Anteprime / "Chernobyl" di Francesco M. Cataluccio
Pubblichiamo in anteprima il primo capitolo di Chernobyl di Francesco M. Cataluccio, in uscita presso l'editore Sellerio il 7 aprile prossimo, qui commentato in esclusiva per doppiozero da Antonella Anedda, Marco Belpoliti, Davide Ferrario e Luca Scarlini.
Il primo capitolo del libro (scarica il pdf)
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Antonella Anedda
La stella nera di Chernobyl comincia dal suo nome: chornyi (nero) e byllia (steli d’erba) e immediatamente si lega a un destino di amarezza. L’erba nera si riferisce all’Artemisia absinthum, ossia la componente principale dell’assenzio, mentre “amaro” viene definito da Erodoto il Nipro, cioè il Dnepr.
A questo luogo che sembra predestinato al dolore Francesco Cataluccio dedica un libro rigoroso come una testimonianza ed emozionante come un film. La voce che racconta è pacata, le immagini che evoca sono veloci. Lo sfondo è vuoto, gli scenari distrutti, la voce fuori campo è sola. Cataluccio non è soltanto autore del libro intitolato Chernobyl ma attore, suo malgrado, di una vicenda che non avrebbe voluto attraversare: nell’aprile del 1986, allo scoppio della centrale nucleare a Chernobyl si trova in Polonia e viene colpito, come tanti, dalle radiazioni.
Da qui la volontà di ricordare andando fisicamente all’origine del male in quello spazio in cui tutto è cominciato. Un viaggio a Chernobyl e nel passato di Chernobyl che sembra conoscere una tregua solo quando, negli anni prima del disastro, i suoi cittadini sembravano, rispetto al resto dei russi, dei privilegiati, con macchina personale, belle case, stipendi più alti della media. Una trappola, la definisce Cataluccio: “pochissimi erano al corrente di quello che rischiavano”.
Chernobyl è un libro di storia nel senso esatto del termine, come suggerisce il nome di Erodoto, nume tutelare di ogni pagina, ma è anche un testo contaminato da generi diversi: confessione, meditazione, reportage, ed esposto a venti diversi che si chiamano Dostoevskij e David Grossmann, Rimskij-Korsakov e Babel, Tarkovskij e il polacco-napoletano Gustaw Herling. Una contaminazione retroattiva che risale il tempo fino agli anni di università e del servizio militare per depositarsi su nostre Chernobyl, come Seveso, nel cui dossier segreto il giovane soldato Cataluccio si imbatte. Quasi un preludio dell’incontro con la nube tossica e il viaggio nella Zona.
Cataluccio descrive il mondo di Chernobyl prima di Chernobyl, il suo rapporto è un registro di colpe e violenze accatastate sul dorso della storia. Le vittime si infittiscono, a partire dal XVIII secolo e sono soprattutto ebrei, stretti tra l’ambigua alleanza polacca e i pogrom dei cosacchi, poi falcidiati dall’armata bianca e trucidati dai rossi. Ancora una volta l’assenzio inscritto nel nome del luogo sembra legarsi al destino ebraico. Cataluccio cita le parole di Geremia rivolte agli ebrei che avevano abbandonato la Legge: “Ecco, io darò loro assenzio da mangiare e acque avvelenate da bere, e li disperderò in mezzo a genti che non avevano conosciuto né essi né i loro padri…” e conclude: “agli incolpevoli ebrei ucraini accadde proprio questo”. L’elenco degli orrori continua. È la volta dei contadini. Tra il 1929 e il 1933 le ragioni politiche dello stalinismo pianificano la morte per fame di circa sette milioni di persone. La strage ha un nome: “Holodomor” e deriva dall’espressione ucraina moryty holodom: “infliggere la morte attraversola fame”. I pochi sopravvissuti furono testimoni di eventi di cannibalismo spesso nei confronti di bambini. Meno di dieci anni e l’Ucraina diventa una delle terre più tristemente famose delle esecuzioni di massa da parte dei nazisti mentre nel dopoguerra si moltiplicano i trasferimenti coatti delle famiglie polacche (tra queste quella di Adam Zagajewski che dedica a Leopoli una delle sue più belle poesie).
