Intervista a Jean-Luc Nancy / Che cos’è la decostruzione?
Vorrei partire da lontano. Nel 1955, Gérard Granel, che tu ben conoscevi (da quando esattamente?), traduce un lemma fondamentale del pensiero heideggeriano, “Abbau”, con la parola “decostruzione”. Nel 1955, avevi 15 anni. Non credo, quindi, tu leggessi già Heidegger e nemmeno quella traduzione di Zur Seinsfrage (Sulla questione dell’essere) in cui Granel appunto introduceva la parola decostruzione (Abbau) per distinguerla dalla distruzione (Zerstörung) della metafisica. Hai ricordo del tuo primo incontro con il pensiero heideggeriano?
Hai proprio ragione! A 15 anni non conoscevo davvero nulla della filosofia. Ho conosciuto Heidegger, negli anni Sessanta, avanzando nei miei studi, attraverso i libri (e, prima ancora, grazie a un amico, François Warin). Ho conosciuto i libri di Granel alla stessa epoca – soprattutto il suo libro su Kant – ma lui l’ho conosciuto solo molto più tardi, dopo aver incontrato Derrida. Avevo, invece, letto l’articolo scritto da Granel su Derrida nel 1967. Articolo che, molto probabilmente, è stato tra i più importanti su quello che, allora, era un nuovo autore. Leggevo, certamente, anche Heidegger e le traduzioni che venivano pubblicate, tra cui nel 1968 quella in cui Granel utilizza la parola “decostruzione”.
Questa parola non era un neologismo, come talvolta si sente dire, poiché esisteva nel dizionario Littré con un senso in bilico tra lo smontaggio o il disassemblaggio delle parole di una frase e lo smontaggio delle parti di una macchina. Occorre notare che, in Heidegger, si tratta di una Destruktion, e anche questo termine sembra avere un’origine linguistica – forse è anche correlato al disassemblaggio delle strutture (o “placche”) tettoniche. Faccio qui i conti con dei ricordi perché questa questione, negli anni Sessanta e Settanta, mi aveva molto interessato. E il centro del mio interesse era proprio la parola utilizzata da Heidegger, visto che “Destruktion” è una parola di radice latina (in seguito, si è scritto molto sul rapporto con la destructio di Lutero di tutta una parte della costruzione teologica ed ecclesiologica del cattolicesimo) e il suo uso, così come i commentari heideggeriani che l’accompagnano, non potevano che attirare la mia attenzione.
Per me, come per molti altri, la cosa più importante consisteva nell’originalità di un gesto che si distingueva dalla critica, dal rifiuto, ma anche dall’annuncio di una nuova “costruzione”. Per la prima volta, si apriva un varco all’interno di una “struttura” e non ci si limitava a effettuare un cambiamento del punto di vista o del modello strutturante. Un tale gesto si incentrava sul “senso dell’essere”...
Scusa se ti interrompo, ma mi fa sorridere che tu indichi l’importanza della “decostruzione”, almeno come traduzione del gesto heideggeriano, nel suo non essere rivoluzionaria (non una rottura e un cambiamento radicale del punto di vista) ma, in un certo senso, riformatrice (una trasformazione interna) del “senso dell’essere”. Mi fa sorridere perché penso a quanto tu e buona parte della tua generazione foste invece rivoluzionari nella vita sociale. Penso, ad esempio, al tuo legame filosofico ed esistenziale con Philippe [Lacoue-Labarthe], Philippe che, come te, se non più di te, immagino trovasse la “decostruzione” di un’importanza centrale per uscire da una interpretazione del pensiero heideggeriano schiacciato, soprattutto in Francia, dall’esistenzialismo, da una parte, e da Beaufret, dall’altra. Come tenevate insieme – stiamo parlando del 1968, come hai appena ricordato – rivoluzione sociale e riformismo filosofico? Ma, forse, sovrainterpreto le tue parole…
Credo che la questione si ponesse diversamente. Non si trattava di un’opposizione tra “rivoluzione” e “riforma”, da una parte, e di una distinzione tra “sociale” e “filosofico”, dall’altra. C’era, al contrario, una corrispondenza tra la “Destruktion” heideggeriana e una profonda disaffezione per tutte le prospettive politiche di quel periodo. Per capirlo, occorre ricordare che eravamo doppiamente “orfani”, se così posso dire: da una parte, mancanza di un’eredità politica, in seguito al fatto che l’indipendenza algerina (che era stata al centro delle nostre preoccupazioni fin da quando eravamo adolescenti) aveva deluso ogni attesa rivoluzionaria (e questo era solo l’aspetto più visibile, più immediato di un disincanto più profondo, che risaliva agli avvenimenti ungheresi del 1956 o alle dissidenze socialiste come quella di Tito o di altri che venivano dalla Cecoslovacchia o dal “Terzo-Mondo” (come si diceva allora) – e tutto ciò rispondeva al malessere crescente dei partiti comunisti (soprattutto quello francese) e dei movimenti di sinistra (in quel momento effervescenti ma anche completamente disordinati); e, dall’altra, mancanza di un’eredità filosofica, visto che nei nostri studi non avevamo incontrato Heidegger – proprio come dici tu: un Heidegger che non fosse né nella koiné esistenzialista né nel lirismo di Beaufret. È per questo che la scoperta della “Destruktion der Ontologie” aveva per noi una forza, allo stesso tempo, rivoluzionaria e completamente estranea a tutti i registri della politica. Nel 1968, e soprattutto a Strasburgo dove i Situazionisti erano molto presenti, tutto ciò prendeva la fisionomia di un rifiuto di ogni politica “progressista”, avendo la certezza che bisognasse occuparsi di altro – e, in particolar modo, della destabilizzazione dell’“essere”.
