Il mistero del mondo è ciò che si vede / Colore e luce
«Il vero mistero del mondo è ciò che si vede e non l’invisibile»: con questa citazione di Oscar Wilde Andrea Frova introduce un paragrafo introduttivo del suo nuovo libro Luce. Una storia da Pitagora a oggi (Carocci, Roma 2017); è dunque chiaro l'approccio scientifico dell'autore, che ritorna in questo libro sui temi trattati nel precedente Luce colore visione (Rizzoli, Milano 2000) aggiornando alcuni elementi dell'analisi scientifica e tecnica e con un nuovo taglio storico.
L'interesse del testo consiste in primo luogo nel suo carattere divulgativo, nella capacità di spiegare a un pubblico non specialistico l'evolversi delle teorie che hanno per oggetto la luce e i colori, nonché alcune importanti applicazioni tecniche: contiene una storia delle forme di illuminazione, un capitolo su LASER e LED e uno sull'utilizzo della luce nell'esplorazione del cosmo.
Frova prende avvio dai miti e dai culti del sole delle antiche religioni, esamina le varie tesi sui raggi luminosi e sui raggi visuali dell'ottica greca ed ellenistica, i progressi dell'ottica araba medievale, le ricerche di Leonardo, Keplero e Cartesio, i quali avviano e realizzano il paradigma meccanicistico che distingue percezione soggettiva del colore e della forma dal fenomeno fisico della luce. L'autore segue poi l'alternarsi delle teorie ondulatoria e corpuscolare della luce dal Seicento al Novecento, da Robert Hooke a Newton (che sembra sostenere fino alla fine, per orgoglio, la natura corpuscolare della luce, pur rendendosi conto di alcuni fenomeni che richiedono l'ipotesi ondulatoria), da Thomas Young a Maxwell fino a Einstein e alla meccanica quantistica che ricompone in una nuova sintesi le due concezioni senza bisogno di supporre l'esistenza dell'etere e la velocità istantanea della luce.
Per quanto riguarda il colore Frova presenta come centrale nella storia della scienza del colore l'esperimento di Newton che – come è noto – fece passare un raggio di luce attraverso un prisma e lo proiettò su uno schermo a una distanza di oltre 7 metri. La sua conclusione rivoluzionaria fu che la luce solare è costituita da raggi diversamente rifrangibili: «La rifrazione, anziché alterare o confondere la purezza della luce, era allora un meccanismo che ne separava le diverse componenti cromatiche, rendendole visibili individualmente. Svelava i colori celati nella luce bianca, non li creava» (p. 97).
La spiegazione della natura fisica del colore viene integrata dalla fisiologia dell'occhio che prende avvio all'inizio dell'Ottocento con la teoria tricromatica di Thomas Young, poi ripresa da Hermann von Helmholtz e perfezionata con la descrizione della sintesi additiva delle luci (rossa, verde, blu) e della sintesi sottrattiva dei filtri colorati (magenta, giallo e ciano). Frova la presenta integrandola con le spiegazioni novecentesche sul funzionamento dei neuroni presenti nella retina e accennando alle complesse teorie sul ruolo delle cellule cerebrali. Prosegue poi trattando l'elettromagnetismo, la struttura dell'atomo, la sprettoscopia e la scoperta dei quanti.
Limitando le osservazioni al tema del colore, vorrei soffermarmi su alcuni problemi, su alcuni passaggi che mi paiono ancora irrisolti e che costituiscono da sempre gli enigmi del colore. Il primo riguarda l'affermazione, apparentemente paradossale, che i colori nascano dall'opposizione di bianco e nero, di luce e oscurità: si tratta della teoria di Aristotele, riproposta da Goethe e citata anche da Wittgenstein nella ricerca di una grammatica e di una logica del colore.
Frova ci spiega che per il filosofo peripatetico la luce non ha consistenza materiale; in assenza di una sorgente luminosa – sole o fuoco – lo stato del mezzo corrisponde all'oscurità; quando interviene la sorgente luminosa lo stato del mezzo diventa trasparente e gli oggetti diventano visibili; la luce è quindi la trasparenza in atto – il diafano in quanto diafano, come lo definisce Aristotele nel De anima indicando con questo termine un attributo naturale dell'acqua, dell'aria e dell'etere (418 b). La luce è quindi atto del diafano senza determinati limiti, il colore atto del diafano in un limite, in un corpo. Il diafano, aggiunge Aristotele nel De sensu, si trova in misura diversa in tutti i corpi e li fa partecipi del colore. Luce e buio producono nei corpi il bianco e il nero e dal bianco e dal nero si producono gli altri colori secondo una proporzione numerica e i colori espressi con numeri semplici risultano come i colori fondamentali.
