Fra Songbook e dischi a tema / Ella Fitzgerald e Frank Sinatra: night and day
Settant’anni fa, nel settembre del 1950, Ella Fitzgerald incideva il suo primo album, Ella sings Gershwin, un disco in formato 10 pollici – 25 centimetri di diametro – di sole otto tracce, quattro per lato, tutte composte da George Gershwin. Durata complessiva: venticinque minuti e sedici secondi. Il disco fu prodotto da Milt Gabler e registrato a New York in due sedute, l’11 e il 12 di settembre. Vi figuravano dei classici come Someone to watch over me, How long has this been going on e But not for me, ma anche delle canzoni meno battute come Maybe o Soon.
Due anni prima, il 18 giugno del 1948, la CBS (Columbia Broadcasting System) aveva presentato nelle sale del Waldorf Astoria di New York un nuovo formato di disco in vinile a microsolco, il cosiddetto Long Playing o Long Play, un formato che avrebbe presto soppiantato il 78 giri in gommalacca. Ella Fitzgerald nel 1950 era già una veterana della canzone e aveva alle spalle svariate incisioni con Teddy Wilson, Benny Goodman, Chick Webb, gli Ink Spots, Louis Armstrong e Louis Jordan. Poco più che trentenne, aveva già attraversato l’era dello swing e quella del be-bop, dimostrando da un lato di saper tenere testa al ritmo delle grandi orchestre, dall’altro di poter dominare il fraseggio scattante e nervoso dei musicisti che avrebbero rivoluzionato il jazz con il be-bop.
Nel 1950 Milt Gabler decise ch’era tempo di far incidere a Ella Fitzgerald un primo disco in formato Long Playing su vinile. Ella era una delle artiste di punta della casa discografica Decca, e Gabler pensò di coinvolgere nell’impresa un giovane pianista originario del Maryland, Ellis Larkins, il quale, dopo aver frequentato il prestigioso Peabody Institute di Baltimora e la non meno prestigiosa Julliard School di New York, s’era fatto un nome suonando a fianco della cantante Mildred Bailey e del sassofonista Coleman Hawkins. Gabler chiese a Larkins di suggerirgli dei musicisti da coinvolgere nel progetto, ma Larkins a sorpresa e con non poco fegato gli disse che voleva incidere un disco a due, lui e Ella, voce e pianoforte, nulla più, e d’accordo con Gabler decise che si sarebbero concentrati su un repertorio di canzoni di George Gershwin.
Il primo album di Ella Fitzgerald prese dunque la forma di un recital. Ellis Larkins era un pianista che prediligeva l’intimità dei piccoli club. Musicista di tocco e gusto raffinato, fu accompagnatore ideale di molte cantanti dopo Ella – Eartha Kitt, Chris Connor, Beverly Kenney – e divenne uno dei punti di riferimento della scena notturna di Manhattan fra gli anni ’50 e ’60, esibendosi in alcuni dei più importanti club di New York: il Blue Angel, il Café Society, il Gregory’s e il Village Vanguard. Oggi la cosa non sarebbe pensabile, ma allora un musicista emergente aveva facoltà di imporre la propria idea a un produttore navigato e influente come Milt Gabler, determinando nel contempo un importante passo nella carriera di un’artista di punta come Ella Fitzgerald, sottraendola alla dimensione da grande o piccola orchestra, swing o be-bop che fosse, per provare a disegnarle un profilo più discreto, a sondarne una profondità interpretativa che mirasse altrove.
Ellis Larkins fu buon profeta. Quel primo album di Ella Fitzgerald non soltanto ha resistito alla prova del tempo, ma segnò un passaggio fondamentale nella carriera della cantante. La voce di Ella vi appare già matura, con quella maestosità che si sarebbe imposta sul timbro più sbarazzino delle prime registrazioni (A-Tisket, A-Tasket, il suo primo successo), e che l’avrebbe presto trasformata nella grande signora della canzone americana (The First Lady of Song). Sicura di sé, perfettamente a suo agio col repertorio, libera dalla tentazione del virtuosismo, consapevole che le canzoni di Gershwin necessitavano solo di essere condotte, non enfatizzate o appesantite da ulteriore carico emotivo, la naturalezza e la perentorietà di uno swing implicitamente presente anche nei tempi lenti, un fraseggio e una dizione impeccabili. La scelta di presentare un intero disco dedicato a George Gershwin conferma oggi, a tanti anni di distanza, la felice intuizione di Larkins riguardo a Ella: nessuno meglio di lei avrebbe potuto farsi carico di canonizzare la canzone americana. La cosa si sarebbe poi esplicitata con il monumentale progetto intrapreso dal produttore Norman Granz quando Ella si trasferì in casa Verve, la serie dei songbook registrati fra il 1956 e il 1964 e dedicati, nell’ordine, a Cole Porter, Richard Rodgers, Duke Ellington, Irving Berlin, allo stesso George Gershwin, ad Harold Arlen, Jerome Kern e a Johnny Mercer. Dischi che hanno segnato la storia dell’interpretazione jazz e hanno traghettato la canzone americana ben oltre il jazz, in una dimensione di classicità a suo modo definitiva (Ira Gerhswin, il fratello paroliere di George, sostenne di aver infine colto il valore di quelle canzoni solo dopo averle sentite cantare da Ella Fitzgerald).
