Thilliez seminatore di incertezze
I prestigiatori la chiamano misdirection. È la tecnica che punta a dare corpo a un’illusione potente: che stia accadendo, cioè, qualcosa di paranormale. In pratica, il mago deve riuscire a distrarre il pubblico, sviando la sua attenzione, con un gioco di mani rapidissimo. Il trucco entra in scena proprio lì: nel momento esatto in cui, eseguendo il gesto risolutore del suo numero, riuscirà a renderlo invisibile agli occhi di chi guarda.
Da sempre, è la misdirection che ha contribuito a alimentare i falsi miti legati alla magia, alla parapsicologia, allo spiritismo. A quelle arti oscure, insomma, che messe alle strette, osservate da vicino con metodo scientifico, hanno finito per rivelare i loro miserevoli trucchi. Legati, quasi sempre, alla capacità di distrarre l’attenzione di chi guarda. Perché per l’uomo è impossibile ricevere, tradurre e razionalizzare la montagna di stimoli visivi e percettivi che continuano a bombardarlo in ogni minima frazione di tempo. Qualcosa sfugge sempre.
Fin dai suoi primi romanzi, Franck Thilliez ha trasformato la tecnica della misdirection in una soluzione narrativa di grande effetto. Fedele a una frase di Jorge Luis Borges, che il narratore francese considera come un talismano utile a non perdersi nella selva oscura delle storie. Tanto da metterla in esergo al suo primo libro, Train d’enfer pour Ange rouge del 2004. Convinto, come lo scrittore argentino, che “una fotografia esiste solo negli occhi di chi la guarda”. E un libro, di conseguenza, in quelli di chi lo legge.
Gli occhi, appunto. Quelli che il prestigiatore cerca di sviare, di ingannare quando deve mettere in scena il suo numero. Facendo l’impossibile perché un trucco venga scambiato per un evento soprannaturale. E che Thilliez, come ripete spesso nelle interviste, riproduce con le parole come fosse la mappa di un maniero delle Gothic Novels. Dove, a ogni bivio della storia, davanti al lettore si può aprire un passaggio segreto, una botola, una stanza che nasconde altre stanze. Dove, insomma, il tranello è sempre in agguato.
Franck Thilliez, nato nel 1973 ad Annecy nell’estremo Nordest della Francia, “lontano dal centro della letteratura”, nonni operai, ingegnere informatico di mestiere, ha cominciato a scrivere all’inizio del terzo millennio. Prima, i suoi libri uscivano per piccoli editori, e i critici lo ignoravano. Poi il successo di vendite, il tam tam dei lettori che lo definivano uno dei più innovativi e originali autori di storie misteriose, hanno costretto i recensori a dargli ampio spazio sulle pagine dei giornali.
“Quando scrivo un libro – spiega Thilliez – cerco di trasformarlo sempre in un gioco. Dove il lettore deve interpretare un ruolo attivo. Mi affascina molto questa lettura che Borges dà della realtà. Perché ci fa capire che tutto, attorno a noi, esiste soltanto se noi stessi diventiamo protagonisti del nostro stare al mondo”.
È sempre la mente umana l’immenso e complesso palcoscenico su cui prendono forma le storie di Thilliez. La Abigaël di Il sogno (tradotto nel 2020 da Federica Angelini per Fazi editore, che da anni, ormai, sta pubblicando i romanzi dello scrittore francese) è una psicologa che collabora con la polizia per risolvere i casi più intricati. Purtroppo non può mai fidarsi di se stessa, dei ricordi, perché una grave forma di narcolessia la porta a confondere i suoi viaggi onirici con la realtà. Tanto che, spesso, si costringe a infliggersi ferite profonde, a bruciarsi con le sigarette, per uscire dall’inganno dei sogni.
Lucas Chardon, il protagonista di Puzzle (tradotto nel 2022 da Federica Angelini), cerca di smantellare l’accusa di essere un pluriassassino rivelando alla psichiatra, che prova a curarlo dentro la rigida struttura di un manicomio, l’esistenza di un complicato e arcano gioco di ruolo chiamato Paranoia. Dove le regole le detta un’entità misteriosa, che a sua volta non rispetta nessuna regola. Ma è credibile quello che lui va raccontando? Dal momento che “il cervello è in continua ristrutturazione”. E che “in alcuni momenti di stress può accadere che i ricordi si rimodellino per aderire alla realtà senza che noi ce ne accorgiamo”.
