Speciale
Calvino e La giornata di uno scrutatore
La giornata d’uno scrutatore ha una storia compositiva lunga e tormentata. Secondo Calvino il primo nucleo immaginativo del romanzo nacque proprio durante le elezioni del 7 giugno 1953 in cui è ambientata la vicenda: quel giorno lo scrittore, candidato nelle liste elettorali del Pci, fece una breve visita al seggio elettorale del Cottolengo; vi tornò come scrutatore qualche anno più tardi, durante le elezioni comunali del 1961. Solo dopo un periodo di decantazione dallo choc che gli avevano causato le immagini immagazzinate in quella giornata Calvino riuscì a cominciare la stesura del libro. La pubblicazione giunse infine, nel 1963, dopo «un silenzio narrativo di quattro anni» e, secondo lo stesso Calvino, «dava solo notizie» su quel silenzio (Calvino parla del libro nell’intervista rilasciata ad Andrea Barbato Il 7 giugno al Cottolengo, «l’Espresso», 10 marzo 1963; ora in Italo Calvino, Romanzi e racconti, a cura di C. Milanini, M. Barenghi, B. Falcetto, Mondadori, Milano 1991, vol. II, p. 1311; questa edizione è citata nel testo come RR).
Subito prima di quei quattro anni di blocco creativo Calvino aveva scritto due racconti lunghi – La speculazione edilizia e La nuvola di smog – che avrebbero dovuto costituire, insieme alla Giornata, un trittico dalla denominazione variabile: «Cronache degli anni Cinquanta», «Trilogia degli anni Cinquanta», speculare dunque alla «Trilogia degli Antenati» che raccoglieva il versante allegorico-favolistico della sua produzione di quel periodo. Fulcro del progetto narrativo abortito era la crisi ideologica dell’intellettuale progressista, comune protagonista dei tre racconti.
[…]
La giornata, racconto lungo o romanzo breve quasi interamente costituito dalle riflessioni del comunista Amerigo Ormea, presenta l’esito estremo di questo percorso di crisi: l’interrogazione sul senso dell’utopia e l’annuncio della sua perdita giungono a scavare alle radici stesse dell’umano. Ma la crisi dell’intellettuale progressista come viene qui raccontata è molto più grave, definitiva ed emblematica che nei racconti precedenti, tanto da segnare una cesura concreta nella storia di Calvino, che dopo questo libro darà una brusca sterzata alla propria biografia: il 1964 è l’anno dell’avvio della scrittura delle Cosmicomiche e del definitivo abbandono di Torino, città simbolo dell’utopia politica, il luogo possibile di un’azione congiunta degli intellettuali e del movimento operaio: «Torino [...] rappresentava per me – e allora veramente era – la città dove movimento operaio e movimento d’idee contribuivano a formare un clima che pareva racchiudere il meglio d’una tradizione e d’una prospettiva d’avvenire» (RR, I, p. LXVIII).
Nel Sentiero il capitolo nono, il capitolo ideologicamente programmatico e propositivo che dava un senso universale al mondo multiforme, anarchico e picaresco dei partigiani e della Resistenza, poneva nella Storia il discrimine tra la parte «giusta» e quella «sbagliata», tra «noi» e «loro», tra lo spargimento di sangue dettato dalla disperazione ma finalizzato alla giustizia e lo spargimento di sangue dettato dalla disperazione ma esaurito in sé stesso. I «noi» che il giovane narratore aveva scelto di rappresentare non erano né i Ferriera né i Kim: né l’avanguardia operaia con un’ormai acquisita coscienza ideologica né quella intellettuale dei borghesi che hanno compiuto il salto di classe; i «noi» della banda partigiana in cui milita Pin sono le carogne, gli esclusi, i sottoproletari, il Lumpenproletariat privo di motivazioni ideologicamente cristalline. Ciò che li spinge è la disperazione della propria miseria, dato originario, esistenziale, quasi un fatto di natura. Quei «noi», indistinti dai «loro» se non perché stanno «dalla parte della storia» (pur senza consapevolezza, è Kim che lo sa per loro), in parte corrispondono agli abitanti del Cottolengo, gli esclusi per eccellenza dalla società, che non vi trovano posto se non nel recinto dei reietti, in un mondo alieno: «Amerigo […] cercando sotto la pioggia l’ingresso segnato sulla cartolina del Comune aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo» (RR, II, 8).
La positività ideologica del narratore del 1947 lo aveva indotto a raccontare il grado zero dell’umanità, che l’ideologia comunista riusciva a inquadrare in un «noi» fornendogli una speranza di riscatto garantita dalla progressione della storia. Ma di fronte a una discesa più radicale, negli inferi del Cottolengo, dove alberga una degradazione che non ha origine sociale e che nulla potrà sanare, sorge l’impasse definitiva per l’intellettuale progressista. Davanti a tale impasse perde senso anche l’essere «dalla parte giusta»: «“Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, – anche se il mondo è il “Cottolengo”, è nel giusto”. E aggiunse in fretta: “Certo, essere nel giusto è troppo poco”» (RR, II, 43).
Nel 1947 Kim poteva leggere all’interno del flusso potente della storia ogni cosa, dalla banda di carogne che ha sperimentalmente costituito, fino alle proprie più intime vicende: nel 1947 era storia anche pensare, e ripetere, «Ti amo, Adriana». Ma nel 1963 l’amore dello scrutatore Amerigo per la giovane e vana Lia non appartiene alla storia, se non in una parentesi che disperatamente tenta di conciliare desiderio di fuga nel privato e dovere civile: «(Amerigo pensava che invece d’esser lì avrebbe potuto passare la domenica tra le braccia di Lia, e questo suo rimpianto ora non gli pareva in contrasto con il dovere civile che l’aveva portato a fare lo scrutatore: anche far sì che la bellezza del mondo non passi inutilmente – pensava – è Storia, è opera civile…)» (RR, II, 25).
