Flussi e rotte / Venezia e Gran Bretagna
In Bleak House due giovani che aspettano una cospicua eredità, e per questa ragione non riescono a sviluppare i propri talenti nella società, si ritrovano alla fine di un eterno procedimento giuridico senza una lira: tutto è finito nelle tasche degli avvocati che hanno amministrato la contesa.
Con la rivalità che caratterizza tutte le competizioni, si è diffusa in tutta Europa una carità pelosa nei confronti del parlamento e del sistema giuridico inglese, ormai da tre anni e mezzo prigioniero del dibattito sulla Brexit. Capire chi sia davvero al potere tra tribunali che emettono sentenze diverse, parlamento, governo e corona, non è facile neppure per gli esperti di diritto inglese. Tanto che Johnson ha ormai apertamente assunto un tono barricadero in cui punta alle elezioni facendosi forte proprio delle complicate procedure che a suo dire tendono solo a frustrare il desiderio di indipendenza inglese. Sulla carità pelosa dobbiamo ricordarci che siamo tutti in realtà nella stessa barca: le crisi istituzionali degli stati nazione e le loro difficoltà a legiferare in modo efficace di fronte alle sfide che si trovano ad affrontare è il sintomo di una difficoltà che riguarda tutti i paesi d’Europa, rispetto alla quale anche l’Unione Europea è una risposta inadeguata, ma al momento anche l’unica in cui possiamo sperare. Perché dall’altra parte ci sono inevitabilmente i toni populisti degli avventurieri come Johnson.
Un sommo disprezzo per le procedure e un appellarsi sempre più minaccioso a un linguaggio che evoca Churchill e la seconda guerra mondiale con termini come “Surrender” o “Do or die”, cioè arrendersi oppure farlo o morire, che anche se sono in realtà diretti ai suoi oppositori politici in Inghilterra, risuonano in modo sinistro anche in Europa. Certamente sgradevoli per i tre milioni di europei che abitano in Gran Bretagna.
Così come gli stati nazione sono nati reagendo all’avventura napoleonica (proprio in Inghilterra e in Francia in realtà erano nati prima), oggi il mondo appare diviso in alcuni grandi blocchi politici e economici. Gli USA, la Russia e la Cina innanzi tutto, che competono per influenzare il resto del pianeta, ma anche grandi confederazioni come quella brasiliana. Come di fronte al nascente stato Italiano la Serenissima di Venezia poteva vantare una straordinaria tradizione istituzionale millenaria, che si rivelava però inadeguata al mondo che aveva intorno, così gli stati nazione appaiono tutti in qualche misura insufficienti. A condannare la Repubblica di Venezia non era stato un evento particolare o un Doge peggiore degli altri, ma la scoperta dell’America e l’apertura delle rotte atlantiche, le nascenti infrastrutture delle nuove nazioni che fornivano attraverso la rivoluzione industriale l’opportunità di accumulare ricchezze che l’ottima, antica struttura dello stato veneziano non era in grado di eguagliare. Il meraviglioso ritratto che ne fa Ippolito Nievo in Confessioni di un italiano, mostrano la decadenza della classe politica veneziana e la sua incapacità di comprendere i problemi che ha di fronte.
Allo stesso modo, ascoltare gli infiniti cavilli procedurali del parlamento inglese che alla proverbiale agilità ed efficienza dei suoi esecutivi ha sostituito una costante crisi (se si vota ancora una volta quest’anno sarà la terza in quattro anni), induce a pensare che non tanto questo o quel politico, ma la macchina istituzionale stessa abbia bisogno di una profonda revisione.