Per queste ragioni, solo la domanda sulla parola “Destruktion” – cioè di ciò che non era né distruzione né nuova costruzione – poteva focalizzare le nostre energie. (Per essere precisi, devo dire che se tutto ciò vale sia per Philippe sia per me, è anche vero che Philippe credeva a una rivoluzione politica violenta, immediata e per certi versi apocalittica, mentre io ero abbastanza scettico sul versante politico, benché mi infiammassi al pensiero di una messa in questione del “senso dell’essere”.
Ed è per questo – ultima considerazione su questo argomento – che per un certo periodo l’uso fatto da Derrida della parola “decostruzione” è rimasto per me secondario. Da un lato, ero trasportato dalla forza delle analisi di L’Origine della geometria e, ancor più, di La Voce e il fenomeno ma, dall’altro, ero (in modo bizzarro, lo ammetto) piuttosto distratto rispetto alla questione dei rapporti con Heidegger, segnalati da Derrida ma senza molta insistenza (in realtà, Derrida ha parlato di “decostruzione”, almeno credo, solo nella Grammatologia). Lo so che questo denota una mancanza di rigore… ma è così. In effetti, potrei dire che, in quel momento, sussisteva per me una corrispondenza, o una forte risonanza, tra la “Destruktion der Ontologie” e la “differenza (différance) nel rapporto a sé”, anche se non ne ero completamente cosciente.
Tutto ciò ha a che fare, d’altronde, anche con un aspetto davvero misterioso del percorso di Derrida in quegli anni. Jacques lavorava in modo più evidente nel campo husserliano (a me poco familiare) ma, allo stesso tempo, era già in un rapporto molto stretto e molto complesso con Heidegger. In effetti, solo più tardi, ho pensato che Derrida doveva aver ben presto deciso di distanziarsi dalla questione dell’“essere” in quanto tale: quel che davvero gli interessava non era l’essere ma la presenza-a-sé… Per me, invece, era il contrario, se così posso dire...
Accenno a questo solo per cercare di spiegare perché la “decostruzione” come emblema del pensiero di Derrida non ha avuto una grande importanza. Senz’altro un’importanza molto minore rispetto a quella della “differenza” (“différance”) che ho anche sempre compreso come una torsione o come una trasformazione della “differenza ontico-ontologica” (anche se Derrida non l’ha mai formulata in questi termini).
Sì, risulta che sia solo nel 1967, in Della grammatologia, che Jacques Derrida riprende la parola “decostruzione”. Tu, quindi, avevi già letto Derrida prima di questa data (l’introduzione di Derrida a L’Origine della geometria è del 1962). Ricordi, invece, in che occasione l’hai incontrato la prima volta?
Sì, è esatto: prima ho letto “L’Origine della geometria”. Ed era un testo terribilmente difficile e nel quale mi perdevo. Ma vi ho colto che “l’Assoluto è il passaggio” e che, proprio per questo, si espone a un pericolo – o, detto altrimenti, che il senso è esposto al rischio di perdersi. Per me era una cosa del tutto nuova. Ma La Voce e il fenomeno mi ha davvero colpito. Mi torna sempre in mente il passaggio dove Derrida scrive che l’Augenblick, l’istante-far-segno del rapporto a sé, non può avere durata. Ed è proprio a causa di questa parola tedesca Augenblick, molto concreta, molto sensibile, e dell’introduzione della durata dove pareva non dover essere, che sono rimasto colpito. Come se il testo mi avesse fatto segno… Potrei anche dire che per la prima volta l’“uno” si dilatava e si esponeva per me. E, probabilmente, nello stesso tempo, ho riconosciuto qualche cosa di Hegel; qualcosa, tuttavia, che, in Hegel, era rimasto per me molto più macchinoso, complesso, mentre in quel testo mi si rivelava improvvisamente...
