Speciale
Retaggi coloniali, migrazioni transnazionali, legami familiari e politiche diasporiche / Asmarina: eredità postcoloniali
Realizzato nel 2015 da Alan Maglio e Medhin Paolos, Asmarina è uno splendido documentario che si propone di tracciare “voci e volti di un’eredità postcoloniale”. Accompagnato da una colonna sonora d’eccezione, il film racconta la storia della comunità habesha di Milano, insediatasi nel quartiere di Porta Venezia sin dalla metà del Novecento.
Intrecciando esperienze ed identità di coloro che vivono in Italia da generazioni e dei rifugiati giunti di recente nel Paese, Asmarina ricostruisce la complessa rete di retaggi coloniali, migrazioni transnazionali, legami familiari e politiche diasporiche. E attraverso queste storie, che possono essere comprese solo a partire da un’ampia prospettiva trans-storica, ci invita a riconsiderare seriamente cosa intendiamo quando parliamo di “Italia” e di “italiani”.
Fotografia della diaspora
Asmarina inizia con un montaggio di fotografie: una lente di ingrandimento che scorre lentamente sulle diapositive sparse su un tavolino; una vecchia foto in bianco e nero; un album di famiglia consumato; le pagine del reportage fotografico Stranieri a Milano, realizzato nel 1983. Le foto sono disposte su un tavolo, escono da una stampante o appaiono sullo schermo luminoso di uno smartphone. Ad aprire il documentario, una memorabile frase di Walter Benjamin: “Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla Terra”. Se Benjamin, da un lato, poneva le basi per una prospettiva multigenerazionale, dall’altro, queste fotografie si discostano dalla sua concezione pessimistica dell’arte nell’era della riproducibilità tecnica.
Le suggestive foto di Asmarina non sono delle mere riproduzioni avulse dai rituali quotidiani dell’esperienza sensibile. Né sono sottoposte al famigerato “effetto Ken Burns”, ovvero lo zoom o il movimento panoramico effettuato all’interno di un’immagine fissa, utilizzato nel cinema americano per celebrare i grandi eroi e le loro grandi guerre, secondo una tradizione documentaristica autoritaria e maschilista.
Nel documentario di Maglio e Paolos, le foto costituiscono una pratica collettiva che forma le relazioni sociali ed è fortemente radicata al loro interno. Le immagini – fotografie di famiglia, reportage fotografici o semplici istantanee – sono la materia attraverso cui vengono tracciate affinità e connessioni tra persone, luoghi e tempi. Esse consentono la trasmissione di storie e saperi incorporati. (In una memorabile scena, un bambino chiede ripetutamente alla madre e alla nonna chi siano i parenti ritratti in una serie di foto; in un amorevole gesto di esasperazione, la madre risponde: “Son’ tutti zii, amore!”). Le foto, dunque, sono un archivio tramite il quale è possibile stabilire e rievocare connessioni diasporiche.
In un saggio del 2009 pubblicato sulla rivista Social Text, Tina Campt, storica e studiosa della diaspora africana nonché autrice di numerose pubblicazioni sulle esperienze dei “Black Germans”, afferma che “le foto e i ritratti di famiglia costituiscono un complesso luogo di formazione della diaspora nera in Europa”:
La diaspora africana è una formazione immaginaria e affascinante attraverso cui i neri danno forma alle loro diverse storie e culture. Eppure, le vicissitudini contemporanee legate alle relazioni transnazionali della comunità nera spesso non facilitano la piena comprensione della nostra “visione” della razza nella diaspora – e, in particolare, dell’identità diasporica nera – né aiutano a far luce sui significati impliciti che attribuiamo ai concetti di adesione e appartenenza. Vedere se stessi – o, per dirla con le eleganti parole di Deborah Willis, “raffigurarsi” – è una pratica necessariamente
estraniante che riflette le dinamiche fondamentali e costitutive della diaspora stessa.
La diaspora non è un assunto stabilito una volta per tutte, ci ricorda Campt: è un concetto perennemente in costruzione. In questo senso, il tema fondamentale di Asmarina è come si forma, come sopravvive e come cresce, attraverso più generazioni, una comunità diasporica nera in un contesto in cui le logiche di esclusione della Fortezza Europa vorrebbero indurci a negare la sua stessa esistenza. Tutto ciò è di fondamentale importanza in un momento in cui in Europa l’identità nera è diventata sinonimo di morte: sia da parte degli attivisti di sinistra, che invocano le immagini dei rifugiati neri che affogano nel Mediterraneo, sia da parte degli xenofobi di destra, secondo cui l’“invasione” dei neri segna la morte di una purezza della razza europea che in realtà non è mai esistita. Queste foto di famiglia, la loro circolazione e l’affetto con cui vengono custodite dai membri della comunità eritrea di Milano rappresentano un atto quotidiano di forza, sopravvivenza e resistenza.