Chi legge prova una vertigine, un senso di nausea che sembra potersi solo tradurre in immagini di resti, di ostaggi, di rovina. Il libro di Cataluccio è un’immensa tela di Kiefer, un paesaggio ustionato dominato da un olio nero, privo di orizzonte.
Oggi Chernobyl viene chiamato il “Regno del Plutonio”, ovviamente per il metallo, tragicamente familiare in questi giorni, legato a Plutone, il pianeta delle tenebre, il regno di Ade per i greci, gli Inferi per i romani. I dintorni si chiamano “Ghost Town” o “Land of the Wolves”. Nomi esatti per luoghi sconnessi e abbandonati, con i palazzi invasi dalle piante, i lupi che attraversano le strade, la ruota del Luna Park immobile.
Eppure in questa tragedia c’è uno spiraglio ed è lo stoicismo venato di ironia con cui Cataluccio racconta la propria vita contaminata: senza mai commiserarsi e usando gli anticorpi dell’alcool e dello humour, naturalmente nerissimo. Ricorda che al momento dell’esplosione la casa in cui viveva aveva un giardino di meli. Apparentemente un idillio. In realtà una fiaba, cattiva come tutte le fiabe. Non manca nulla: le mele avvelenate e la strega Baba-Jaga a cavallo di una nuvola.
Marco Belpoliti
Esce in un momento tragicamente attuale il libro di Francesco M. Cataluccio, Chernobyl, con la nube giapponese che passa sulle nostre teste e il nocciolo del reattore di Fukishima che sembra stia per fondersi, dopo che la centrale nipponica ha contaminato per sempre persone, acque, terreni, aria. Si tratta di un racconto, ma anche di un diario di viaggio, di un’autobiografia e di un compendio rapido e impressionante di storia e di letteratura europea degli ultimi tre secoli. Racconta le vicende di questo luogo dell’Ucraina che, ben prima di essere stato il buco nero della catastrofe nucleare del XX secolo, era ed è un crocevia della storia del Vecchio Continente. L’inizio, con la cartina dell’antica Ucraina, e il misterioso personaggio che la maneggia, è folgorante, come la storia del servizio militare dell’autore, capitolo tragicomico, divagazione essenziale sulla strada che ci porta, o ci riporta, a Chernobyl. La musa di Cataluccio è senza dubbio Mnemosine, una memoria in cui ciò che è personale trapassa nella storia collettiva, e ciò che è collettivo s’invera nella singolarità della vita individuale. Il racconto va e viene di continuo dalle storie del narratore alle storie dell’Ucraina, dell’Urss, della Polonia, del popolo ebraico e del nostro stesso paese, in un pendolo che ha il suo culmine nel congedo finale con disegni allegorici, parole chiave, sincronie inquietanti. Invece di recare come titolo il nome del luogo del disastro, l’affabulante racconto di Cataluccio potrebbe benissimo intitolarsi: “Come sono diventato radioattivo”. Il protagonista del libro dello scrittore fiorentino è infatti lui stesso, un io multiforme, metamorfico, sottile, giocoso, e insieme tragico, che nasconde sotto una scorza di bonomia del raccontare stesso un’angoscia profonda che l’autore sublima attraverso le sue invenzioni narrative. Si può dire che Cataluccio reinventi a suo modo un genere narrativo molto italiano, fatto di mescolanza di racconto e di saggio, che ha avuto in Ripellino e Magris i suoi autori più celebrati. Da perfetto storyteller del contemporaneo, ci conduce passo a passo nel cuore di tenebra della storia del XX secolo, tra guerre, distruzioni, massacri, rovine, ma anche salvezze inattese, ponendoci una domanda radicale sul Male che ha marchiato il Novecento, un male che l’ha segnato nel corpo, ci dice, e a cui ora risponde con le sue storie leggere e aeree, come un abitante ideale delle “botteghe color cannella”.
Davide Ferrario
La lettura di Chernobyl di Francesco Cataluccio mi ha ricordato la scena di un mio film, Dopo mezzanotte: quella in cui lo svagato personaggio interpretato da Giorgio Pasotti esprime, a partire dallo strano fenomeno dei “numeri di Fibonacci”, la sua fede, forse la sua consolazione, che “In qualche modo il mondo un senso ce l’ha”.
