesso, epico, Tondelli - se non fosse per certuni studiosi che instancabilmente lo ripropongono (Roberto Carnero, per esempio) - si perderebbe facilmente memoria negli scaffali delle librerie. Insomma, “ripescare”, o, meglio, rimettere in circolazione, uno scrittore come Atzeni è un atto culturalmente alto e coraggioso, dal momento che difficilmente lo sarà dal punto di vista commerciale. Anzi: se proprio devo dirla tutta, è un atto doveroso.
E non certo per la sfortuna che lo ha sottratto alla vita terrena e al futuro di scrittore davvero troppo presto - eroe giovane e bello annegato nelle acque di Carloforte - ma proprio per la sua persistente presenza in un canone, almeno in un certo canone, che ne fa un autore imprescindibile, per quanto di nicchia. E lo dico perché, nella nuova edizione della “Memoria” selleriana, due elementi riportano chiaramente a questa sua essenziale caratteristica che, devo ripetere il termine, è fondativa.
Intanto la fascetta che Fabio Stassi produce per il volume. “Il più creolo dei nostri scrittori”, recita, ed è un programma culturale; e poi una espressione di Marcello Fois che firma una mirabile presentazione del libro (finalmente, lo scrivo di nuovo!, non uno di quei soffietti distratti e generici, del tutto superflui e spesso inflitti all’autore, specie quando defunto; ma un ragionato e appassionato racconto di chi e cosa è stato questo romanzo per una generazione di scrittori e per molti lettori): “Sergio Atzeni, lo scrittore in purezza”, continuando, poi, ad elencare cosa significhi questa espressione per uno che la letteratura la mastica, la capisce, la ama e la fa. E a grandi livelli. Scrittore in purezza: se mai Atzeni ha incarnato quel sintagma è in questo libro.
Dunque: Passavamo sulla terra leggeri.
Il racconto mitico, epico, immaginario, disperatamente desideroso che per capricci del destino fosse davvero coincidente con la realtà, ma, allo stesso tempo, confidente che nel potere della letteratura si celi quella capacità di rendere vera qualunque storia, del tempo passato, remoto, pre-istorico, senza cioè essere messo per iscritto, dei popoli che hanno abitato la Sardegna. Centro e fuoco della narrazione, racconto corale e orale trasmesso per voce da testimoni del tempo e del mito, ultima incarnazione un tale Antonio Setzu, che, in una giornata d’agosto, in un salotto scabro di un paesino qualunque della Sardegna, Morgongiori - scelto probabilmente per la stessa improbabilità del nome (Atzeni era maestro di beffe e di ironie) -, si incarica di ricapitolare una storia che è - evidentemente - più grande di lui e di qualsiasi altro testimone futuro, a tutti i livelli.
Ed è, ora, lo stesso Atzeni, che si incarica di ri-raccontarla, d’ora in poi, a noi tutti, per farcene parte. Evidente che non è materia che interessa solo ai sardi; altrimenti Atzeni non ci si sarebbe nemmeno messo. La partita è delicata, perché si tratta di superare di slancio il folklore o, peggio, il rivendicazionismo della politica attuale più greve, e Fois nota molto opportunamente la questione, e la sottigliezza della stessa, liquidandola in poche, memorabili, frasi. “Per gli scrittori della portata, e della competenza, di Sergio Atzeni è impossibile scrivere per un fine se non quello di rifare il mondo” scrive Fois (e corsivo mio), “reinventarne le leggi fisiche, imporne il proprio marchio. Si scrive per esporre, con autorevolezza, la propria variante con l’intento di farla percepire come unica, come autentica.
In pratica si diventa cantori di un popolo solo a patto che ciò avvenga per acclamazione e alle proprie condizioni. Abitando il potere di condurre una narrazione come un’irrealtà che produce una realtà possibile a cui piace immensamente credere. Il sistema più pratico per ottenere questa credibilità è quello di saper dosare genialmente il vero e il falso: la pignoleria, fino alla pedanteria, dei riferimenti cronologici e topografici versus la disinvoltura con cui si immagina una vicenda dichiarata storica”.
C’è, qui, l’essenza stessa del fare letteratura e del perché farla. E c’è quel “riscatto dell’immaginazione” che tutti gli autori appartenenti a popoli che si sentono sconfitti dalla Storia e dalle storie altrui sanno di dover (sop)portare. Qui c’è la “creolità” di fondo di Atzeni, che aveva tastato con mano cuore e mente di cosa si trattava, traducendo un capolavoro del “genere” come Texaco di Patrick Chamoiseau per Einaudi e diventando “fratello” letterario dello scrittore martinicano. C’è la potenza, soprattutto, della Letteratura (sì, stavolta con la maiuscola) come luogo adatto nel quale costruire un dettato reale (proprio perché non verificabile) che sorvoli pietosamente sui marosi della storia e iscriva al campionato di serie A genti che sono (e lo sanno) di avere giocato per troppo lungo tempo nelle serie minori.
Ma non si tratta di un risarcimento ex-post, sotto mentite spoglie di romanzo, per quanto possa sembrare di esserlo (e valere, in sé, per questo), si tratta di manipolare una materia incandescente e sfuggente (e farlo “alle proprie condizioni”) per incantare con la sovrapposizione corretta delle parole (e, per Atzeni, la letteratura era il luogo non della memoria ma della parola) gli spasmi di un percepito storico (e probabilmente di una realtà) non soddisfacente. Palinodia di narrazioni altrui: questo è il termine giusto per Passavamo sulla terra leggeri.
“Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nubi dominate dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.” La citazione serve tutta, non solo a contestualizzare il titolo, apodittico quanto basta, ma anche a porre i limiti di quella “felicità”: l’estrema bellezza della natura, dipinta in poche, saporose, pennellate e l’immarcescibile presenza nefasta dell’uomo, pronto a rovinare tutto, a uccidere per “motivi irrilevanti”.
Non basta: perché Atzeni giunge a concepire questo libro-mondo al vertice della sua carriera. Ha battuto, con l’aiuto di amici, donne e lavoro, il disincanto dovuta alla dipartita amara dalla terra natìa (deluso dal non aver passato un concorso e con la lucida consapevolezza che “c’è in giro un affollamento di menti e penne più lucide della mia” sia solo un modo beffardo e definitivo per mandare a quel paese l’immondizia morale e pratica che aveva sperimentato nell’isola) e crede, ora più che mai, di poter stabilmente vivere del lavoro editoriale. Passavamo, dovuto all’interesse che verso Atzeni tributa un “funzionario di poeti” come Ernesto Ferrero, che lo arruola per Mondadori, e, dall’altra parte, il sogno linguistico di Bellas mariposas, spedito a Sellerio nell’estate dell’annegamento, nel quale l’urgenza congiunta di narrare il qui e ora (al riparo delle mitologie fanta-archeologiche) ma anche l’uso di una lingua che sempre più in maniera spregiudicata non vira verso il sardo, ma lo ingloba proprio nel tessuto narrativo, come a farsene indispensabile materia, senza il quale trama e ordito non avrebbero più retto.
Consapevole dell’operazione, Atzeni, è dunque pronto a gettare per il vasto mondo questo libro, per i sardi ma non solo per loro, in un’epoca nella quale la lezione di autori come Homi Bhabha che in Nazione e narrazione aveva posto i paletti della letteratura (e dell’essere) in un mondo post-coloniale (e di Atzeni post-coloniale aveva parlato per primo un comparativista attento e lucido come Mauro Pala).
“Scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori”: è una citazione fondamentale che, opportunamente, la più illustre studiosa di Atzeni, Gigliola Sulis, non manca di sottolineare in un pregevole scritto dedicato all’autore reperibile online sul sito leparoleelecose. Perché Atzeni qui dimostra di avere sciolto, una volta per tutte, il nodo di Gordio dell’identità che la storia ci consegna comunque imbastardita, nessuna pretesa di purezza essendo possibile.
E, anche letterariamente, il coacervo di culture addensa qui il suo peso specifico. Ancora Sulis: “Il decennio della maturità letteraria di Atzeni, 1986-1995, corrisponde in Italia alla fase del postmoderno internazionalizzante di Eco, Tabucchi, Del Giudice, Baricco. In tale contesto ben si inseriscono alcuni aspetti sperimentali della sua scrittura, come la preferenza per l’ellissi e per la focalizzazione interna e multipla, le strutture narrative sbilenche, la rete intertestuale che pesca dalla Bibbia e dai classici come dai fumetti o dalle canzoni pop. Altri elementi, però, come la dimensione etica ed etnica del fare letterario, il punto di vista geo/etno-centrato ma aperto alla globalità, la presenza di trimpanus e launeddas insieme ai ritmi di samba, di jazz e di rap, lo ponevano ai margini dei fenomeni letterari mainstream. In realtà lo scrittore, con grande consapevolezza storica e sensibilità al contesto ‘glocale’, giocava d’anticipo sui tempi. Lo dimostra l’appena successivo ritorno alle questioni identitarie in chiave postmoderna, nei tardi anni Novanta, segnato dal ciclone Camilleri, dal fenomeno dei noir a base regionale, inclusa la new wave sarda, o dal recente emergere di scritture di migranti o di italiani di seconda e terza generazione”.
Per tutti questi motivi, ma supremamente per la felicità, questa sì, della narrazione e della scrittura, l’opera (stavolta dico l’opera tutta) di Atzeni ci si staglia come una fondamentale risorsa per esplorare questioni poco note e di scarsa sensibilità per altri autori italiani, ma ben presenti ad altre latitudini, come Rushdie o Kureishi, solo per citare alcuni, insegnano. E, di nuovo molto opportunamente, Marcello Fois, chiude perciò con amarezza e meraviglia e gratitudine (ma con quanta consapevolezza) la sua nota: “Solo le civiltà passive, atterrate, esauste, imitano, scimmiottano, le certezze altrui. Senza capire che questa obbedienza non è nient’altro che il sintomo di un vuoto a cui solo i racconti, i fili della Memoria, possono porre rimedio. Ecco: sottrarci al cinismo diffuso, al paralizzante senso di vuoto, magari anche col coraggio di reinventarci e ri-raccontarci, è il commovente, generoso, obiettivo che Sergio Atzeni si è posto con questo meraviglioso libro”.
Nel dizionario del proto-proto-sardo, la “lingua degli antichi”, che Atzeni appone alla fine del libro, si riserva un’autocitazione che dice tutto: “A-tze: ubriaco come una zodda, poeta ispirato dalla luna”. Per i S’Ard, danzatori delle stelle, non poteva che esserci un solo cantore su questa terra ispirato dall’astro notturno più brillante e misterioso, nostro gemello, a ridare a tutto un posto giusto nel cosmo. Che è quello che sa fare solo la letteratura, a patto di essere ubriachi e di conoscere uomini e cose, destini e parole, e la differenza fra la verità e le storie. Le storie, la pasta di sogno di cui siamo fatti.