Ma si tratta, appunto, solo di una parentesi: Lia appartiene ad un mondo che si oppone a quello dell’azione politica, collettiva e sociale: «(Per chi potesse votare la ragazza, era un problema che Amerigo non si poneva nemmeno, domandarlo gli sarebbe costato uno sforzo, era mescolare un tipo di problemi – i suoi rapporti con lei – a un altro – i suoi rapporti con la politica)» (RR, II, 51).
Nel capitolo XI, significativamente l’unico che deroga all’unità di luogo (Amerigo è ritornato a casa a pranzare), Lia annuncia per telefono di poter essere incinta, scatenando in Amerigo una serie di reazioni in cui l’angoscia e il timore di una paternità non voluta si intrecciano con le riflessioni maturate nel Cottolengo, giungendo in chiusura di capitolo a toccare il cuore tematico del libro: «da che punto un essere umano è umano?».
Amerigo ebbe un soprassalto di polemica («Ecco, per lei non è niente, per lei è il corso della natura, per lei non conta la logica della ragione ma solo la logica della fisiologia!») […] Cosa poteva essere cambiato in lei? Poca cosa: qualcosa che ancora non era e che quindi si poteva ricacciare nel nulla (da che punto in poi un essere è davvero un essere?), una potenzialità biologica, cieca (da che punto un essere umano è umano?), un qualcosa che solo una deliberata volontà di farlo essere umano poteva far entrare tra le presenze umane. (RR, II, 58-59)
L’immagine della storia nelle riflessioni di Kim era quella di una macchina che procede inesorabile, «la grande macchina delle classi che avanzano, la macchina spinta dai piccoli gesti quotidiani, la macchina dove altri gesti bruciano senza lasciare traccia» (RR, I, 100); l’immagine viene ripresa in Giornata, ma con mutato accento emotivo, che ne cambia il significato. La positività dell’immagine del 1947 era tale per una presa di posizione aprioristica della volontà, che garantiva che essere immersi in quel flusso significava stare dalla parte giusta – perché una parte «giusta» c’era. Nel 1963 la «Storia» scompare: l’ingresso al Cottolengo è ingresso in un mondo al di fuori del tempo, dove si manifesta un’altra «storia», quella biologica, degli esseri umani e della natura tutta, il cui istinto all’autoriproduzione è indifferente alla volontà e al destino di dolore dei singoli esseri.
Era un’Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze, quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati di ignoti predecessori, la lue taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, ma non solo), era il rischio di uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… Il caso che governa la generazione umana, che si dice umana proprio perché avviene a caso… E che cos’era se non il caso ad aver fatto di lui Amerigo Ormea un cittadino responsabile, un elettore cosciente, partecipe del potere democratico, di qua del tavolo del seggio, e non – di là del tavolo – per esempio, quell’idiota che veniva avanti ridendo come se giocasse? (RR, II, 20-21)
La crisi ideologica e filosofica di Giornata si manifesta anche a livello stilistico e strutturale: le riflessioni di Amerigo sono lo spazio di una dialettica – quella dialettica che era stata l’organo di dispiegamento dello storicismo – priva di sintesi, di contrapposizioni manichee che non si escludono l’un l’altra. La coscienza di Amerigo, e il mondo contemplato attraverso di essa, diventano fonte di continuamente risorgenti coincidentiae oppositorum. La convivenza dei contrari è l’unico modo con cui lo scrutatore può salvaguardare la sostanza dell’ideologia, e non a caso il periodo più lungo e complesso del libro, esteso su ben due pagine, quello in cui più abbondano le parentesi con cui lo scrittore e lo scrutatore cercano di imbrigliare la complessità sfuggente e contraddittoria del reale, è quello che conclude il secondo capitolo sul tentativo di definire cosa significhi per Amerigo «essere comunista». La coincidenza dei contrari, derogando al principio di non-contraddizione, svela l’impossibilità di reggere a lungo tale equilibrismo ideologico. In questi termini, quelli della dissociazione e della schizofrenia, Calvino descriverà, più di vent’anni dopo la sua uscita dal Partito comunista, la propria militanza:
Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità, i vendicatori dei torti subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin, in nome della Causa. Schizofrenici. Dissociati. […] Ecco perché il disgelo, la fine dello stalinismo, ci toglieva un peso terribile dal petto: perché la nostra figura morale, la nostra personalità dissociata, finalmente poteva ricomporsi, finalmente rivoluzione e verità tornavano a coincidere. (RR, I, LXXIII)
La giornata d’uno scrutatore non è l’unico congedo preso da Calvino dal proprio passato biografico, politico e letterario. Del 1964 è la celebre Prefazione alla nuova edizione di Il sentiero dei nidi di ragno, che si apre con un’annotazione che segnala tutta la distanza che lo scrittore ormai prova nei confronti del romanzo, che avverte quasi come opera d’altri: «più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale di un’epoca» (RR, I, 1185). Congedarsi da una visione del mondo e da una stagione letteraria significa però anche la libertà di passare ad altro: proprio al 1964 risale la scrittura delle prime Cosmicomiche, incunabolo dei nuovi generi e interessi calviniani, viranti verso un’idea più ludica, seppure problematica, di letteratura.
(Estratto da Anna Baldini, Il comunista. Una storia letteraria dalla Resistenza agli anni Settanta, Utet, Torino 2008, pp. 75-81)
giovedì 15 febbraio 2024 ore 11
Biblioteca Vaccheria Nardi
La giornata di uno scrutatore
con Anna Baldini
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