I nuovi populismi secondo Marco Revelli / La democrazia e l’ospite inquietante
In un servizio della Bbc, trasmesso il giorno dopo il referendum sulla Brexit, un operaio attempato col caschetto giallo e il giubbotto fosforescente, che lavora in un cantiere nel centro di Londra, si trova ai piedi di un possente grattacielo in vetro e in acciaio. Di fronte al telecronista, punta l’indice in alto e al suo microfono dichiara lapidariamente: “Quelli lassù hanno votato remain, noi quaggiù leave”. Quelli lassù sono i lavoratori dinamici e cosmopoliti, integrati nei circuiti globali della finanza, della comunicazione, del commercio internazionale; quelli quaggiù sono gli operai edili e i lavoratori saltuari, che la sera rientrano nelle abitazioni della periferia della città. Quest’immagine, tratta dall’ultimo libro di Marco Revelli (La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, edito da Einaudi), non solo esemplifica icasticamente la frattura sociale che spiega l’esito sorprendente e ancora tormentosamente difficile da gestire di quel referendum, ma è anche l’ologramma dell’onda populista che, da anni, ha investito l’Europa e contagiato il mondo, fino a culminare proprio nel risultato referendario inglese e, a un mese di distanza circa, nella vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane, inaugurando così ufficialmente una nuova epoca nella politica contemporanea. Contro la partitocrazia, contro la plutocrazia finanziaria, anti-immigrati, xenofobo, islamofobico, euroscettico, sovranista, etnonazionalistico o neonazionalistico, reazionario: sono i diversi avatars dello spettro populista che si aggira da almeno un trentennio in Europa, dopo la caduta del Muro di Berlino, accomunati da un discorso centrato su di un significante-chiave: il popolo. Invocato o venerato.
Sempre valorizzato in opposizione alle élites o agli stranieri. Identificato con “quelli in basso” in lotta contro “quelli in alto”, il rappresentante di un “noi” contrapposto a “loro”. Entusiasti custodi della volontà genuina e immediata del popolo, i populisti che hanno affollato progressivamente la scena politica, in questo inizio di secolo, non hanno smesso di puntare l’indice, anche con toni aggressivi, contro chi pensa di tradurre (gli intellettuali) o snaturare (i giornalisti, al servizio delle “minoranze” proprietarie dei giornali) o rinviare (le istituzioni rappresentative o le authority, a cui si preferisce la “direttezza” del referendum o della consultazione digitale) o rappresentare (i “politici”, ovvero, generalmente, gli esponenti dei partiti tradizionali novecenteschi o, nei Paesi dell’Est Europa, dei partiti di area socialista) quella volontà. Ma non è lo stesso popolo che ha assistito passivamente, se non addirittura avallato, le violenze e le distruzioni nella “Notte dei cristalli” in Germania o al varo e all’applicazione delle leggi razziali in Italia, nel 1938? E non fu il popolo a compiere impunemente i massacri di settembre 1792, in Francia? Sì, ma era un popolo appunto corrotto, sviato, sedotto, da élites interessate o scellerate, risponderebbe il populista del XXI secolo. Già nelle prime pagine del libro, che è la riproposizione aggiornata e sapientemente intrecciata dei tre instant book scritti sull’argomento nell’ultimo decennio, Marco Revelli ci avverte sul fatto che l’ideologia, sia pur generica, dei nuovi populismi e la costellazione dei soggetti politici che la esprimono, sempre più combattivamente, dopo aver conquistato la piena cittadinanza, rimodellandola, nell’arena politica di vari Paesi, sono germinati nel solco di una crisi della democrazia rappresentativa profonda e decennale, di una sfiducia diffusa che ha prosciugato lentamente l’agorà. E i nuovi populismi sono una risposta distorta, patologica, tendenzialmente regressiva, a questa crisi della democrazia, articolata sul terreno stesso della democrazia, che solo apparentemente sopperisce allo svuotamento dell’agorà e la rivitalizza. Semmai, se ci si limita a usare “populismo” come un’etichetta spregiativa e a non riconoscergli la dignità di un avversario politico e culturale, essi finiranno per parassitare la crisi in atto di istituzioni e processi democratici, facendola avvitare e invischiare nel paradosso di una “politica senza politica”, come recita il titolo-lemma del libro.