Tutto ciò, per me, entrava in risonanza con Heidegger perché questa dilatazione dell’uno entrava in relazione con l’ek- dell’ek-sistenza, cioè anche con il fatto che il “senso dell’essere” non è “un” senso ma piuttosto un distanziarsi, uno scarto (un “essere gettati”, ecc.). C’era anche altro: nella Lettera sull’umanismo avevo letto che “l’umanismo non analizza sufficientemente l’humanitas dell’uomo” (cito a memoria). Era davvero uno shock! Anche in questo caso appariva una dilatazione, uno scarto... Parlando di “Humanitas” – in modo un po’ stravagante, (questa volta cerco il testo esatto: “Gegen den Humanismus wird gedacht, weil er die Humanitas des Menschen nicht hoch genug ansetzt”) poiché si tratta di una parola latina, un nome che indica un’“essenza”, ma, probabilmente, Heidegger lo faceva espressamente perché anche “Humanismus” è un termine latino – dicevo, parlando, quindi, di “Humanitas”, Heidegger vuol lasciare intendere che ciò che è “propriamente umano” dell’uomo non è, nell’umanismo, afferrato sufficientemente e non gli è assegnata l’importanza che dovrebbe avere. E, per concludere, è proprio quello che vorrebbe fare il suo pensiero: porsi alla sua altezza…
Vorrei ritornare sul tuo interesse primario, nell’opera del Derrida di quegli anni, per la “différance” (questa parola intraducibile in italiano e che gioca, tra l’altro, sull’idea di differenza come atto del differire, come differenza interna ad ogni identità) piuttosto che per la “decostruzione”. Hai, però, detto che, seppur in modo oscuro, le due questioni erano, già allora, per te legate. In effetti, non ti pare che, ad un certo punto (quando?), le due questioni, quella della differenza (interna alla presenza) e quella decostruzione (del senso dell’essere), si siano fuse, un po’ per tutti, in un corto circuito folgorante, scuotendo alle fondamenta tutto il pensiero metafisico e le certezze identitarie della civiltà occidentale?
Sì, in effetti, il tema della “differenza” (“différance”) e della “decostruzione” erano, per me, legati fin dall’inizio, anche se, all’epoca, non mi era ancora del tutto chiaro (ma era, invece, del tutto chiaro a Derrida e a tutti quelli che erano un po’ più avanti di me in questo campo). I due termini erano legati perché ciò che dava origine a una frattura all’interno del rapporto-a-sé doveva naturalmente essere in relazione con quella ricerca che voleva fare del Dasein altro dal soggetto cartesiano (dico “cartesiano” perché Heidegger fa riferimento a Descartes in Essere e tempo – solo più tardi ho capito che ci troviamo di fronte, probabilmente, a una comprensione inadeguata di Descartes, ma è grazie a Heidegger e a Derrida che l’ho compreso).
Occorre aggiungere che, evidentemente, esiste una profonda solidarietà tra il soggetto come presenza-a-sé e l’essere come sussistenza-in-sé – detto altrimenti, come sostanza fondamentale – di tutto quel che c’è. In un certo senso, potrei dire, oggi, che il “soggetto” in questo senso sarà stato l’“essere” della metafisica moderna – e reciprocamente l’essere in quanto “essere supremo” (causa sui) sarà stato essenzialmente “soggetto” (subjectum – hypokeimenon – suppositum). Tutto questo è iniziato quando Kant ha distrutto la prova ontologica dichiarando che “l’essere non è un predicato reale”. (Non mi inoltro nella lettura di Kant fatta da Heidegger perché non è questo il luogo per farlo).
Ma mi domando se tu possa davvero comprendere come, per un ragazzo di 20 anni, nel 1960, tutto ciò non esistesse, fosse inaudito. Ho incominciato nel 1961 a scoprire Hegel per il quale il “soggetto” non è solamente causa sui ma processo, uscita da sé, alienazione nell’altro, ecc. – seguendo una ripresa della teologia dell’incarnazione (e della Trinità). (Hegel, l’ho scoperto grazie a Georges Morel, un gesuita uscito dalla Chiesa, che teneva dei corsi per un circolo non molto “attivista” di filosofi e di teologi: è una cosa significativa che ti fa percepire il clima dell’epoca…). Ma non ho capito immediatamente fino a che punto il processo hegeliano potesse – e forse dovesse – dilatarsi per non chiudersi su se stesso in un compimento nella certezza di sé. In fondo, credo, è quello che già pensava Morel, ma è stato Derrida, per così dire, ad avermelo rivelato.
Riflettendoci, credo che a questo punto sia necessario aggiungere qualcosa. Nel 1960 vedevo intorno a me, soprattutto, la minaccia della scomparsa della filosofia sotto gli assalti delle scienze umane. Da più parti, si sentiva un discorso imperniato sull’affermazione dell’inutilità della filosofia e, al contrario, sulla solidità della sociologia, della psicologia, dell’etnologia e anche sulla previsione e la pianificazione storica. Mi sentivo inquieto – anzi, credo di aver addirittura avuto paura, non condividendo questa visione delle cose, ma non sapendo esattamente quel che volevo difendere. C’è stato un momento in cui credo che il mio punto di riferimento fosse Merleau-Ponty – assieme al Ricoeur di Finitudine e colpa e di Il simbolo fa pensare – e tutto ciò mi lasciava indifeso e impreparato davanti a tutto quel che si riferiva alla storia, alla lotta sociale, ecc. Penso che se avessi avuto un temperamento un po’ più politico avrei preso altre strade. Ed è senza dubbio in quel momento che Hegel, Heidegger e in seguito Derrida mi hanno fatto comprendere che esisteva un’altra dimensione, molto più contemporanea e attiva, della filosofia. Ma è stato più tardi, nel 1968 o 1969 e, ancora una volta, a proposito della filosofia come opposta alle scienze umane (come anche a quella forma di scientificità che Althusser introduceva parlando di Marx, e che io sentivo non appartenermi) che ho – almeno parzialmente – scritto a Derrida: fu questo il nostro primo contatto.