Per l'immaterialità della luce Frova è disposto a giustificare l'opinione di Aristotele e lo conferma con un esperimento: se ci ponessimo in una stanza perfettamente nera, con le pareti dipinte di un nero opaco, tale da non riflettere alcunché, e con un'apertura alle nostre spalle, attraverso la quale entra un fascio di luce, non vedremmo assolutamente nulla, non vedremmo la luce. Solo in condizioni particolari, alla presenza di fumo o di pulviscolo nel tragitto del fascio luminoso, riusciremmo a "materializzare" il raggio di luce. È perciò ragionevole – conclude il nostro autore – che gli antichi non potessero congetturare una realtà fisica per la luce.
Quanto ai colori invece Frova non riesce ad accettare che essi possano scaturire dall'opposizione di bianco e nero. Su questo punto è però necessario introdurre alcune cautele: prima di tutto non si tratta qui di mescolanza di pigmenti, per la quale da bianco e nero si producono ovviamente solo le diverse sfumature del grigio. Sarà poi necessario affidarsi ai filologi che hanno chiarito la non coincidenza del campo semantico dei termini greci leukós / mélas e dei vocaboli bianco / nero, per la vicinanza e, talora, la sovrapposizione di chiaro / scuro, il che rivela una maggiore sensibilità dei greci – come di altri popoli antichi – alle variazioni di luminosità piuttosto che alle differenze cromatiche. Si può anche aggiungere che il bianco, connesso con la luce, in certi contesti può riassumere tutti i colori ed esemplificare il concetto stesso di colore; l'opposto vale per il nero.
Il nero, a sua volta, può essere mancanza di luce, ombra e colore di un corpo. Bianco e nero costituiscono quindi nella classificazione aristotelica gli estremi e i colori intermedi vengono collocati «in modo scalare, nel senso di un progressivo scurirsi» (cfr. il commento di Fernanda Ferrini in Pseudo Aristotele, I colori, ETS, Pisa 1999, p. 127). Per poter comprendere i testi degli antichi sul colore sembra quindi necessario partire dal fatto che per i greci i colori sono sempre colori di qualche cosa, come indica del resto la parola chróma, che significa pelle, colorito della pelle, carnagione e quindi il colore in genere (ivi, p. 142): il colore come la pelle delle cose.
Un secondo problema, che già Frova aveva accennato nel libro precedente, riguarda il modello di Young-Helmholtz e la sua capacità di dare una spiegazione a tutti i fenomeni dell'ottica fisiologica. Si tratta di un argomento molto complesso, ma che già è stato affrontato dallo studioso americano Edwin Land, l'inventore dei filtri polaroid. Il suo famoso esperimento parte da due diapositive in bianco e nero usate per fotografare, una con un filtro rosso, l'altra con un filtro verde, un oggetto variamente colorato. La proiezione su uno schermo delle due diapositive tramite due proiettori diversi, uno dei quali con il filtro rosso usato precedentemente, dà – a sorpresa – tutti i colori dell'oggetto fotografato. Frova non torna qui sull'argomento, forse per la difficoltà di divulgazione dei risultati dell'analisi dei meccanismi cerebrali; tralascia anche la trattazione della colorimetria, un campo che – a sua volta – apre un'altra serie di problemi sintetizzati dallo studioso del colore Narciso Silvestrini nell'affermazione dell'impossibilità di catturare le infinite sfumature del colore con modelli geometrici euclidei.
Ritorna infine nel libro anche l'interesse dello studioso di fisica per la pittura e non solo per presentare l'utilizzo della luce nell'analisi diagnostica dei dipinti, ma anche per indagare la funzione della luce e del colore nei pittori che ne hanno fatto principale oggetto della loro ricerca estetica, a partire dall'artista e teorico giapponese Akiyoshi Kitaoka (1961–) che lavora proprio sulle illusioni ottiche.
figura 2. Akiyoshi Kitaoka, Rotsnake (http://www.ritsumei.ac.jp/~akitaoka/index-e.html)