Edgar Reichmann. Alla ricerca dell'Europa perduta
Oliver Sacks era sicuro che la memoria non andasse mai d’accordo con la nostra ansia di verità. In un saggio scritto per il “New York Review of Books”, il neurologo e autore britannico di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Risvegli, Zio Tungsteno, morto a New York nel 2015, scriveva che “sembra non esserci alcun meccanismo nella mente o nel cervello che assicuri la verità, o almeno l’elemento veridico, nel nostro rammentare”.
Quando, poi, si soffermava ad analizzare il rapporto stretto tra ricordi e contaminazioni della fantasia finiva sempre per citare Edgar Allan Poe. Perché l’autore di La caduta della casa Usher ripeteva con convinzione che le sue allucinazioni ipnagogiche fossero assai più vivide, ed efficaci, di tutte le mirabolanti storie che la fantasia riusciva a dettargli.
Non basta. C’è un racconto di Jorge Luis Borges che invita a riflettere sul rapporto tra i ricordi, la realtà e la fantasia, se possibile, in maniera ancora più inquieta. Funes o della memoria, inserito nella raccolta Finzioni (tradotta per Adelphi da Antonio Melis), porta in scena un giovane uruguaiano il cui cervello è talmente intasato da una folla sterminata di reminiscenze da riuscire a isolarlo dalla vita, dai rapporti con gli altri. Ma, soprattutto, da impedirgli di immaginare storie diverse da quelle che la memoria del passato gli propina in continuazione.
Non c’è dubbio che la memoria di Edgar Reichmann potesse assomigliare a quella di Funes. Sì perché lo scrittore nato a Galati, in Romania, nel 1929 da una famiglia ebraica, e morto a Parigi quasi un secolo dopo, nel 2023, ha visto passare sotto i suoi occhi gran parte del ‘900 e l’alba del terzo millennio. Questo intellettuale esule, apolide, che è stato critico letterario per “Le Monde”, docente e incaricato dell’Unesco in Francia, capace di parlare almeno cinque lingue, si è sempre considerato un cittadino dell’Europa in senso reale. Un uomo senza confini che immaginava un futuro diversissimo da quello che si delinea sul nostro orizzonte.
Al momento di scrivere quello che viene considerato il suo libro migliore, Appuntamento a Kronstadt, la memoria è scesa in suo aiuto come una piccola corda piovuta dal cielo. Sintonizzandosi con ciò che nutriva la prosa di Marcel Proust, che non aveva esitato a legare al ricordo delle madeleine i momenti più intensi e malinconici della sua infanzia nelle pagine d’apertura della Recherche.
Ma i ricordi, a ben pensare, non bastavano a Reichmann. Perché inanellare uno dietro l’altro gli episodi di una vita intensa e tragica, luminosa e tenebrosa, contrassegnata da un giusto tempo per la gioia e uno meno gradito per il dolore, rischiava di trasformare Appuntamento a Kronstadt in un grigio memoriale. In una puntuale, fredda e prevedibile litania di episodi veri, documentati, inappuntabili. Eppure ricoperti dalla sottile polvere della noia, del déjà vù.
Così, Reichmann ha lasciato che i ricordi germinassero dentro la sua fantasia di scrittore. E che le storie vissute, spesso drammatiche, che hanno legato il suo stesso divenire di uomo ai contorti stravolgimenti della Storia, si facessero contaminare dal seme dell’imprevedibile. Dal soffio dell’inaspettato. E, perché no, dal fascino dell’impossibile. Di quell’elemento narrativo, insomma, che trasforma anche il racconto più pedante in un arcano apparire di fantasmi tra le pagine di Appuntamento a Kronstadt, tradotto da Maria Sole Iommi per Atlantide (pagg, 255, euro 26).
Del resto, non era Dino Buzzati, che di contaminazioni tra vita reale e immaginazione se ne intendeva (basterebbe pensare al racconto Sette piani, diventato, poi, il più inquieto film sul rapporto tra malattia, vita e morte con un attonito e perturbante Ugo Tognazzi, attore e regista in Il fischio al naso del 1967), ad affermare che i nostri giorni privati del mistero diventano banali, noiosi? E che non può “essere sopportabile una vita che non sia piena di illusioni e di paure!”.