Difficile dire quale sarebbe stato il destino della canzone americana senza l’avvento del formato Long Playing. La possibilità di registrare un intero disco a tema – le canzoni di Gershwin per Ella; quelle di Richard Rodgers e Lorenz Hart per Margaret Whiting qualche anno prima, un disco con gli arrangiamenti orchestrali di Frank DeVol che fu poi ristampato in formato 10 pollici sempre nel 1950 – offrì d’un tratto a una generazione di musicisti e di cantanti nuovi sbocchi interpretativi, fra cui l’opportunità di richiamare, pur nel rispetto del formato canzone, il portato e gli intendimenti dei lieder della tradizione romantica. Una cosa grossa insomma. Quel primo album di Ella Fitzgerald aveva questa precisa ambizione: prendere delle canzoni nate in ambito di teatro musicale leggero (il musical), e trasformarle in opere d’arte. Il formato Long Playing giocò in questo un ruolo decisivo. Esibirsi in un recital dal vivo era certo possibile anche in ambito di musica jazz, ma la possibilità di registrare un disco che avesse facoltà di profilare il jazz in quanto musica d’arte, significava affrancarlo infine dalla dimensione di mero intrattenimento. Per farlo fu necessario mettere in campo due interpreti di peso: un pianista formatosi nel solco della tradizione colta occidentale, e una cantante che aveva non solo un talento fuori del comune, ma anche la capacità di coprire una vastissima gamma espressiva in ambito di interpretazione vocale.
Tutti i più importanti cantanti del periodo si provarono al nuovo formato. Oltre a Ella Fitzgerald e a Margaret Whiting è opportuno menzionare almeno Nat King Cole (Nat King Cole at the Piano, 1950 – in verità una riedizione di un disco pubblicato l’anno prima in formato 78 giri – cui seguì Nat King Cole for Kids, 1951), Louis Armstrong (Satchmo at Symphony Hall, 1951), Billie Holiday (Billie Holiday Sings, 1952) e ovviamente Frank Sinatra, il quale si prese un po’ più di tempo, ma poi piazzò tre dischi in sequenza sotto la supervisione di un mago dell’orchestrazione come Nelson Riddle: Songs for Young Lovers (1954), Swing Easy! (1954), e soprattutto In the Wee Small Hours (1955). Se Ella in quel suo primo album aveva presentato le canzoni di George Gershwin alla stregua di un ciclo di lieder, Sinatra provò a precisare meglio l’intuizione già espressa in The Voice of Frank Sinatra qualche anno prima, la volontà cioè di caratterizzare un singolo disco con un tema scelto ad hoc.
Il tema di In the Wee Small Hours era, grosso modo, quello della rottura o della disillusione sentimentale fotografati a notte fonda (per meglio dire nelle ore piccole, o minuscole, in ossequio al titolo del disco). Un quadro di Edward Hopper messo in musica (quel quadro di Edward Hopper messo in musica; la copertina del disco e il look di Sinatra di quegli anni lo profilavano del resto come un plausibile modello di Hopper, e quella copertina di Sinatra avrebbe poi ispirato, un ventennio più tardi, quella di The Heart of Saturday Night di un altro cultore della disillusione sentimentale da ore piccole come Tom Waits). Rispetto al disco di Ella questo di Frank si presentava in formato 12 pollici (30 centimetri di diametro), e constava di ben sedici canzoni, otto per lato, per una durata complessiva di quarantotto minuti e quarantun secondi.
Col suo tono tormentato e notturno, In the Wee Small Hours non si proponeva soltanto come una collezione di canzoni “a tema”, ma come un’opera in cui un interprete, attraverso una precisa scelta di repertorio, metteva in scena un’impasse d’ordine personale (problemi di salute, difficoltà finanziarie, un declino artistico che si annunciava imminente, il matrimonio in crisi, la fine della storia d’amore con Ava Gardner: gli anni ’50 per Sinatra erano cominciati nel peggiore dei modi). Un’intenzione ulteriore rispetto al disco in forma di recital presentato da Ella Fitzgerald appena cinque anni prima ma anche rispetto ai precedenti dischi a tema dello stesso Sinatra. Fu un passo cruciale per Frank, il quale su quel disco per la prima volta osò far coincidere in modo esplicito l’uomo e l’interprete, sovrapponendo il suo vissuto alla vaghezza programmatica di una raccolta di standard, una scelta che si rivelò azzeccata e che non solo ne avrebbe rilanciato il profilo di interprete, ma l’avrebbe incoronato monarca assoluto della canzone americana, uno statuto che soltanto Elvis Presley – the King – sarebbe stato in grado di contendergli di lì a poco.
