L'inafferrabile Brouwers

28 Maggio 2024

Tra i libri di Zygmunt Bauman, non è certo quello che viene citato più spesso e volentieri. Perché La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti (ed. or. 1988, trad. it. 1992, Bollati Boringhieri) riserva uno sguardo al mondo della cultura netto e impietoso. Per il filosofo e sociologo che ha teorizzato il concetto di società liquida, nato a Poznan in Polonia nel 1925 e morto a Leeds nel 2017, infatti il ruolo degli intellettuali è precipitato nell’età moderna dal livello alto di legislatori sociali e irriducibili critici del Potere a quello di semplici oratores. Comodi cantori, insomma, dell’ordine dominante.

Di certo, Jeroen Brouwers non faceva parte di questa schiera di acquiescenti servi dello status quo. Lo dimostra un episodio che vide protagonista lo scrittore di Maastricht, morto nel 2022, circondandolo subito di chiacchiere, commenti favorevoli e maligni pettegolezzi. Era il 2007 quando la giuria del Prijs der Nederlandse Letteren decise di assegnargli il prestigioso riconoscimento non solo per il suo libro Bezonken rood, ma per l’intero complesso della sua opera letteraria. Che contava già decine di volumi di narrativa, poesia e saggistica.

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Il Dutch Literature Prize, questa la sua dicitura internazionale, prevedeva che all’autore venisse consegnato un assegno di 16mila euro. Ma a Brouwers la cifra offerta sembrava poco più di un’elemosina. Perché lo scrittore nato a Giacarta da genitori che si erano trasferiti nelle Indie olandesi in cerca di fortuna (internato, in seguito, con la famiglia nel campo di Tjideng dopo l’invasione giapponese dell’Indonesia e stabilitosi molto più tardi nei Paesi Bassi), non era un intellettualino felice di entrare nel Gotha della letteratura. Per incassare un po’ di denaro che gli permettesse di vivere in maniera più agiata. No, lui era ormai un punto di riferimento per tutti quelli che credevano ancora nel valore alto dei romanzi, della poesia. Dell’arte in generale.

Brouwers si era imposto all’attenzione dei critici e dei lettori come il funambolo della parola. Lo scrittore colto e raffinato, lo sperimentatore instancabile, il bastian contrario che aveva debuttato nel lontano 1964 con Het mes op de keel (The knife to the throat). E che negli anni Novanta aveva collezionato il Constantijn Huygens Prize e il Femina per la sua opera. Più tardi, nel 2021, sarebbe arrivato pure il Libris Prize.

Poteva forse accontentarsi, adesso, di un assegno di 16mila euro come riconoscimento per un viaggio letterario lungo oltre quarant’anni e contrappuntato da libri arditi, originalissimi e belli?

Infatti, da Jeroen Brouwers arrivò un secco “no”. Un gran rifiuto che sarebbe piaciuto molto a Thomas Bernhard e a tutti quegli scrittori irregolari, difficili da etichettare e da incasellare che, nel cuore della modernità, non si sono mai rassegnati a essere meri cantores dell’ordine dominante. Che non si sono piegati, insomma, alle regole del quieto vivere e all’ignava accettazione dello status quo, imposta alla società liquida con quella massiccia, strisciante e inflessibile precisione che così bene aveva descritto Pier Paolo Pasolini, quando parlava del nuovo fascismo incarnato dal consumismo, dallo sfrenato edonismo, dallo strapotere subdolo della televisione.

Per accompagnare in maniera forte e significativa il suo gran rifiuto, Brouwers cominciò a lavorare a un nuovo libro. Un’opera che soltanto i critici e i lettori mentalmente più liberi sarebbero riusciti ad apprezzare veramente. Un romanzo capace di sfondare gli orizzonti del narrare. Un vero atto di sabotaggio nei confronti della prosa letteraria. Che riuscisse, insomma, a mettersi in sintonia con i più arditi esercizi di prestidigitazione linguistica sperimentati da James Joyce nel suo capolavoro impossibile Finnegans Wake. Ma che avrebbe richiamato alla memoria anche un surrealista recalcitrante, uno spirito totalmente libero come il francese Raymond Roussel, morto in maniera misteriosa nel 1933 durante un soggiorno al Grand Hotel et des Palmes di Palermo. Il giocoliere della moderna letteratura, che nei suoi perturbanti testi Locus Solus e Impressioni d’Africa, ma anche nelle pièce teatrali, aveva osato abbinare parole apparentemente lontanissime tra loro, in un riflettersi di specchi linguistici, per creare testi sorprendenti e spiazzanti, di cui avrebbe svelato il segreto nel saggio Come ho scritto alcuni miei libri. Tanto da meritarsi l’appellativo di “più grande magnetizzatore dei tempi moderni”.