Cartografie spaziotemporali …
Asmarina non segue uno sviluppo lineare. Si potrebbe iniziare la storia, come fa Franco De’ Molinari nel film, con l’acquisizione di Assab nel 1869 e procedere con il racconto del progressivo controllo del Corno d’Africa da parte dell’Italia, una reazione a catena che culmina con l’attuale crisi dei rifugiati nel Mediterraneo. Il film non nega queste connessioni: la sua idea di fondo, infatti, è la necessità di stabilire un legame tra passato e presente, di connettere una storia che rimane in gran parte sconosciuta con una realtà contemporanea che non apparirebbe così sorprendente se la riconducessimo alla brutale realtà del colonialismo italiano. Aprendo con le immagini delle foto di famiglia e spostandosi avanti e indietro nel tempo, attraverso lo spazio della memoria, Asmarina suggerisce che il passato è innanzi tutto uno strumento. Un’arma potente e potenzialmente trasgressiva che possiamo acquisire unicamente dalla posizione privilegiata del nostro presente. O, come scrive l’antropologo haitiano Michel-Rolph Trouillot in Silencing the Past: “Il passato non esiste indipendentemente dal presente… Il passato è una posizione”.
Vista la centralità delle immagini fotografiche in Asmarina, la ripetuta presenza delle mappe nel documentario potrebbe passare inosservata. Vi è una veduta aerea di Asmara sul vassoio di un ristorante eritreo a Porta Venezia, un atlante del Corno d’Africa e un assortimento di vecchie mappe coloniali color seppia. Ma vi sono anche le mappe del vissuto, controgeografie diasporiche di Milano che rivelano ciò che Doreen Massey, geografa femminista recentemente scomparsa, ha definito un “senso del luogo estroverso”, o che la geografa Heather Merrill, scrivendo delle condizioni di vita dei neri italiani, chiama “luogo relazionale”. Troppo spesso, i documentari si propongono di “far luce sul mondo nascosto dell’immigrazione in Italia”, come se i migranti e i loro figli non fossero già quotidianamente ipervisibili a causa della politica, dei sistemi di sorveglianza, di quelle che Fanon definisce relazioni di epidermizzazione e delle conseguenti ondate di “panico morale”. Questo genere di approccio documentaristico ha, come effetto, quello di circoscrivere l’identità nera come qualcosa di estraneo all’Italia (si pensi alla categoria extracomunitario, come sottolinea una donna nel documentario), un’oscura contaminazione da portare alla luce del giorno e debellare.
Asmarina non si propone di “far luce”. E non è neanche un documentario sull’immigrazione. Maglio e Paolos sovvertono i canoni temporali e geografici della migrazione attraverso la storia di Erminia Dell’Oro, scrittrice eritrea di origini italiane, descritta ironicamente come un esempio di seconda generazione al contrario. Come ha sottolineato Paolos durante una proiezione del film tenutasi lo scorso marzo al Teatro Palladio di Roma, questa non è soltanto una storia che riguarda etiopi ed eritrei: è una storia che riguarda Milano. E ciò è evidente sin da subito dal modo in cui la macchina da presa indugia amorevolmente sulle foto di Porta Venezia al tramonto o sulle misteriose cavità della metropolitana. Asmarina non è un film sulla “Milano nascosta”, ma su Milano. Su Bologna. Sull’Italia.
…e geografie interconnesse
“Probabilmente senza di noi l’Italia non sarebbe quella che è oggi, e noi non saremmo quello che siamo noi alla fine, no?”
Elena sintetizza in una frase un dato semplice ma importante: Italia ed Eritrea sono l’una il prodotto dell’altra. Tuttavia, continua la donna, si tratta di uno scambio profondamente squilibrato, non di qualcosa da esaltare. I legami tra Italia ed Eritrea, seppure profondi e stratificati, non riflettono l’immagine conviviale di un innocente amore interrazziale, fatto di azioni generose volte a promuovere l’educazione e a costruire relazioni (sebbene gli italiani continuino a considerare la storia coloniale del Paese come un’esperienza benevola e perfino caritatevole). Italia ed Eritrea sono legate da una relazione di potere, frutto di un retaggio coloniale all’interno del quale la mobilità non è un diritto equamente riconosciuto: gli italiani in Eritrea che parlano il tigrino sono infatti pienamente accettati come eritrei, osserva Elena, ma gli eritrei in Italia sono visti tuttora come stranieri, anche se risiedono nel Paese da generazioni e parlano l’italiano esattamente come i loro concittadini bianchi.