Il disco a tema divenne presto un terreno di conquista e di rivendicazione per numerosi musicisti e cantanti d’area jazz. Si pensi soltanto, pur se in ambito strumentale, ai dischi di Miles Davis con Gil Evans di metà-fine anni ’50 o, per altri versi, a tutta la stagione Blue Note degli anni ’50 e ‘60. Il formato Long Playing consentì, dapprima agli interpreti di jazz ma poi anche ai protagonisti del rock degli anni ’60 e ‘70, di aggiungere una nuova dimensione al loro lavoro. La maggior durata permetteva di dilatare i tempi offrendo la possibilità di guidare l’ascoltatore attraverso un vero e proprio percorso narrativo, ma consentì anche all’interprete di rapportarsi diversamente al materiale e di determinarsi con maggior precisione sul piano artistico. Ella Fitzgerald e Frank Sinatra avevano molte cose in comune (la prima, in assoluto, un senso travolgente e impareggiabile dello swing), ma affrontarono questo processo di identificazione in modo profondamente diverso, per certi versi diametralmente opposto.
Ella si fece stella polare, la voce pura, interprete esemplare della tradizione dei song, colei che riuscì a scolpirne una versione da manuale, e lo fece distillandone l’essenza al netto dell’enfasi e di qualsivoglia sovrastruttura o intralcio retorico. Frank invece impose a quelle stesse canzoni una sua impronta morale, oltre che l’incessante rimando a un sé protagonista ed egemonico. Queste canzoni sono mie, sembrava dire, mi appartengono perché sono parte del mio mondo: my way. Ci sono degli standard che Sinatra riuscì a caratterizzare al punto che oggi paiono appartenere a lui e a nessun altro. Non solo come se li avesse scritti di proprio pugno, ma come se la loro esistenza dipendesse esclusivamente da lui. Su tutte, si pensi a una canzone come One for my baby di Harold Arlen e Johnny Mercer (in particolare questa versione), dove Sinatra s’infilò magistralmente nei panni del protagonista, plasmando la canzone a sua immagine e somiglianza. Come ascoltatori siamo subito catturati dalla situazione. Dietro la voglia di confidenza del protagonista – uno dei tanti amanti disillusi della canzone americana del periodo – ci dev’essere per forza una donna. C’è qualcosa di familiare in quest’uomo, la sensazione che prima o poi finirà col raccontarci qualcosa di sé. E il bello è che più parla, e più ci sembra di conoscerlo. I suoi gesti, le sue parole, il pudore con cui dice e non dice di quella donna, ci sembra che stiano raccontando una storia che ben conosciamo. La canzone riesce a suscitare nell’ascoltatore un’identificazione immediata con il protagonista. È come se conoscessimo tutto di lui, pur non sapendo niente.
Non ci è dato di sapere chi sia la donna che l’ha ridotto in quello stato, e neppure il motivo della rottura. La sola cosa che sappiamo è che quell’uomo se la sta passando male, che vorrebbe sfogarsi fino in fondo ma che il racconto gli esce soltanto per accenni. La forza dell’interpretazione di Sinatra risiede nel delicato equilibrio con cui riesce a imporre emotivamente il racconto sulla melodia, intuendo cioè come la melodia sia, in questo caso, poco più di un sostegno a un’emozione da affidare interamente alle parole.
Ella e Frank: due modelli di riferimento e due modi diametralmente opposti di fare propria la grande tradizione dei song americani. Entrambi sapevano di cosa stavano parlando, poco ma sicuro, anche se lo facevano partendo da premesse assai diverse. Dietro ogni loro esecuzione c’era una totale aderenza al materiale da interpretare. Ella di quelle canzoni esaltò purezza e trasparenza, irradiandole di gioia e lucentezza, Frank invece le investì di un carico introspettivo dentro cui emergeva l’incessante necessità di imporsi sulla canzone. Ella conduceva e attraversava ogni canzone con tale padronanza da non avvertire mai la necessità di esercitare alcun dominio su di essa; senza il controllo e il comando per Frank invece la canzone non era niente, non aveva né nerbo né vita. Ella fu l’unica cantante ch’era in grado di rendere nervoso Frank su un palcoscenico. L’uomo che amava esercitare il controllo su tutto, nulla poteva di fronte al talento e alla funambolica estemporaneità di Ella. Come il giorno e la notte, parafrasando un celebre titolo di Cole Porter che entrambi cantarono un’infinità di volte (Night and Day versione Ella; Night and Day versione Frank).