Claudio Foschini. Un cuore lacerato

13 Ottobre 2014

Attorno alla metà degli anni sessanta, quando il “miracolo economico”, diffondendosi, stempera i suoi effetti più dirompenti, si moltiplica un nuovo ceppo d’uomo: il pirata urbano. Claudio Foschini è un pirata urbano, e la città di Roma è il teatro delle sue scorribande. Claudio percorre la città, dalle periferie verso il centro, come frastornato, stordito, ma con furia, spinto da un sogno di possesso che determinerà la sua rovina.

 

È ladro e rapinatore. Passerà in galera buona parte della sua vita, a partire dal carcere minorile di Porta Portese, dove entra nel 1965, a 16 anni. Solo il primo passo, negli anni successivi Regina Coeli, Rebibbia, Montefiascone, Avezzano, Rieti, Pescara, Palermo, il Paese visto dal lato delle sue carceri, nel momento in cui anche le carceri e i suoi abitanti chiedono trasformazioni..

Ma andiamo agli inizi. 1949, Claudio nasce al Mandrione, che diventerà, anni più tardi, uno dei luoghi d’elezione della geografia pasoliniana. Ề una distesa di misere baracche, legni di scarto e lamiera, e un po’ di muratura a sostegno, incastonate negli archi dell’Acquedotto Felice, e affastellate l’una accanto all’altra, ammassate per scongiurare la loro fragilità costitutiva, un po’ come nei castelli fatti con le carte.

 

Sembra un paradosso, ma all’Acquedotto Felice, che riforniva d’acqua l’antica Roma, non c’è acqua, non ci sono fogne né strade. Non c’è nulla, se non un’umanità abbandonata che fa fatica a riconoscersi nella città che ha attorno. Sono pochi i chilometri che dividono il Mandrione dalle prime avvisaglie del centro storico, Porta San Giovanni e le mura aureliane, ma è un mondo a parte, una specie di “Africa in casa”, un “buco nero” nella mappa della città. E così resterà, immobile per oltre vent’anni. Poi le baracche di Roma saliranno al rango di problema sociale, e cominceranno a essere rimosse a partire dagli anni settanta.

Claudio Foschini nasce dunque nel piccolo inferno del Mandrione. E nasce male: la madre, che pure lo amerà profondamente seguendolo in tutte le sue avversità, non vuole un altro figlio, vuole abortire, e per farlo usa quello che ha, infilandosi i ferri da calza nell’utero. Non riuscirà nell’intento, ma il piccolo Claudio vagherà nel buio per qualche anno (i ferri gli hanno infilzato il nervo ottico). La sorella Flora si prende il compito di raccontargli il mondo che lui non è in grado di vedere.

 

La famiglia resta numerosa, come la gran parte delle famiglie in baracca. Il padre vende “L’Unità” alla Stazione Termini, poi si allargherà a “Paese Sera”; la madre, donna importante nella vita di Claudio, dopo il rudimentale tentativo di aborto, si arrangia come può, assecondando il ritmo dei bisogni familiari. Quando premono oltre misura, e accade spesso, si fa un giro sul 64, il bus che porta per lo più turisti da Termini a San Pietro. Sul 64, fa la “scarpara”, vale a dire la ladra specializzata in portafogli, ed è abile, veloce, leggera di mano. Viene sorpresa ben poche volte. E, a parte la sua attività sul 64, ha una sua nervatura morale. È probabilmente convinta che sia legittimo togliere a chi ha, soprattutto per sfamare i bambini che l’aspettano. Qualche atomo di questo comunismo spicciolo si deve essere trasferito anche al figlio Claudio, e forse le prime scorribande, i primi furti d’appartamento fatti con un cacciavite, hanno questa vaga ispirazione sociale. Claudio la chiama “rabbia”, o “insofferenza”. “Erano gli anni del boom economico – scrive – gli anni in cui cominciava ad aleggiare l’insofferenza di tutto”.