Nel romanzo Labirinti (tradotto sempre da Federica Angelini nel 2023, e che a novembre verrà ristampato da Fazi assieme a Il Manoscritto e a C’era due volte in Trilogia di Caleb Traskman), Thilliez costruisce un intreccio ancora più complesso, che ruota attorno alla storia intricatissima di una paziente dello psichiatra Fibonacci. Una donna ritrovata priva di sensi in un bosco, accanto a un cadavere, che deve sforzarsi di ricostruire il suo complesso rapporto con i ricordi e con la realtà. Evitando di farsi intrappolare da vicoli mentali senza uscita, dove si nasconde la soluzione della storia. Del tutto imprevedibile. Ma è poi davvero quella la verità?
In Il manoscritto (2019) e C’era due volte (2021) la letteratura diventa un viaggio nelle tenebre. Perché è la fantasia stessa di chi architetta storie estreme per costruire i suoi romanzi, a innescare la sparizione misteriosa di alcune ragazze. Anche qui, Thilliez non si accontenta di dare forma soltanto a una coinvolgente storia noir. Si spinge molto più in là. Altera la percezione del tempo. Tanto da inventare per il tenente Gabriele Moscato un salto temporale paradossale e spaventoso. Quando si risveglia una notte in una stanza d’albergo, mentre fuori dalla finestra piovono uccelli morti, il poliziotto si accorge che sono trascorsi dodici anni dal momento in cui era convinto d’essersi appisolato. A lui, nel frattempo, è stata pure tolta l’indagine di cui si stava occupando.
Lo dice Don de Lillo, in uno dei suoi splendidi libri, Punto Omega (Einaudi 2010): “Le percezione umana non è che una saga di realtà ricreate”. In tutti i suoi romanzi, siano veri e propri thriller, polar, polizieschi, o indagini sul Male che alberga nei corridoi mentali dell’essere umano, Thilliez non smette mai di insinuare dubbi dentro i dati oggettivi di quella che chiamiamo realtà. Non si stanca di sondare le percezioni dei suoi personaggi, fermamente aggrappati alle loro ben radicate certezze, che si diverte a sgretolare fino a ridurle al livello di traballante precarietà. Scardinandole pagina dopo pagina.
Ma il grande pregio di Thilliez è che, dentro questa ragnatela di inganni, lui non gioca a carte truccate. Memore della lezione, riferita da Plutarco, che impartiva Gorgia da Leontini, il filosofo greco discepolo di Empedocle, quando affermava che “la tragedia è un inganno in cui chi inganna è più onesto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Sintesi perfetta, se volessimo attualizzarla, del rapporto tra gli scrittori più coraggiosi a sfidare, e molto spesso a sfondare, gli angusti confini del nostro vivere, come Philip K. Dick, e i lettori.
La costruzione dei romanzi di Thilliez fa ritornare alla memoria le parole che Italo Calvino mette in bocca al signor Palomar, in quel racconto intitolato “L’occhio e i pianeti”, contenuto in uno dei gioielli letterari più misteriosi e affascinanti dello scrittore nato a Las Vegas de La Habana nel 1923: “Ma forse è proprio questa diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a nostro agio nell’universo. Forse la prima regola che devo pormi è questa: attenermi a ciò che vedo”.
La stessa via che deve sforzarsi di seguire Léonie, la poliziotta spedita nell’immaginaria cittadina di Norferville (che dà il titolo all’omonimo, nuovo romanzo di Franck Thilliez tradotto da Daniela De Lorenzo per Fazi editore, pagg. 380, euro 19,50) per provare a risolvere il mistero della morte di alcune ragazze. In apparenza, e secondo l’opinione dei poliziotti che vivono in quella gelida e inospitale zona del Quebec, a farle a brandelli è stata una bestia feroce. Forse un gigantesco orso, che scorrazza in quel territorio dove un freddo assassino regna incontrastato per gran parte dell’anno. Dove le donne sono considerate poco più che oggetti di piacere. Dove la Natura sfodera tutta la sua perturbante bellezza.