Ecco, la vita-libro, la vita che diventa romanzo in Appuntamento a Kronstadt è decisamente piena di illusioni e di paure. Già da quando, all’inizio della storia, Reichmann porta il suo alter ego adolescente, Arnim Stern, a esplorare un castello pieno di leggende e mistero a Brașov, Kronstadt in tedesco (“L’antica città di Corona, edificata durante le crociate dei cavalieri sassoni di passaggio verso Gerusalemme, ha troppi nomi e troppi volti perché io possa comprenderla come un’unica e sola realtà”). Quel luogo sospeso tra la quotidianità e l’immaginazione, situato in una Transilvania che già a citarla evoca tenebrose presenze, è lo scenario perfetto perché lo scrittore possa proiettare sul maniero Janossi le sue fantasie più nascoste. Proprio lì, come sosteneva la vox populi, la principessa Matilde riuscì a sedurre la figlia di un rabbino taumaturgo. In una storia d’amore saffico, oltremodo scandalosa, che portò la stessa Matilde a essere, poi, accusata di stregoneria e finire bruciata su una pira allestita nella piazza principale.
Di certo, non poteva essere il fuoco a dissipare lo spirito inquieto di due donne che avevano sfidato apertamente le regole morali della società di Kronstadt. Infatti, la leggenda vuole che Matilde e la figlia del rabbino ritornassero di notte nella sala da musica del castello. Per abbracciarsi ancora e dimostrare che l’amore valica i rigidi confini del perbenismo.
Proprio da lì, da quell’impalpabile abbraccio tra fantasmi, che Arnim invano provava a sorprendere insieme agli amici Ariel e Rita e alla cugina Rachele, affacciandosi alla soffitta di casa da cui poteva vedere le finestre del castello, si mette in moto la ruota dei ricordi di Reichmann. Trasformando Appuntamento a Kronstadt in un pendolo narrativo che oscilla tra ricordo e variazione fantastica, tra realtà e rêverie. Tra le tenebre, insomma, del ‘900 e gli sprazzi di speranza legati al nuovo millennio. Che troppo presto, però, dovranno inchinarsi alle ombre scure di un passato ingombrante, incapace di tramontare. Perché è fatto di memorie incancellabili: milioni di morti sui campi di battaglia, lager, gulag, pogrom, delazioni, pregiudizi razziali e persecuzioni di ogni genere.
“Non ho mai conosciuto la Transilvania degli Asburgo – scrive Reichmann –. Tuttavia per me la sola frontiera restava quella di un tempo, che correva lungo le montagne. Totalmente arbitraria, non separava né popoli, né Stati, solo due culture, due civilizzazioni. Ma s’interponeva tra il mio spazio interiore e segreto, quello di Kronstadt Brașov, Ducato impossibile, inesistente, e i vasti territori della realtà, dove mi perdevo così spesso”.
Il sapersi ritirare in quello spazio liberissimo e immaginario non potrà salvare Arnim Stern dal fare i conti con gli orrori del ‘900. Fin dall’apparire delle croci uncinate, che travolgeranno l’Europa e quel lembo di Transilvania con metodico, feroce furore. Nel 1941 la famiglia di Arnim dovrà trasferirsi a Bucarest, per sfuggire ai bombardamenti e alle deportazioni decise dal regime fascista di Antonescu. Solo per la mamma, la nonna, la zia e la cugina di Stern verrà organizzata, con grande ansia, una fuga verso la Palestina. Ma la nave finirà per centrare una mina, durante la navigazione, ed esplodere. Precipitando il ragazzo in una precoce orfanezza che, per sempre, sarà popolata dalle ombre e dai ricordi delle persone perdute.
Da allora, la violenza della guerra, il cieco furore di poteri politici affamati di dominio e di sottomissione dei popoli, contrassegnerà la vita di Arnim. Popolando i suoi giorni con episodi che stanno in bilico tra la realtà e l’immaginazione. Come l’incontro con Ildegarda, forse Matilde o Ilde, la ragazzina con la treccia bionda che le arriva fino alle natiche, lo sguardo mezzo severo mezzo scherzoso, gli occhi a mandorla levantini, la bocca che accennava un sorriso deciso e disincantato. Uno splendore di donna in miniatura, un’apparizione improvvisa e casuale, che transita sull’orizzonte di quei giorni troppo in fretta. Perché la sua testa rotolerà davanti agli occhi di Stern dopo una violenta esplosione.
Visione reale oppure immaginata? Reichmann lascia che sia il lettore a trovare la risposta, perché lui gioca a nascondersi dietro i ricordi. “Tu stai delirando – gli dirà Rita, che era scesa per fare il bagno e giocare a Monopoli insieme a lui e all’amico di sempre, Ariel –. C’eravamo solo noi tre al bordo della piscina. Voi siete corsi al riparo”.