Vorrei aggiungere ancora qualcosa. A quei tempi la scientificità godeva di grande prestigio. Bachelard (e sua figlia), come anche Canguilhem, hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione, parallelamente a Morel, Hegel, Warin, Heidegger… Penso che il prestigio di cui godeva la scienza sia stato uno dei motivi che hanno spinto Derrida a compiere un gesto di mimetismo scientifico parlando di “grammatologia”. Certamente, Heidegger considerava che le scienze fossero totalmente incapaci di “pensare”, ma allo stesso tempo (per me tutto ciò accadeva allo stesso tempo) Husserl aveva continuato a sostenere il sapere razionale. In sintesi, potrei dirlo in questo modo: non capivo più esattamente dove si situasse la “ragione”... E Sartre non mi convinceva, perché, se così posso dire, era troppo antropologo (parlo di L’Essere e il nulla perché La critica della ragion dialettica è apparso solo nel 1960 e non mi convinceva per niente: era ormai troppo tardi perché mi potessi affezionare a un progetto storico). Ho molti ricordi di amici che reagivano esattamente come me (molti si indirizzavano allora verso Althusser, Rancière, Balibar). La sola cosa che poteva avere un potere di convincimento su di me era ciò che riguardava la metafisica perché, forse è molto semplicemente così, dovevo regolare i miei conti con Dio – cosa a cui si prestavano perfettamente sia Heidegger sia Derrida. Ma anche Hegel, naturalmente (nel 1962 ho redatto la mia tesi di laurea con Ricoeur sulla religione in Hegel – dunque, sull’Aufhebung della religione).
Scusa se sono stato un po’ prolisso ma è difficile sbrogliare questo passato...
Puoi spiegarci perché Heidegger e Derrida, ovvero la decostruzione e la sua differenza interna, erano un modo per fare i conti con Dio? O, immagino, detto altrimenti, erano un modo per iniziare a decostruire la storia del cristianesimo dal suo interno?
Anche questo è difficile da spiegare… In verità nel 1960 non avevo più problemi personali, se così posso dire, con Dio: ero ormai fuori dalla religione, anche se continuavo a intrattenere rapporti con cristiani militanti, preti e teologi di circoli che potremmo definire “progressisti”, circoli di cui avevo fatto parte. Ma se, da una parte, questo portava con sé una coscienza politica e intellettuale slegata dalla Chiesa, dall’altra, mi aveva permesso di imparare molto di quel che potremmo riassumere sotto il nome di “teologia negativa”. Dal punto di vista filosofico, questo significava che, da un lato, dovevo ancora capire meglio in che modo quel Dio morto – il Dio della metafisica – avesse occupato tanto spazio. A questo riguardo, ci sono parecchie cose interessanti ancora da indagare e districare in Descartes, Leibniz, Spinoza, ecc. Ma, dall’altro lato, – ed era quello che più mi interessava – c’era la constatazione che, da Sant’Agostino a Hegel, la teologia trinaria e cristica aveva sviluppato molte cose ben poco religiose, in fin dei conti. Il posto di Dio non era completamente vuoto: coincideva anche con ciò che Pascal indica affermando che “l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo”.
Ma questo superamento infinito non deve dar luogo né a un nuovo dio (alla Feuerbach) né a un semplice “senza-dio”. O ancora: per liberarsi completamente di Dio non è necessario richiamarsi a Dio? Ben presto il motto di Meister Eckhart – “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio” – divenne il mio (era l’epigrafe della mia tesi di laurea).
Ciò non era formulato come “decostruzione del cristianesimo” ma, in fondo, era il primo germe di quell’idea.
Era necessario, probabilmente, che io percorressi prima altri sentieri. È qui che Derrida e Heidegger hanno giocato la loro parte, ma, allo stesso tempo, anche Lacoue-Labarthe e Bataille: due canali attraverso i quali entravo in contatto con la questione della “letteratura”, ossia, di fatto, della consistenza della questione filosofica. Se infatti non esistono più significati chiari e distinti (“uomo”, “storia”, “dio”), come parla la filosofia?
Tutto questo si agitava in me, e intorno a me, nel 1968…
Ritornando alla “decostruzione”, ricordi quando questo termine è diventato una sorta di metodo (anche se Derrida rifiutava questa idea di una decostruzione come metodo) o, ancor più, di movimento filosofico, prendendo gradualmente il posto dello strutturalismo e – ad esempio in un paese come l’Italia – di una certa egemonia marxista? La mia impressione è che questo sia accaduto con la sua diffusione nelle università americane, probabilmente, dapprima, grazie all’amicizia tra Derrida e de Man e la nascita di quella che prese il nome di Yale School e, in seguito, con la frequentazione sempre più assidua da parte di Derrida delle grandi università statunitensi, soprattutto la University of California di Irvine. A me pare che sia proprio in quegli anni che la decostruzione incomincia a diventare altro da quello che un giovane cattolico francese poteva aver visto sul finire degli anni 60.