Certo non si tratta di un senso dispiegato come una realtà rivelata, dove tutto è apocalitticamente chiaro. Piuttosto di un intreccio di rimandi, un rincorrersi di echi, un passare e ripassare dallo stesso punto venendo da itinerari diversi. Appunto come questo libro, che ha apparentemente un tema dichiarato nel titolo, ma che in realtà si addentra per piste sotterranee, connettendo la catastrofe di Chernobyl, la mistica ebraica, la letteratura russa, il servizio militare di Cataluccio e, non da ultimo, i Pink Floyd.
E anche, permettete l’immodestia, il sottoscritto: nel suo avatar di visitatore di quel luogo, nel 2004 e nel 2005, e nella testimonianza che ne ha reso insieme a Marco Belpoliti in La strada di Levi. Questo – e il magro tentativo di studiare russo all’università – mi rendono Chernobyl privatamente caro. Ma il libro è affascinante di per sé, come una lunga elucubrazione romanzesca ed erudita tra un minus (la biografia dell’autore) e un maximus (la serie di eventi catastrofici che hanno contrassegnato l’Ucraina del Novecento).
Ne viene fuori un senso di impotenza e rassegnazione ma insieme di rivincita dell’Uomo nei confronti della Storia. Spesso gli eventi semplicemente accadono e non si possono fermare: ma gli uomini possono intenderne un arcano senso, fatto di eterni ritorni, più profondo del “fatto in sé”.
Tanto più vero oggi, giorno in cui la nube radioattiva fuoriuscita da Fukushima sta sorvolando l’Italia.
Controprova che tutto passa, ma anche che tutto torna.
Luca Scarlini
Nella bella mostra in corso al Palazzo Reale su Giuseppe Arcimboldo, mago delle saturnine meraviglie manieriste, gradite all’imperatore-occultista Rodolfo II, si trova un meraviglioso manufatto che si intitola Uomo cartaceo, conservato nel Gabinetto dei Disegni di Palazzo Rosso, a Genova. Un autoritratto inciso nelle pieghe di un foglio, che disegnano per maestria di incantamento i lineamenti segnati del vecchio maestro, che tornava alla sua Milano, dopo aver vissuto a lungo nel Castello kafkiano di Praga, dove il monarca melanconico cercava disperatamente di bloccare il tempo, facendo invano congiungere mercurio e zolfo, perché in mistico matrimonio producessero l’oro. Non per caso a questa figura è dedicato un capitolo fondamentale di Praga magica di Angelo Maria Ripellino (1973), inventario di fantasmi della cultura, compiuto subito dopo sommovimenti storici, che in quelli trovavano infine un profondo rispecchiamento. Di fronte alle tragedie gli scrittori reagiscono appunto da uomini cartacei: cercano nel passato delle loro letture, incise nelle pieghe della memoria, parole e immagini che riescano ad assorbire il colpo, a smussare le punte aspre dell’ennesimo disastro che l’uomo infligge a se stesso. Francesco Cataluccio raggiunge le librerie con il suo Chernobyl, nel momento in cui lo spauracchio ucraino è ormai superato da quello di Fukushima, quando ormai uno dei miti residui della certezza moderna, la iperorganizzazione nipponica, è stato spazzato via dal mare-mostro, nera presenza dell’immaginazione e della realtà. L’itinerario dello scrittore è, per sua stessa ammissione, divagante, come a non voler affrontare in prima istanza i demoni, arrivando a loro per gradi. Si parte da una mappa da regalare a un’amica polacca, che rifiuta in modo offeso una carta della Russia, si passa alla storia di una regione tormentata che spesso ha cambiato di padrone. Infine il viaggio verso il luogo del disastro, a bordo di un pulmino dotato del simbolo della radioattività. Nel gran fiume Dnepr pesci abnormi mangiano un filone di pane lanciato da un ponte, i visitatori cominciano ad avere paura di mangiare, che il cibo loro offerto in un bistrò, per i colori troppo accesi, sia contaminato. In questo libro il compito del narratore è felicemente compiuto: la cronaca e la biblioteca si congiungono e i pezzi del puzzle che vanno al loro posto compongono un ritratto di paesaggio con rovine, nate da negligenza e criminosa intenzione, all’alba di una nuova catastrofe, che già viene esorcizzata in Giappone sotto forma di manga, per cercare un utile filtro alla visione del mostro, che dal fondo occhieggia e fa furore.
(Fotografie di Francesco M. Cataluccio)