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Avviandosi a scrivere quello che sarebbe stato l’ultimo romanzo, pubblicato meno di un anno prima della sua morte, avvenuta l’11 maggio del 2022, Brouwers aveva deciso di fare i conti con la vita e con la letteratura. Portando al centro dei giorni del protagonista, il Cliente Busken, i temi che da sempre avevano tracciato la traiettoria del suo percorso letterario: il complesso rapporto con la realtà e con la società, la solitudine, l’amore, la malattia, la vecchiaia e la morte. 

Il lungo viaggio del nuovo romanzo avrebbe dovuto accompagnare, insomma, i lettori ad attraversare i giorni finali di un uomo che non ha più niente da aspettarsi dalla sua esistenza. Inventando sulla carta un pirotecnico alternarsi di ricordi e riflessioni, di eretiche considerazioni e sberleffi in faccia al mondo, di pensieri fuori rotta e urticanti parodie del contesto sociale. E affiancando alla struttura narrativa una lingua del tutto personale, fatta di neologismi e parole create associando concetti spesso in conflitto tra loro, costellata di asindeti, anacoluti, allitterazioni, suoni onomatopeici.

Tradurre un libro del genere non è stato affatto facile. Tanto che gli ammirevoli Claudia Di Palermo e Francesco Panzeri, che hanno dedicato tutta la loro bravura alla versione italiana del Cliente Busken (Iperborea, pagg. 255, euro 18), potrebbero essere tranquillamente considerati alla stregua di co-autori di questo sorprendente romanzo. Perché, rendendolo fruibile in una lingua del tutto diversa dal neerlandese, hanno dovuto mettere in campo tutta la loro maestria e creatività per ridare forma a un’opera costellata da serie di parole inesistenti.

Il Cliente Busken è un personaggio inafferrabile. Misantropo, mitomane, dipendente da alcol e sigarette, si trova ricoverato a Villa Madeleine, una casa di cura che assomiglia molto a un “lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. E nel ripercorrere i giorni della propria vita, in un arruffato, magmatico e spesso delirante viaggio a ritroso nel tempo, finisce per inventarsi una serie di esistenze parallele, che, viene il dubbio, abbia potuto percorrere soltanto aggrappandosi alla più sfrenata immaginazione. 

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Di volta in volta, Busken afferma di essere stato ingegnere robotico, di poter vantare tre dottorati in erudizione scientifica, di aver elaborato sofisticati pensieri filosofici e aver collezionato importanti premi artistici come colorista, di essere stato definito la reincarnazione di Goethe. Ma non basta, nel suo curriculum professionale si possono annoverare competenze come neurochirurgo, sommo poeta che redige i suoi trattati in un codice segreto su vecchi rotoli di carta da fax. Anche se i medici lo ritengono un semplice impiegato affetto da demenza.

E allora? Busken si aggrappa al più raffinato atto sovversivo che può mettere in campo: il silenzio. Smette di parlare, stacca il collegamento con il mondo, snobba tutti quelli che cercano di rianimarlo, di coinvolgerlo in un dialogo, di farlo partecipare a quello che accade attorno. Lui non concede udienza. Anche perché preferisce riversare nel proprio spazio segreto il fiume di parole con cui vorrebbe inondare la realtà.

Non sono parole qualsiasi, quelle che il protagonista affastella nel suo flusso di coscienza inascoltabile. Non fabbrica spezzoni di discorso banali e prevedibili. No, Busken sovrappone i piani del ricordo e dell’osservazione della realtà che lo circonda inventando un linguaggio originale, inedito ed eretico. 