Sì, in effetti è a partire da quello che potremmo definire l’evento americano che si è sviluppato un fenomeno che io ho scoperto solo lentamente e che si presentava in modo assai confuso. Innanzi tutto c’è stato un convegno a Baltimora, nel 1966 (questo l’ho saputo solo molti anni dopo). Quello che bisognerebbe essere capaci di fare è mettere in chiaro le ragioni, i motivi e i moventi profondi alla base di questo convegno. Sarebbe, ancora una volta, un compito più adatto a uno storico, un compito che io non sono in grado di portare a termine. Sicuramente vi è stato, nella concezione americana della critica letteraria (nel senso della critica dei testi, della loro analisi e interpretazione), un profondo spostamento. Tale spostamento, che aveva preso avvio con ciò che è stato in seguito riassunto sotto il nome di “new criticism”, ha poi condotto a una convergenza con le innovazioni europee degli anni Sessanta di cui i nomi di Barthes, Lacan, Todorov, Derrida – invitati al convegno – e di Girard e Donato – tra gli organizzatori – possono rendere un’idea.
Un’idea di cosa? È questa la domanda difficile e necessaria. Dietro ciò che è poi stato chiamato “strutturalismo” c’erano il formalismo russo e la scuola semiotica di Mosca e di Tartu, così come il lavoro linguistico di Jakobson (che aveva lavorato con Lévi-Strauss prima di recarsi negli Stati Uniti). E dietro questo insieme complesso c’era – e questo mi sembra importante – uno sforzo per controbilanciare un certo spirito marxista, il lato più semplicistico, più materialistico di quest’ultimo, i cui limiti stavano divenendo manifesti (tanto in URSS quanto altrove). Più che del solo marxismo credo vi sia stata una messa in discussione, in modo più ampio, di una sorta di positivismo dominante, nel quale la certezza del progresso in campo tecnico e sociale tendeva a sostituirsi al pensiero, mentre, nello stesso tempo, i vari fascismi proponevano le loro verbose mitologie. Da una parte troppo poco senso, dall’altra troppo: ecco, forse, da dove derivava il disagio.
Certamente, Husserl e Heidegger, Levinas, Merleau-Ponty, Sartre erano i testimoni filosofici della stessa situazione. Ma la filosofia sembrava avere un proprio regime linguistico, separato e autonomo, mentre la letteratura compenetra il linguaggio di tutti. Credo sia proprio per questa ragione che la critica letteraria si è trovata, in quel momento, in una posizione molto particolare, poiché quel che era in gioco era la possibilità stessa del senso. Bataille, autore singolare che interagisce con tutti gli attori di questa epoca (Sartre, Lacan, Blanchot …) è un eccellente sintomo di un’inquietudine, se non di un’angoscia, nei confronti della possibilità di dire e di pensare l’esistenza.
Non voglio soffermarmi troppo su questo, ma sono sicuro che ci sia stata, nella svolta degli anni Sessanta, una profondissima “crisi del senso” – contraccolpo dei destini incrociati di comunismo e fascismo. Ed è proprio per questo che la mia generazione si sentiva persa, indecisa, fluttuante (a meno di essere trotskisti o maoisti, o anche post-fascisti come ne esistevano già allora). I partecipanti al convegno del 1966 erano i nostri fratelli maggiori e l’America fu il luogo della loro fioritura, se questa espressione ha un senso.
Non fu solamente perché si assistette a una convergenza tra le ricerche europee e quelle americane (convergenza dovuta, molto probabilmente, alla comune appartenenza allo spazio occidentale che doveva, in quel momento storico, sempre più sentirsi come tale, voglio dire allo stesso tempo particolare e in via di mondializzarsi) ma anche perché in Europa la crisi del senso di cui sto parlando si faceva sentire meno (nell’università, nei media, ecc.) proprio perché c’era (è una mia ipotesi) una fiducia ancora non corrotta, almeno in generale, in quello che chiamerei umanismo progressista, di colorazione, se non marxista, quanto meno socialista in senso lato (progressivamente sempre più vago, ma questo non lo percepivamo ancora). Nel contesto europeo, ciò avveniva soprattutto in Francia, probabilmente perché era il paese in cui la tradizione marxista era più vacillante, e anche perché, a partire dagli anni Trenta, i rapporti con il pensiero tedesco avevano mobilitato le menti dei francesi, in un momento storico in cui la Germania stessa dimenticava il proprio pensiero.
Semplificando e riassumendo ben al di là di quanto sia lecito fare, si può dire che nel 1966 si assistette a un evento americano di grande portata, al centro del quale vi fu Derrida, la cui conferenza “La structure, le signe et le jeu” sembra aver avuto un’eco particolarmente potente. Occorrerebbe rileggere quel testo per meglio comprendere le ragioni di questo successo, ma, in ogni caso, è innegabile che a partire da tale evento, e dalla successiva pubblicazione degli atti (in inglese), si sviluppò negli Stati Uniti un fenomenale interesse per ciò che, in un primo momento, fu definito “strutturalismo” e, in seguito, “poststrutturalismo”, quando si comprese che non si trattava di semplici modelli strutturali (ben lungi da ciò!). La parola “decostruzione” ha fatto la sua comparsa in un momento di poco successivo, innanzi tutto nello stesso Derrida in Della grammatologia (1967), per poi essere rapidamente ripresa, sempre da Derrida, in maniera più insistente, ad esempio nella nota di introduzione a “Freud e la scena della scrittura” (in La scrittura e la differenza), sempre nel 1967.
