Come insegnare filosofia oggi
In un articolo appena apparso (“A proposito di recenti istruzioni per allevare filosofi”, Giornale critico della filosofia italiana 103 (2024), pp. 38-62), Luca Bianchi critica severamente il recente libro di Massimo Mugnai, Come NON insegnare la filosofia (Milano: Cortina, 2023), che ha avuto il merito di riportare in auge un dibattito che sembrava ormai sopito sul modo di insegnare la filosofia alle scuole superiori. Come è noto, in questo dibattito si confrontano il modo storico e il modo per temi e problemi. Il primo è in vigore dalla famosa riforma Gentile che a partire dal 1923 cambiò radicalmente il modo di impartire la materia; privilegia la narrazione storica della filosofia, almeno occidentale, dalle sue origini greche ai giorni nostri. Il secondo privilegia posizioni filosofiche da vagliare attraverso la discussione e l’argomentazione a favore o contro.
La critica di Bianchi a Mugnai è impietosa. Per Bianchi, il libro di Mugnai non si basa su un’accurata ricostruzione dei dati sullo stato dell’insegnamento della filosofia a scuola (compresa un’analisi sistematica dei manuali di filosofia), né va troppo per il sottile sulla qualità e il metodo dei docenti di filosofia, soprattutto quelli universitari e di impostazione storica che dovrebbero in qualche modo dettare l’odierno canone da seguire a scuola; privilegia impressioni in buona parte soggettive e a volte aneddotiche; non arriva ad individuare una proposta alternativa valida e credibile. Critiche comprensibili, che hanno dalla loro parte un’attenta documentazione, come ci si può ben aspettare da Bianchi, che è uno storico della filosofia sopraffino.
Tuttavia, alla pars destruens dell’articolo non sembra corrispondere un’adeguata pars construens. In primo luogo, per sottolineare la difficoltà di formulare una proposta in merito, Bianchi si rifugia nella vaghezza stessa dell’idea di filosofia, per cui i suoi stessi difensori non sono d’accordo su che cosa costituisca esattamente la filosofia (p. 54). Ora, è vero che un tema di discussione della filosofia, che forse la distingue da altre discipline più canoniche come quelle rappresentate dalle cosiddette scienze dure (biologia, chimica, fisica …), è proprio la questione di che cos’è la filosofia, che vede i suoi autori difendere differenti concezioni della filosofia stessa. Peraltro, Bianchi sembra trascurare il fatto che il modo storico di insegnare oggi la filosofia a scuola dipende da una particolare concezione della filosofia di stampo hegeliano e crociano, secondo cui la filosofia coincide con la storia della filosofia. Tesi interessante, ma sicuramente discutibile: è la filosofia simile alla Recherche di Proust, che si conclude con l’intenzione di scrivere un libro (come la Recherche)? Sarà pure vero, come dice Bianchi contro Mugnai (p. 39), che oggigiorno pochi storici della filosofia si riconoscono nel cosiddetto approccio storicista di matrice hegelian-crociana, secondo cui la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. Tuttavia, se si insegna filosofia a scuola così come la si insegna, è per avere compreso così la filosofia, non dico con arbitrarietà, ma certo con parzialità.
In secondo luogo, Bianchi si domanda se non sia proprio anche il metodo storico a portare molti giovani ad iscriversi a Filosofia all’università (p. 41). Nonostante il suo invito a basare le affermazioni su dati concreti, Bianchi non sembra riportare evidenze in merito. Se fosse così, sarebbe curioso. Se dovessi guardare impressionisticamente alla mia vicenda personale, direi che non è stata proprio la storia della filosofia, insegnatami male da una baraonda di docenti succedutisi confusamente gli uni agli altri nei favolosi anni ’70 (su cui avrei anch’io la mia vagonata di aneddoti), a portarmi a riflettere di filosofia. Ma uscendo dal mio inaffidabile spazio soggettivo, che dire dei giovani che affollano i vari festival di filosofia presenti ovunque sul territorio nazionale? Non sembrano costoro affascinati dalle questioni filosofiche come tali, chiunque le ponga? In terzo luogo, Bianchi si limita a chiedere che la storia della filosofia continui ad essere presente nell’insegnamento delle superiori (p. 61), sostanzialmente sulla base di un’analogia con altre discipline umanistiche che sono anch’esse insegnate storicamente (p. 58), senza però chiedersi se tale analogia regga.
Perché tale analogia potesse reggere, bisognerebbe che anche la filosofia, come la letteratura, la musica e le arti in generale, non si proponesse come suo fine di raggiungere la verità sui temi che affronta. Su questo punto Bianchi è piuttosto elusivo, limitandosi a dire che piegare l’insegnamento della filosofia alla ricerca della verità sarebbe un “progetto un tantino ambizioso” (p. 59), senza vedere così che la ragione, da lui apparentemente non condivisa (p. 60), per cui molti trovano il fritto misto della storia della filosofia indigeribile è che, a differenza dei veri fritti misti in cui la distinzione tra i vari elementi del fritto – alici, triglie e calamari, per restare all’esempio che fa Bianchi (p.60) – si fa sulla base del gusto, in filosofia la differenza tra Aristotele, Platone e Carneade-chi-era-costui non dovrebbe limitarsi a questo.