Léonie deve attenersi a ciò che vede. Pur senza riuscire a esorcizzare i maledetti ricordi, che a volte le tolgono le forze e la lucidità mentale proiettandola al centro della loro visionaria drammaticità. Sì, perché la poliziotta ha un conto in sospeso con Norferville, e con il passato. “Rossa fuori, bianca dentro”, come l’hanno sempre definita i nativi del luogo, è figlia di una madre innu e di un padre bianco. Sangue misto insomma. Bersaglio perfetto per chi non esita a emarginare l’altro.
La ragazza non si è mai sentita a casa da nessuna parte. Tanto meno lì dove, in una delle infinite gelide notti della sua adolescenza, è stata violentata e umiliata da un branco di violenti a cui non è mai riuscita a dare un nome, un volto. Ma che adesso potrebbero nascondersi tra gli uomini in divisa che la affiancano nelle sue complicate indagini. Tentando di dettarle una verità che fa sicuramente comodo a loro. Ma che nasconde oscure e inconfessabili trame incistate nel passato.
Affascinato dal volto selvaggio della Natura, da sempre pronto ad ambientare le sue storie in situazioni estreme (in Vertigine, tradotto da Daniela De Lorenzo nel 2023, tre uomini si risvegliano incatenati in fondo a un abisso senza riuscire a dare una risposta al perché sono finiti laggiù, senza cibo, senza acqua, in compagnia di un cane che potrebbe decidere di sbranarli pur di non morire di fame), Thilliez non smette di credere che avesse ragione sur Arthur Conan Doyle, il papà del razionalissimo Sherlock Holmes. Lo scrittore, raggirato dai più cialtroneschi medium tanto da diventare un autentico apostolo dello spiritismo, affermava che “una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”.
Thilliez si muove proprio in questa direzione. Spinge il lettore a oltrepassare i confini tra il reale e l’improbabile. Lo bombarda di dubbi, fino a far vacillare le sue certezze più granitiche. Lo chiude dentro un labirinto di ipotesi estreme, negandogli di trovare una comoda via di fuga. Lo trascina ancora più in là, mettendo in discussione perfino il fatto che chi sta scorrendo le pagine stampate sia del tutto estraneo a quello che sta avvenendo dentro i confini del libro.
E quando lo scrittore, sommo seminatore di incertezze, pensa che sia arrivato il momento di rivelare i suoi trucchi, ecco che la misdirection messa a punto dai più abili prestigiatori gli presta soccorso. Inventando per lui un doppio salto mortale finale.
Proprio per questo, i romanzi di Thilliez non sono adatti ai lettori a cui piace vincere senza faticare. Non hanno niente da spartire con certe trame consolatorie, dove la risoluzione dell’enigma la si può indovinare già dopo poche pagine. Perché lo scrittore francese è capace di ricreare, aggiornandole, le atmosfere buie di un grande maestro del romanzo Hard Boiled come Cornell Woolrich, il bistrattato, dimenticato inventore di storie tenebrose e affascinanti come La sposa era in nero, Appuntamenti in nero, La donna fantasma.
Intrecci narrativi che sembrano distillati dalle tenebre della solitudine, della disperazione, della follia che nasce dal dolore e dall’emarginazione. Storie feroci come coccodrilli che aspettano la preda a pelo d’acqua fingendo di sonnecchiare. Trame che hanno fatto la fortuna di Alfred Hitchcock in quel capolavoro cinematografico che è La finestra sul cortile; di François Truffaut in La sposa in nero e La mia droga si chiama Julie; di Rainer Werner Fassbinder in Martha.
Thilliez ci riporta a quello stile lì, alle atmosfere di Woolrich, che non aveva paura di guardare il Male negli occhi. Che non doveva, per forza, regalare al lettore un finale tranquillizzante. Nelle opere dello scrittore francese ritornano gli stessi spaventi, ad alto valore letterario, che sanno fare del romanzo di genere una continua sfida all’asfittica ripetitività della narrativa contemporanea. Ripiegata, a tratti in modo ridicolo, sull’analisi maniacale della propria banale quotidianità.
Storie come quelle di Thilliez sono grida nella notte oscura di una società che naviga a vista. Sono lame di coltello pronte a squarciare i mille inganni che continua ad ammannirci la realtà.