Eppure, in qualche modo, quella bambina fantasmatica, che la Morte ha già portato via con sé una volta, ritornerà a materializzarsi nella vita di Arnim. Come oggetto del desiderio, come donna da amare e perdere di nuovo. Un’altra Matilde, infatti, accompagnerà i suoi giorni, come la principessa-ombra del castello Janossi. Mentre nel gioco dei poteri dispotici, al nazismo succederà lo stalinismo. Trascinandosi dietro le scuole di dottrina comunista, la soffocante imposizione della fede marxista-leninista, il voler piegare tutti gli aspetti della vita a una ferrea disciplina ideologica.
Ci proverà Stern, insieme all’amico Ariel, a sintonizzarsi con quel nuovo furore di pensiero e di azione. Sforzandosi persino di innamorarsi di una rigida e dogmatica custode del Verbo imposto dai Soviet di Mosca.
Ma non potrà che essere una fugace illusione, quella di riuscire a inchinarsi al velleitario, e ben presto sanguinoso, progetto di essere parte attiva della costruzione di un futuro radioso. Così, sentendosi sempre cittadino di un “non luogo”, dovunque andrà, Stern deciderà di migrare a Parigi facendo tappa, prima, in Israele. Senza smettere di cullare dentro di sé un’immagine del tutto romantica e irreale di Gerusalemme.
Anche in Francia lo seguirà il silente, eppure invadente, tormento delle contrapposizioni tra democrazie occidentali e Paesi comunisti. Una Guerra fredda combattuta a colpi di minuscole stilettate, di minacce e avvertimenti mafiosi. Di espliciti rimproveri che gli fanno pervenire i suoi ex connazionali, criticando le sue trasmissioni realizzate per una radio che si rivolge ai dissidenti dell’Est. Sbeffeggiando i suoi corsi universitari, dove insegna l’importanza di un pensiero non omologato, capace di sottrarsi a qualsiasi tipo di guinzaglio.
Fino a quando una bomba piazzata nel motore della sua automobile, a cui sfuggirà per puro caso, riuscirà a convincere Arnim a riprendere la via dell’esilio. A scegliere un altro Paese, la Spagna, per continuare a sognare la sua Kronstadt perduta. Simbolo di un mondo che poteva ancora illudersi di costruire un modello di convivenza pacifica tra genti, pensieri, culti e culture diversi. Eco, forse, di quel mai abbastanza amato imperatore austroungarico Franz Joseph, il “primo impiegato” di un regno destinato a sfasciarsi poco dopo la fine della Grande guerra, che nei documenti ufficiali si rivolgeva sempre con mitteleuropea magnanimità “ai miei popoli”.
“Ho forse infastidito, senza saperlo – rifletterà Arnim Stern, ponendo sullo stesso violento livello tutti i tipi di prepotenti sparsi nel mondo – i nuovi dirigenti della Romania, o fascisti esiliati, o integralisti musulmani, separatisti baschi, corsi, croati, catalani, palestinesi estremisti, nazionalisti irlandesi, rivoluzionari africani o latino-americani, i servizi segreti giapponesi o cubani, chi lo sa, forse il KGB o la CIA?”.
Appuntamento a Kronstadt, pubblicato in Francia nel 1984 e finora sconosciuto in Italia, è tutto questo: un rispecchiarsi della vita nelle infinite tentazioni della Morte. Un frammentarsi dell’amore in tante esperienze interlocutorie. Un confrontarsi con la Storia senza mai lasciarsi catturare da una retorica e superficiale indignazione. Ma anche un saper mettere in scena, con squisita misura narrativa, il divenire di un ragazzo che si fa uomo, senza smettere di cogliere piccoli bagliori di mistero e di magia nello scorrere oscuro del tempo.
Nella vita vera, Edgar Reichmann ha vissuto a Parigi fino al 2023, dove è morto il 25 novembre. Per lungo tempo è stato collaboratore di “Le Monde”, senza smettere mai di parlare di letteratura, soprattutto quella della vecchia Mitteleuropa, e del sogno di un’Europa davvero unita, che lui ha sempre considerato “la mia vera patria”.
Fino alla fine, Reichmann ha continuato a credere in ciò che i suoi personaggi ribadiscono più volte nelle pagine di Appuntamento a Kronstadt. Cioè, che la bellezza di un’opera d’arte è la sua sola verità. E che “contro la tirannia e la paura è più efficace di mille pamphlet”. Perché sta nel genio della creazione, nell’immaginazione che intona il suo canto libero, il detonatore più forte per fare a pezzi la gabbia di un pensiero imposto con la violenza e con il terrore.