 

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Ma la “rabbia” o l’“insofferenza” che alimentano i raptus della sua pirateria, hanno, credo, un diverso presupposto, ed è un sogno: possedere ciò che gli altri, quelli del “centro”, hanno in abbondanza per naturale collocazione sociale. Lui invece sta al Mandrione, alla periferia di tutti i desideri e di tutti i sogni. Sta nel “buco nero” di Roma. Ma sa, o pensa di sapere come uscirne, e prendersi un po’ di quell’abbondanza che, dagli anni del boom, sta investendo, come un fiume in piena, la società italiana. Ne vede sfrecciare spudoratamente qualche sua parte sul lungo nastro dell’autostrada, che per Claudio è una luccicante passerella. E l’autogrill è il tempio che la celebra. Ci vanno spesso lui e i suoi amici. Sulla Roma-Napoli. Pare una gita, in realtà è un rito propiziatorio.

 

Fin dall’adolescenza, Claudio sogna macchine di lusso (la Lamborghini è il suo mito), ci muore dietro. Sogna anche donne avvenenti e locali notturni dove passare l’intera notte fino all’alba, l’intera vita. Sogna denaro, ma quello che si vede, si tocca, non quello ben disposto nel portafoglio, ma a mazzette che gli gonfiano i pantaloni, e, all’occorrenza, esibisce agli amici. Il denaro è potenza. E anche la droga lo è, prima le anfetamine, poi la cocaina, sogno nel sogno, poi l’eroina, infine la loro somma, una dentro l’altra, e quasi in lotta fra di loro per contendersi il suo cervello, che sembra liquefarsi sotto gli effetti della loro azione combinata. Claudio percorre tutta la scala del consumo, vede “i primi morti per overdose”, assiste alla devastazione di un’intera generazione, ed è la sua stessa devastazione: “ormai la mia vita era regolata dalla droga”. Negli anni settanta gli serve un milione ogni tre giorni per potersela procurare, poi la posta aumenta: due milioni al giorno. Può soltanto rubare. Di continuo, fino all’inevitabile epilogo: il ritorno in carcere.

 

Ma non è più la scorribanda del pirata urbano, è una coercizione, “lavori forzati” in regime di libertà, interrotti soltanto dai soggiorni in carcere quasi liberatori: “Io questa vita l’ho cominciata quasi per gioco con l’illusione di migliorarla invece eccomi qui nella disperazione più assoluta”. Il sogno ha preso ormai i tratti dell’incubo.

Nella vita arresa di Claudio Foschini, ormai giunto ai quarant’anni, si affacciano altrui due sogni. Il primo è Antigone, portata in scena dal gruppo teatrale del carcere di Rebibbia. Il tempo della reclusione, che è un tempo vuoto, trova un suo punto di tensione, ed è come se la vita di Claudio disegnasse una curva non prevista. “Cominciava il riscatto della mia vita”, scrive.

 

C’è un altro sogno: nell’arco di sette mesi, dal dicembre del ‘90 al luglio del ’91, Claudio Foschini riempie 11 taccuini di carta quadrettata, oltre 500 pagine. Per sette mesi se ne sta in disparte per scrivere, e in cella non è facile. Nicola Valentino, detenuto politico suo compagno, osserva che “scrivendo il recluso conosce uno spazio e un tempo tutto per sé”. Claudio lo usa per raccontare la sua vita. Non è semplicemente la sua vita, è tutto quello che si è mosso con lui, tutto quello che ha visto e vissuto: i furti e le rapine, l’amicizia, l’amore, i carceri e le rivolte, la lotta con la droga.

 

Colpisce l’abbondanza di particolari con cui descrive un furto o una rapina, le sue circostanze, gli strumenti che usa, le armi, le macchine, il teatro dell’azione, fino alla spartizione del bottino, e a come poi lo userà. Perché quell’accumulo di particolari? Certo, per dare realtà a quello che racconta. Ma non solo per questo. La sua è una confessione assoluta, come non ha mai fatto quando la confessione gli è stata chiesta, magari sotto la pressione di un pestaggio. Ora, invece, vuole rimettersi davanti agli occhi tutto, ripresentare tutto. Solo così forse sente di poter emendare la sua “malavita”. Ma anche questo è solo un sogno. Claudio Foschini verrà ucciso, nel maggio del 2010, durante la rapina in una tabaccheria, appena fuori Roma. Di lui ci restano gli undici taccuini di carta quadrettata, il cuore lacerato della sua vita, il fumo dei suoi sogni.

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