Negli Stati Uniti più rapidamente che in Europa, tale termine è stato in breve tempo adottato come definizione, se non esattamente di un metodo, senz’altro di una particolare attitudine nei confronti dei testi – dalla critica testuale si era, infatti, partiti. Accadde allora che Paul de Man (che forse era presente a Baltimora nel 1966) si trovasse a sviluppare e a insegnare un approccio ai testi che lui stesso, i suoi allievi e poi anche Derrida hanno riconosciuto come in risonanza con ciò che veniva chiamato “decostruzione”. L’ampio seguito di Paul de Man ha contribuito alla diffusione di qualcosa che, nel giro di pochissimi anni, ha assunto i tratti, assai imprecisi, di un metodo che permetteva – per dirla nei termini caricaturali utilizzati da certi oppositori – di far dire a un testo tutto ciò che si voleva. Ancora oggi, negli Stati Uniti, così come in Germania, e sicuramente anche altrove, “decostruzione” è diventato sinonimo di “gioiosa, o grottesca, anarchia interpretativa”.
Son cose che succedono ai migliori… L’aggettivo “categorico” accostato all’imperativo di Kant viene inteso, nella maggior parte dei casi, come “rigoroso”, “imperioso”, mentre il suo significato kantiano si comprende quando lo si mette in rapporto con “ipotetico”, dal quale si distingue. Potrei portare innumerevoli esempi di fraintendimenti di questo tipo. Certo, quando Derrida si è reso conto di ciò che stava succedendo, ha cercato di farsi capire meglio. Ma, se così si può dire, è riuscito a farsi a capire ancora peggio, poiché il suo obiettivo non era tanto definire il senso di “decostruzione”, quanto sottolineare l’impossibilità di attenersi a un senso determinato.
Credo che oggi tutto questo si possa ricomporre in modo più chiaro. Ma una volta fatto il danno, ne restano le tracce. La cosa peggiore è che in francese il termine “decostruzione” è stato banalizzato, assumendo il significato di “demolizione”. Per esempio, su un volantino del Front National ho visto scritto: “Macron decostruisce la Francia”.
Penso che sia andata così perché Derrida ha permesso, senza volerlo, che il termine finisse per incollarsi a lui, ai suoi modi, al suo stile, invece di ricondurlo al punto da cui ha avuto origine, in Heidegger. D’altronde, per concludere, lo stesso Derrida auspicava che si abbandonasse tale termine...
Hai ben ricostruito diversi punti di snodo che, oggi, risultano quasi perduti per i più giovani, per coloro che iniziano a leggere ed interessarsi a quella “cosa” che ha assunto il nome di decostruzione. Ed è ora molto chiaro come la decostruzione si sia affermata e si sia anche perduta nei dipartimenti di letteratura e nel lavorio critico sui grandi e meno grandi testi della letteratura mondiale. Ma, per riprendere la questione da un altro punto di vista e ritornando al concetto gemello (forse siamese) della decostruzione, la “différance”, è per me dell’ordine dell’evidenza come senza la differenza derridiana non sarebbe stato nemmeno lontanamente concepibile quasi tutto il pensiero della differenza che si declinerà nell’arco dei decenni successivi, in una miriade di pensatori e pensatrici molto diversi tra loro, in differenza di genere, differenza etnica, differenza di specie, ecc. e, ovviamente, anche in tutta la retorica del politically correct. Senza la “differenza”, così come emerge in Derrida alla fine degli anni Sessanta, non sarebbe stata concepibile quella radicalizzazione politica del pensiero che ha inciso profondamente sulla struttura stessa delle nostre società. Certo si potrebbe dire che tutto questo secondo filone sia nato da una ibridazione, sempre americana, tra la differenza derridiana e la genealogia archeologica foucaultiana, da una parte, e il pensiero deleuziano, dall’altra. Ma resta che è solo da una radicalizzazione o impoverimento, a seconda dei punti di vista, della “différance” – di questo movimento differenziante all’interno della presenza e per il quale non c’è che differenza – che le rivendicazioni sociali di tutti i pensieri della differenza sono potuti accadere. Cosa ne pensi? Anche in questo caso, “Son cose che succedono ai migliori…” oppure è accaduto esattamente quel che doveva accadere?
Non solo sono d’accordo con te, ma penso che tu abbia individuato un nodo cruciale parlando della differenza come elemento fondante del pensiero, o dei pensieri, della seconda metà del XX secolo, fino a noi. (Ti segnalo, seppur di sfuggita, che ho pubblicato un testo intitolato “Le differenze parallele – Deleuze e Derrida” proprio per cercare di mostrare una prossimità – parallela, non convergente – di due pensieri che hanno avuto modo di scrivere la differenza – “différance” e “differenza/citazione”).
