César Aira. I fantasmi
Si spende tutta la vita a convincersi del contrario e poi saltano fuori così, senza neppure spaventare a morte. Allora non ce ne sono, di storie. I fantasmi esistono. Eccome. Inutile girarci intorno: alla lettera, s’intende. Meglio affrontarli di petto, a viso scoperto e con una buona dose di pragmatismo, magari dando loro dei pagliacci infarinati, come non esita a fare Elisa. Del resto ci sono giorni in cui verrebbe proprio voglia di strozzarne uno, soprattutto quando oltrepassano i limiti del quieto vivere. Mica possono permettersi proprio tutto, solo perché sanno stare in equilibrio sui bordi delle antenne paraboliche, fluttuare attraverso i pavimenti o raffreddare il vino nei loro toraci millenari, e starsene lì, nudi, con il gingillo a ciondoloni, a guardare una poveraccia mentre fa il bucato e litiga con le tubature difettose. Avesse almeno la lavatrice! Ma di cosa si lamenta, Elisa? Quella non è casa sua.
A ben guardare non è neppure una casa; lo diventerà a breve: lussuosi appartamenti destinati all’intimità agiata dei milionari. Gente di un’altra specie. Argentini, per giunta. E non c’è da stupirsene: César Aira, prolifico autore tra i più riconosciuti nel panorama letterario ispanoamericano, quasi sconosciuto in Italia, decide di ambientare I fantasmi (Edizioni SUR, pp. 140, 15 euro) in un cantiere al numero 2161 di calle José Bonifacio, a Buenos Aires.
Ma Elisa, una delle voci protagoniste, è cilena, di quei cileni che si lamentano della secchezza dei vini patrii per dissimulare la nostalgia che ad ogni sorso si attacca al palato. E ne trangugia, di vino, il marito, Raúl Viñas, etilico pater familias e muratore di assoluta fiducia che ha deciso di occupare l’abitazione del portiere, anch’essa da ultimare, trasferendo lì tutta la famiglia, fino a quando la sua impresa non termini i lavori e la fiabesca piscina all’ultimo piano non venga riempita d’acqua.
Nel frattempo, è tutto un via vai tra le pagine del piacevolissimo romanzo dell’argentino Aira, molto ben tradotto da Raul Schenardi (curatore inoltre delle commendevoli edizioni Sur, dedicate alla grande letteratura latinoamericana, per cui sono già usciti anche Scene da una battaglia sotterranea, di Rodolfo Fogwill e Prima della fine, di Ernesto Sábato). Acquirenti, tappezzieri, arredatrici, professionisti e manovali, muratori, capomastri, bambini: “il confine fra poveri e ricchi, fra esseri umani e bestie, era una linea temporale; dove adesso si trovavano gli uni, nel giro di qualche tempo sarebbero stati gli altri”. Così come, prima o poi, avrebbero sostato i fantasmi, visibili solo da qualche bambino e dalla sgangherata famiglia di squatter cileni, che il più delle volte ne constata indispettita la presenza (gli adulti; i bambini e le giovani adolescenti insicure sono tutta un’altra storia, con le loro idee strampalate sui luoghi in cui sono costretti a vivere...).
È un 31 dicembre di un anno qualsiasi, o meglio, siamo probabilmente nella seconda metà degli anni Ottanta, ben lontani dalla crisi che disintegrerà l’economia argentina alla fine del decennio successivo. La frenesia dei proprietari ruota attorno alla felicità posticipata che l’edificio ancora in costruzione pare promettere, nessuno si è accorto delle presenze abusive: né dei fantasmi – esseri bianchi di calce – né dei Viñas, anch’essi sbiancati, o meglio, scoloriti, a causa della smodata passione per i lavaggi con la candeggina.
Avvicinandosi alla seconda metà del romanzo, Aira procede sicuro verso la contrazione simbolica dell’immagine del cantiere che diventa proiezione della letteratura stessa, architettura del vuoto, fuga del tempo verso lo spazio. Per estensione, l’autore non è altro che un artigiano del non ancora costruito, a un passo dall’assoluto, sempre in bilico tra il campo delle possibilità e il fallimento personale, in una dimensione in cui il confine tra il fatto e il non fatto sfuma e l’invito al banchetto degli spettri diventa allettante. Il rischio è di fare la fine della Patri, con i fantasmi dei lettori che si aggirano nell’edificio che è il libro, ma che, al contrario degli ectoplasmi bighelloni del romanzo, invece di gironzolare ironici e capziosi negli spazi incompiuti del palazzo, sono ben felici di innalzarne le pareti, arredare i locali e abitarli.