L’equivalente delle rotte atlantiche e della rivoluzione industriale per la Serenissima è oggi genericamente chiamato globalizzazione. Dal punto di vista istituzionale per l’Inghilterra il dilemma è il seguente: nominalmente, e nella narrazione che ne ha fatto in seguito, la Gran Bretagna aveva vinto la seconda guerra mondiale. Mentre il resto dell’Europa si è ridisegnato (ma è anche stato ridisegnato da USA e URSS), come un progetto di confederazione, la Gran Bretagna ha perso progressivamente il suo ruolo di potenza mondiale. Ha perso le colonie lontane, dall’India alle numerose colonie africane. Ha quindi cercato di ridisegnare il rapporto con le altre, dal Canada all’Australia alla Nuova Zelanda, e le più vicine Irlanda Galles e Scozia, come un’associazione tra pari con la Regina formalmente a capo ma senza prerogative politiche. Ad attrarre molti brexiteers è questo blocco, la cosidetta anglosphere. Come ha detto lo stratega di Johnson, Dominic Cummings: sono loro i nostri amici.
Però amici mica tanto: innanzi tutto le ostilità con Scozia e Irlanda sono secolari e profonde. Solo l’Europa aveva in qualche modo attutito quelle con l’Irlanda, rendendo obsolete le rivendicazioni nazionaliste. Le tensioni tra repubblicani (la cui ultima ambizione è ovviamente la riunificazione) e unionisti (che sono appesi al Regno Unito) sono una polveriera che un accordo di uscita dall’Europa mal disegnato può immediatamente reinnescare. Anzi, ha già reinnescato. Ma soprattutto i grandi paesi che parlano inglese, dagli USA all’Australia, sono culturalmente molto più simili all’Europa che non all’Inghilterra. Gli USA, dal punto di vista costituzionale, nascono insieme alla Francia rivoluzionaria e hanno radici e valori molto più vicini alle democrazie europee che al Regno Unito. Trump, con la sua passione del suprematismo bianco, ha ravvivato le nostalgie anglosassoni, ma si tratta di opportunismo, l’America è un paese di immigrati che non identifica lingua e cultura. L’Europa è stata da questo punto di vista anche un progetto americano.
Le nuove rotte atlantiche che misero in crisi Venezia sono per gli stati nazione di oggi le grandi trasformazioni tecnologiche che rendono il mondo trasparente. Nessuno è in grado di governare i flussi di informazioni, sia quando sono anarchicamente diffusi che quando vengono guidati da gruppi di interesse. I flussi di merci e denaro, i flussi di persone. Tutto questo cresce in modo esponenziale fuori dagli stati, in un ambito che è difficilissimo regolare ma di fronte al quale l’Europa tenta un regime almeno fiscale. L’illusione di poter tornare a un sistema precedente, come pare desiderino i Brexiter, mostra in tutta la sua drammaticità l’inadeguatezza delle istituzioni dello stato nazione. Riacquistata l’indipendenza politica, se davvero Brexit riuscisse, gli inglesi si troverebbero il mattino dopo a dover rinegoziare esattamente gli stessi accordi che hanno oggi e da una posizione gravemente indebolita. Una volta superata la strana parentesi Trump, dovrebbero misurarsi con un patto magari tra USA e Europa, forse addirittura un’unica moneta o una parità Euro Dollaro che gli equivalga, che li emarginerebbe completamente. Perché questa è la direzione in cui si evolvono i commerci, le reciproche influenze culturali, la lingua stessa.
Non è un mondo più bello o più brutto di quello del passato, è semplicemente quello che c’è. Si possono coltivare appassionate nostalgie per il Leone di San Marco, se qualcuno però le prendesse sul serio non solo mostrerebbe l’inadeguatezza del proprio modo di vedere il mondo, non capirebbe neppure quanto al contrario efficiente fosse quello Stato, la sua macchina commerciale e mediatica (c’è una magnifica mostra su questo a Palazzo Corner, oggi sede regionale della GDF su Francesco Morosini), la saggezza con cui decise di sciogliersi.
Sono scelte simili quelle che ha oggi di fronte la Gran Bretagna. Fuori dall’Europa rischia di non tenere insieme né quel che ha vicino (Irlanda, Galles e Scozia), né quel che ci determina tutti. Forse sono stati troppi i film sulla seconda guerra mondiale in cui si è crogiolata nel dopoguerra per capire cosa stava avvenendo in Europa.