Inizierò con il collegare la differenza alla decostruzione: è sicuramente il modo migliore per distinguere le due parole. Se la decostruzione consiste nel disassemblare, nel distaccare i pezzi di un montaggio o di un sistema, allora risulta subito evidente che essa pone l’accento sullo scarto, la distinzione, la differenza. Possiamo quindi dire che per Heidegger la differenza è capitale (si vede chiaramente nell’ultimo volume pubblicato in tedesco dei Quaderni neri: non finisce mai di parlarne); per lui si tratta della differenza tra l’essere e l’ente/essente (che spesso viene indicata come “differenza ontico-ontologica”). L’essente designa tutto quel che esiste. L’essere designa il fatto di esistere. Evidentemente, non c’è ente senza essere – né essere senza ente. Ma il fatto d’essere – l’atto d’essere, potremmo anche dire utilizzando un linguaggio tomista (già molto tempo fa, Gilson ha messo in relazione Tommaso d’Aquino e Heidegger) – non è a sua volta un ente: non è un ente, nemmeno se concepito come ente “supremo”. La morte del Dio metafisico è totalmente collegata alla Destruktion dell’essere come ente supremo.
Se l’essere non è un ente, non è perché un ente “è” (esiste). L’essere non è. Non si dovrebbe mai utilizzare questo sostantivo ma solo il verbo “essere”. La differenza è dunque quella tra il verbo e il nome. Un verbo non ha un senso sostanziale: il “mangiare” non è qualche cosa (anche se nell’antico francese popolare si diceva “il mangiare” per indicare “il cibo” o “il pasto” [significato, ovviamente, presente nella lingua italiana. NdT]). Un verbo significa un’azione. Qual è l’azione del verbo “essere”? Non è una produzione, né una generazione, né un’attività determinata...
Concludendo, Heidegger ha cercato di dire che l’essere impiega o si serve di – e ha bisogno di – l’ente (questi due significati che sono riuniti nel verbo tedesco brauchen). Dunque, un misto di attività e di passività – ma non voglio soffermarmi troppo a lungo su questo punto, perché ci porterebbe troppo lontano. Volevo solo sottolineare la difficoltà aperta dalla differenza essere/ente. Quel che conta ricordare è che l’“essere” non “è” e non può essere pensato come una esistenza: né “una”, né presente nel mondo o fuori di esso.
Derrida non riprende la questione in questi termini ma si concentra piuttosto sulla relazione-a-sé del soggetto husserliano. È ancora, tuttavia, un modo di rimettere in gioco l’essere poiché anche il soggetto non è qualcosa di presente e con un’unità in sé. Si dà un soggetto solo come relazione o rapporto a sé. Su questo punto, Derrida fa propria una riflessione che deriva da Descartes e da Hegel, passando per Kant, e che è poi ripresa da Nietzsche: la relazione a sé non è la presenza a sé che si suppone esservi in una cosa intesa come una, semplice e omogenea. L’“a” di “a sé” implica uno scarto, una distanza, un battito, un tempo. Per definire tutto ciò, Derrida usa il verbo “differire” che significa “rimandare a dopo” o “ritardare” (in inglese to delay). E, per avere un nome, fabbrica sul participio presente “differente” (différant) la parola “differenza” (différance [in francese la parola differenza andrebbe scritta con la “e”, non con la “a”, ma questa sostituzione non è percepibile ascoltando la parola pronunciata; può essere percepita solo nella scrittura NdT]) che non esiste.
Questo nome indicherebbe la differenza tra l’atto e la sostanza (l’identità, la cosa, il dato, il supposto, il presente). Potrei tradurla così: “io non sono, devo sempre e ogni volta essere o essere stato”. La differenza (différance) nomina questa cosa, ma questa cosa resta – giustamente – innominabile. Ed è per questo che la differenza (différance) “non è né una parola né un concetto”, come ripete senza sosta Derrida.
Allo stesso tempo, la differenza (différance) è, in modo manifesto e pienamente, infinita: né “io” né null’altro si compie come una identità piena. E questa stessa constatazione ci impone di dire che “la differenza (différance) infinita è finita”, come scrive Derrida in La Voce e il fenomeno. La famosa finitudine di Heidegger si espone qui in altro modo: il finito non è la mancanza di infinito ma, al contrario, l’attestazione che la fine (la morte) è un’iscrizione dell’infinito. Nulla si compie, mai: tutto è fuori-misura, se possiamo dire così.
Ecco perché Derrida ha così a lungo discusso della morte con e contro Heidegger. Affermando che la morte è intrecciata alla vita (si veda ad esempio il suo seminario “la vita, la morte”, pubblicato di recente), Derrida scarta, col medesimo gesto, la morte di pura solitudine di Heidegger (e quindi anche la morte di pura comunità guerriera che ne prende il posto in Essere e tempo) e la rappresentazione di un compimento come, talvolta, sembra che nell’opera di Heidegger sia promesso (sotto forma di una dissoluzione dell’ente nel puro zampillare dell’Essere).
Visto che pare che, oggi, sia esattamente la questione della finitudine umana – anche sotto forma di finitudine del genere umano, se non del mondo – che ci ossessiona, credo che per evitare i deliri transumanisti – deliri di compimento – può avere un senso meditare sulla differenza (différance).
Per concludere, dopo questa tua attenta visione retrospettiva sulla decostruzione, ti vorrei porre due domande. A cinquant’anni dalla sua disseminazione nella cultura occidentale e, poi, globale, cos’è diventata, oggi, la decostruzione? E – pur rendendomi conto che non tu non sia la Pizia – qual è il suo avvenire o la sua eredità?