Il punto è in realtà fondamentale (su esso insiste molto anche l’altro libro appena uscito sugli stessi problemi e con lo stesso approccio di quello di Mugnai, Filosofia e storia di Marco Santambrogio (La nave di Teseo, 2024), ottimamente recensito da Riccardo Manzotti qui). Se la filosofia non fosse ricerca della verità, non ci sarebbe alcuna differenza tra il fare filosofia e la pratica del contrasto nel canto toscano in ottava rima, in cui due poeti si sfidano pro e contro un determinato tema (p.es., è più intelligente la donna dell’omo?) semplicemente per far meglio emergere le loro capacità di cogliere rime e assonanze entro un lessico il più vasto possibile.
Siamo così costretti a vedere ancora, anche sul tema dell’insegnamento della filosofia a scuola, filosofi e storici della filosofia abbarbicati sulle rispettive posizioni, come notoriamente avvenne ai tempi di Gianni Vattimo e Carlo Augusto Viano a proposito di pensiero debole? L’alternativa in realtà c’è ed è anche abbastanza semplice.
Lasciamo pure da parte il fatto, pure importante, che la conoscenza del contesto storico è importante per sapere come i filosofi del passato intendevano i termini che usavano, e che questa conoscenza impatti sulla definizione di un tema filosofico e dei problemi ad esso legati. A poco certamente servirà discutere di che ruolo hanno le idee se non si ricorderà che Platone, Locke e Kant intendevano cose diverse per “idea”. Questo darebbe infatti alla storia della filosofia solo un ruolo ancillare e preliminare: in qualunque discussione, filosofica o meno, per non parlarsi addosso, bisogna intendersi sul significato dei termini che si usano.
Piuttosto, andrà riconosciuto che, se si vuole discutere problematicamente di un tema in maniera soddisfacente, come richiede per l’appunto il metodo non storico, andrà però saputo che cosa su quel tema si è già detto. Questo non solo per la banale ragione che non abbiamo bisogno di reinventare la ruota, come ricorda lo stesso Bianchi riecheggiando Tim Williamson (p.42), ma anche e soprattutto perché la considerazione di ragioni a favore e contro una posizione sul tema in questione spesso e volentieri ricapitolerà cosa si è storicamente detto su quella posizione, dalla cui disamina bisogna ripartire per potere poi sofisticare ulteriormente quella stessa posizione.
Se voglio discutere del rapporto mente-corpo, non potrò non muovere da Cartesio, dai problemi che lui ha incontrato nel difendere il suo dualismo e da come i suoi stessi contemporanei – Malebranche, Spinoza, Leibniz – hanno cercato di risolverli; di modo tale che, se oggi volessi essere nuovamente dualista su mente e corpo, non potrò che ripartire da dove si è già arrivati in tale dibattito per articolare quel dualismo meglio. Quindi insegnare sì per temi e problemi, ma muovendo da ciò che su quei temi e problemi i filosofi nella storia hanno già sostenuto. Anche perché magari la storia della filosofia ci permette di riscoprire posizioni finora trascurate ma che servono a riempire un luogo finora non occupato nello spazio logico su un determinato tema e quindi possono servire a perlustrarlo meglio. A chi scrive, per esempio, piace ricordare che il cosiddetto Wittgenstein intermedio – che ha operato non nella Mileto del VI sec. a.C., ma appena ieri, negli anni ’30 del secolo scorso tra Cambridge e Vienna – ha difeso una posizione poco nota sul tema dell’intenzionalità – il potere che noi umani (e qualche altro essere da noi non lontano nella scala evolutiva, magari anche computers) abbiamo di pensare a qualcosa indipendentemente dalla sua esistenza o sussistenza – che può però servire a comprendere, risolvere, o forse addirittura dissolvere una serie di problemi che tale tema, che affascina i filosofi sin da Platone, pone. Prima di tutto, come si può riuscire a pensare a una cosa e non a un’altra, a Kamala Harris invece che a Donald Trump o persino a Donald Duck, se tale cosa è indipendente dall’attività stessa di pensarla?
In conclusione, Bianchi ha forse mancato un’occasione per portare un contributo a un problema – come insegnare la filosofia a scuola – che, proprio perché anche lui non si dichiara storicista, interessa tutti coloro che hanno a cuore la sopravvivenza della filosofia nella scuola superiore, così fondamentale per l’educazione di un’umanità colta e fiore all’occhiello dell’Italia rispetto ad altri Paesi, ma che corre il rischio di venire meno, se insegnata in un modo che non corrisponde più alle attuali esigenze formative.
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