Così, il computer diventa il “melaschermo”, la pratica medica con cui lo curano viene ribattezzata la “psichica scienza”; una delle infermiere è etichettata come “cuffiadabagno”; l’asciugamano serve da “copripudende” per coprire “il membro sardina”; le mani del medico di famiglia vengono descritte come “palpatoccatasta”; le proibizioni inflitte a Busken diventano “disintosacura”.

Dietro il suo silenzio abitato da un mondo scoppiettante di parole impossibili da irregimentate in un discorso normale, Busken osserva la realtà che sta attorno a lui con sguardo beffardo, ironia nerissima e straordinaria lucidità. Trasforma il microcosmo claustrofobico della clinica in un’impietosa parodia del mondo contemporaneo. Affronta con dolorosa e implacabile precisione il ricordo di un’infanzia tutto meno che felice, trascorsa accanto a una madre che non l’ha mai amato. 

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 Jeroen Brouwers, ph Michiel Hendryckx.

“Ceffoni a ripetizione – racconta Busken, in un doloroso flusso di coscienza in cui la sua voce si sovrappone a quella della madre –, sono troppo stupido per tutto, avrei dovuto essere una bambina invece di uno sgorbio del genere, per di più cretino, in realtà non voleva avere proprio figli, io sono nato per sbaglio, ma tuo padre ha insistito per tenerti, altrimenti ti avrei affogato subito”.

Ossessionato dal fumo, come Zeno Cosini nella Coscienza di Italo Svevo, il Cliente fino agli ultimi istanti di vita si aggrapperà al desiderio dell’ultima sigaretta. Estremo atto di ribellione alle regole, che gli verrà negato da una improvvida, grossa goccia di pioggia capace di spegnere la brace e impedirgli di godersi le boccate finali. Un po’ come accadde allo scrittore triestino: sul letto di morte in ospedale a Motta di Livenza, dopo un banale incidente automobilistico, Ettore Schmitz provò a chiedere per davvero “l’ultima sigaretta” al nipote medico, accorso da Trieste al suo capezzale. Ma se la vedrà negare, come se quella piccola soddisfazione, indubbiamente irrispettosa nei confronti del protocollo medico, potesse restituirgli la salute, a poche ore dalla morte. Avvenuta il 13 settembre del 1923, non prima di permettergli di sussurrare, nell’amato dialetto triestino, l’ultima, irridente lezione impartita alla figlia: “No pianzer Letizia, non xe niente morir”. Visto che, per lui, era stato assai più difficile imparare a vivere.

Anche per Busken, il confronto con la Morte è un rumore di sottofondo continuo nel romanzo di Brouwers. Perché lo scrittore olandese affida il ruolo della Nera Signora a un’anonima, buffa, invadente e naïf ospite di Villa Madeleine: la signora Kalckbrander. Una presenza costante al fianco del Cliente, che lo affianca con tutta la sua appiccicosa dolcezza. Che lo traghetta verso l’appuntamento finale senza mai smettere di essere al suo fianco. Che gli chiede di farle posto accanto a lui, nel letto di infermo, per superare insieme la notte, riscaldandosi a vicenda ed esorcizzando le nere ombre che accompagnano i sonni agitati dei vecchi.

Capace di riportare alla memoria il Libro contro la Morte di Elias Canetti, ma anche il magmatico e liberissimo flusso di coscienza joyciano, la dolce malinconia di un’ingombrante memoria come quella della Recherche di Proust beffardamente cristallizzata nel nome della squallida Villa Madeleine, Il cliente Busken è l’estremo atto di ribellione a quell’accomodarsi degli intellettuali contemporanei nel ruolo di semplici oratores. Una sfida alla vita costruita come fosse la più ardita piramide fatta di parole. Un corteggiamento alla morte riempito da tutta l’allegria di naufraghi che può accompagnare chi sta per concludere il proprio cammino terreno. Un impasto perfetto di poesia e provocazione, di lucida follia e resa dei conti con un’intera stagione culturale.

Il Cliente Busken è un gioiello capace di emanare riflessi di luce buia. Come se il romanzo di Brouwers uscisse dritto dal mistero profondo di un buco nero piantato al centro della nostra contraddittoria contemporaneità.

In copertina, Jeroen Brouwers, ph Michiel Hendryckx.

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