Non sono la Pizia, certo, e d’altronde non esiste una Pizia che faccia previsioni esatte sul futuro. Gli stessi greci, talvolta, chiedevano all’oracolo un secondo responso, nel caso in cui la prima risposta non li avesse soddisfatti. Sapevano che l’avvenire è sempre “a venire”, e dunque sempre imprevedibile. In effetti, non si tratta nemmeno di avvenire, precisamente. Se volessi giocare a fare l’oracolo, potrei affermare per esempio che: “probabilmente tutta la filosofia, così come, fino a oggi, è stata compresa nella tradizione metafisica, finirà per scomparire, cedendo il passo alla riflessione sul ragionevole e sul possibile, sostenuti da dati e calcoli oggettivi...”. Ma potrei ugualmente dire che: “è probabile che si instauri una radicale trasformazione di civiltà paragonabile a quella del cristianesimo / o a quella del capitalismo (il quale ha, in un certo senso, prolungato la precedente), e che è altrettanto probabile che questa trasformazione avvenga sotto forma di “rivelazione” di una inedita sensibilità nei confronti dell’esistenza, della vita…”. Potrei, ancora, cercare di immaginare una serie di combinazioni delle due ipotesi, e questo dovrebbe, ovviamente, contemplare l’esistenza di sopravvivenze, trasmissioni o risorgenze di forme di pensiero del mondo antico (ossia il nostro). In questo momento vi sono persone che immaginano così futuri possibili: appropriandosi di un gesto che da sempre accompagna la nostra civiltà moderna.
Ma nel momento in cui, appunto, questa civiltà si trova in una condizione di difficoltà intrinseca – una condizione di disagio, come diceva Freud – si instaura anche una sorta di diffidenza nei confronti della previsione, della promessa, dell’attesa… Il primo effetto di ciò è questo: dobbiamo comprendere che ciò che verrà è già cominciato e che, in un certo senso, ci precede. Il nostro mondo è già uscito dai cardini. Non può più pensarsi secondo il modello di una Storia progressiva e continua, tanto quanto non può più concepirsi come permanenza immutabile. In entrambi i casi, è il principio che manca – il principio, o la legge, l’unità dell’origine e della fine. Ciò che, dunque, sarà stato decostruito è proprio questo: l’unità dell’origine (e dunque della fine). Vi era, prima, un’unità di natura divina, poi una di natura scientifico-tecnica: ed entrambe erano mal poste.
La grande differenza tra Derrida e Heidegger consiste in questo: Heidegger aderiva ancora a un’unità archi-originaria, e perciò pensava la necessità di un “altro inizio”. Derrida non ha mai condiviso questo pensiero. Al contrario, si è sforzato di mostrare che esso è di fatto in contraddizione con tutta la Destruktion della metafisica in quanto pensiero di un “essere” fondamentale, originale e finale, che si presenta a se stesso. Tutto questo appare evidente nel suo testo Dello spirito.
A questo punto, sono tentato di dire che la decostruzione è già alle nostre spalle. Il mondo moderno è davvero fuori da qualsiasi tipo di riferimento a un’unità di origine-fine. L’esperienza del nostro mondo è quella di un essere errante – nel migliore dei casi – o del panico – nel peggiore. La nostra domanda allora non è più: “qual è la verità? (oppure: da dove veniamo? dove andiamo?), ma piuttosto: “è sufficiente porre la domanda? ogni domanda non pre-determina la propria risposta?” Questo interrogativo, che ha cominciato a prendere forma in Heidegger, ha poi assunto in Derrida un’ampiezza e una forza di gran lunga maggiori (rinvio ancora una volta allo stesso testo, assieme a molti altri, ovviamente).
Una volta Derrida mi ha definito un “post-decostruttore”. Lo ha detto in tono scherzoso, senz’altro, perché conosceva bene la debolezza di ogni denominazione “post…”, ma allo stesso tempo quella definizione conteneva qualcosa di reale, perché lui stesso avrebbe preferito non aver più nulla a che fare con il termine “decostruzione”. Non solo perché era stato trasformato in “metodo” e in “demolizione”, ma perché, in fin dei conti, lo stesso Derrida l’aveva già superato – anche se nemmeno lui sapeva che cosa esattamente questo avrebbe potuto significare.
Oltre la decostruzione, molti hanno aspettato una ricostruzione. Preceduta, per alcuni, da una “decostruzione della decostruzione”. La trappola che ci tende questo termine sta sicuramente nel suo “de” privativo. Perché non si può negare nulla, se non sullo sfondo di una affermazione. Per questo motivo ho proposto di parlare di “struzione”: in latino struo significa ammucchiare, accumulare. Il mucchio è una non-costruzione. Non ha ordine, né principio. Oserei dire – poiché tu hai scritto un libro che si intitola L’Anarca, ma anche ricollegandomi al libro di Rainer Schürmann su Heidegger (Il principio di anarchia) – che esiste un’anarchia che è essenziale, se così si può dire, allo spirito della differenza (différance). E, proprio per questo, né la decostruzione né la differenza (différance) possono ridursi a pseudo-strumenti preconfezionati e pronti all’uso.
Vagare in un paesaggio senza origine né fine non significa essere perduti. Non significa nemmeno trovare un altro fine. Significa altro, ancora, ostinatamente, altro.