Tuttavia, anche nella realtà della diaspora in Italia, gli eritrei hanno costruito la loro nazione. Il Festival eritreo di Bologna, documentato da Asmarina, è stato un elemento fondamentale nella lotta di liberazione che ha chiamato a raccolta gli eritrei della diaspora provenienti non solo dall’Italia, ma anche dall’Europa e dal resto del mondo. Del resto, come osserva l’antropologa Victoria Bernal, all’epoca dell’indipendenza eritrea, un eritreo su tre (all’incirca un milione di persone) viveva in realtà fuori dal Paese, per cui l’Eritrea è sempre stata una nazione costituita da un “network” di relazioni extraterritoriali. Questo forte legame tra Italia ed Eritrea, frutto delle relazioni tra i due Paesi, mette in discussione l’idea della nazione come spazio confinato o entità ermeticamente sigillata: un’idea dalle conseguenze fatali nella realtà contemporanea.
L’attuale scenario postcoloniale
I protagonisti di Asmarina sottolineano più volte l’assenza di un confronto aperto sul colonialismo italiano, nonostante l’uso aggressivo di armi chimiche e di sistemi di segregazione razziale come l’apartheid. È solo da una quindicina d’anni che gli studiosi hanno iniziato a dedicarsi in maniera rigorosa, e con approccio critico, ai trascorsi coloniali dell’Italia (sebbene manchi ancora una consapevolezza pubblica su questo tema). Ciò è dovuto alle nuove possibilità di accesso agli archivi coloniali e alla trasformazione dell’Italia, dalla fine del XX secolo, in una meta di flussi migratori postcoloniali provenienti dal continente africano: una circostanza che ha imposto la necessità di confrontarsi seriamente con le conseguenze dirette e indirette del colonialismo. Tuttavia, com’è possibile comprendere questa storia coloniale come qualcosa di diverso da una mera astrazione? La risposta arriva da Asmarina: attraverso l’esperienza vissuta, i corpi, la memoria.
Un altro suggerimento giunge da un luogo inaspettato: il Salone del Mobile di Milano del 2016, attraverso l’installazione-performance interattiva “Treaties and Gifts of Shifting Wills”. Durante la settimana del festival del design, l’artista e attivista olandese-caraibico Quinsy Gario (noto per le sue iniziative di protesta contro il personaggio di Zwarte Piet e suo fratello, il musicista e poeta Jörgen Gario, hanno allestito una serie di brevi performance, molto forti dal punto di vista emotivo, sul Trattato di Uccialli: un documento siglato nel 1889 tra l’Abissinia e l’Italia, che portò alla prima guerra italo-etiope, con la sconfitta dell’Italia ad Adua (prima vittoria anti-imperialista africana) e la nuova invasione guidata da Mussolini nel 1935.
Per sei giorni, nello spazio abbandonato di un loft modernista in Via Ventura, appartenuto a un architetto deceduto, i fratelli Gario hanno lentamente costruito un monumento dedicato alla violenza del colonialismo italiano. Dopo una solenne lettura del trattato da parte di Quinsy, con l’accompagnamento musicale di Jörgen al sintetizzatore, i due fratelli hanno iniziato ad adagiare strisce di nastro adesivo bianco sull’erba e ad attaccare cordicelle di spago agli olivi. Agli occhi dello spettatore, ciò è apparso immediatamente come una rievocazione della proliferazione di muri, confini e steccati in tutto il mondo. Come fa anche Asli Haddas in Asmarina, Quinsy sottolinea che l’Italia ha avviato una politica di apartheid molto prima del Sudafrica. Effettivamente, l’Italia ha partecipato insieme al resto d’Europa alla corsa alle conquiste imperiali ed è stata quindi complice nella creazione di un sistema coloniale basato sulla segregazione razziale, che ha reso possibile la costruzione della Fortezza Europa e il consolidarsi di un “noi” necessariamente contrapposto a un “loro”. Attraverso la performance di Quinsy e Jörgen, ogni striscia sull’erba e filo sugli alberi si trasforma in un archivio vivente, e sempre più ampio, di lutto, dolore, rabbia e legittima indignazione. Ma proprio come per la comunità eritrea di Asmarina, per la quale i ricordi sono un modo per guardare al passato e immaginare un futuro diverso, questi archivi sono un simbolo di lotta e di speranza. O, per dirla con le parole di Quinsy, sullo sfondo del canto appassionato del fratello: “Mi schiererò con un ‘noi’ che crede che questo ‘noi’ sia necessario al futuro”.
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