Per il politologo e sociologo piemontese, infatti, non si può assumere, come ha fatto notoriamente il filosofo argentino Ernesto Laclau, il “populismo” come un concetto neutro o un fattore di democratizzazione. Il populismo avanza quando è malata, debole o in affanno, la democrazia rappresentativa moderna, arretra quando questa è invece in salute, forte, inclusiva. Se il populismo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, negli Stati liberali con suffragio limitato, fu l’espressione di una malattia giovanile della democrazia, cioè la rivolta degli esclusi che erano ai margini, i nuovi populismi d’inizio secolo sono l’espressione e la reazione a una malattia senile della democrazia, cioè la protesta degli inclusi che si sentono ai margini, per diversi motivi, che si sentono traditi, ingannati, abbandonati ed esprimono un voto di vendetta; e se comprendere meglio il populismo serve a comprendere meglio la democrazia, il libro di Revelli è un racconto di come siamo arrivati fino a qui, di come il populismo non sia un mostro apparso all’improvviso dall’oscurità, ma l’effetto di un deficit di legittimazione che non possiamo fingere di ignorare, se si vuole fermare la deriva e il contorcersi pericoloso della crisi. E trovare una contro-risposta a quella che argutamente il politologo olandese Cas Mudde ha definito come “un’illiberale risposta democratica a un liberalismo non democratico”. A questo punto, l’analisi puntigliosa di Revelli, svolta sempre con un ricorso bilanciato ed efficace ai metodi quantitativi e qualitativi delle scienze politiche e sociali, si orienta verso i tre processi che, a suo avviso, spiegano l’avvento dei nuovi populismi e l’imporsi del loro discorso nella vita quotidiana e pubblica: la crisi della democrazia; la crisi dei partiti di massa; la crisi tout court, cioè la crisi economica a partire dal 2008. Tre sipari che l’autore apre, dopo aver fatto una mappatura dell’Europa populista, con le sue varianti tra Ovest ed Est, e un’analisi del voto illuminante sugli eventi che hanno rappresentato il big bang del populismo e della rabbia populista su scala mondiale: la Brexit e l’elezione di Trump.
In entrambi i casi, Revelli conduce abilmente il lettore a osservare il fenomeno populista nella sua ambivalenza di elemento di contesto o come il mood di una fase storica, da un lato, e come il substrato ideologico, per quanto nebuloso, di progetti politici o di campagne elettorali o di movimenti e aggregazioni politiche nuove. Le tre crisi sono poi descritte come il bouillon de culture dei nuovi populismi, con un’attenzione particolare alle dinamiche psicopolitiche, considerate cruciali. Si parte da quella crisi della democrazia e dei suoi meccanismi di controllo che già Zygmunt Bauman alla fine degli anni Novanta aveva rilevato, con l’affermazione della globalizzazione, nella separazione del potere dalla politica nazionale dei governi nazionali, pronti a mascherare la loro impotenza di fronte alla divaricazione tra garantiti e precari, tra élites globalizzate e masse territorializzate, con la focalizzazione dell’agenda sui problemi della sicurezza. Si passa poi all’evaporazione e alla deriva verticistica, allo stesso tempo, che ha logorato lo strumento novecentesco chiave per l’esercizio della sovranità popolare e per la strutturazione dello spazio pubblico: il partito di massa, con il suo apparato e radicamento territoriale. E la crisi organizzativa del moderno Principe di gramsciana memoria è vista come concomitante alla fine del modello fordista e al passaggio all’economia postindustriale.
Quella nuova Grande Trasformazione (delocalizzazioni, terziarizzazione, rivoluzione informatica, finanziarizzazione) che ha sconvolto la stratificazione sociale, ma su cui si è abbattuta come un sisma la crisi economica e finanziaria del 2008 e le sue profonde e durevoli ripercussioni, allargando la forbice tra arricchiti e impoveriti, tra winners e loosers, tra centro e periferie urbane, tra territori, con un processo di erosione nelle fasce medie non solo del reddito, ma dell’autostima, delle reti relazionali, delle identità collettive locali. E in questo contesto crescono non solo i poveri assoluti e i poveri relativi, ma anche quel senso generalizzato e obliquo di deprivazione su cui lieviteranno frustrazione, rancore, delusione, che si dirige in modo vendicativo proprio contro chi suscitava prima aspettative e speranze o contro chi incarnava la narrazione progressista, globalista e neoliberale, nel vuoto aperto dalla rottura irreversibile dei vecchi serbatoi di ira come il cattolicesimo sociale e il socialismo. Ed è nella parte finale del libro, dedicata al caso italiano, che la diagnosi di Revelli si affina con una sorta di messa a fuoco del secondo atto della mutazione antropologica denunciata dal Pasolini “corsaro”. Quello legato alla Grande Trasformazione iniziata negli anni Ottanta, dopo la modernizzazione del miracolo economico che aveva dissolto l’Italia rurale e paleocapitalistica dinanzi allo sguardo sconsolato del poeta. Ora, è nelle periferie delle città o nelle provincia dove si levano proteste e picchetti contro gli insediamenti dei rom o gli alloggi agli immigrati, dove si recupera un senso comunitario nella contrapposizione all’intruso e nell’invidia sociale a rovescio verso chi è più debole, che si sofferma l’attenzione di Revelli. Perché è qui che egli rintraccia i primi imprenditori politici dell’ira, è qui che riscontra l’antefatto fondamentale di quell’appello populista che è stato premiato elettoralmente in modo eclatante il 4 marzo dell’anno scorso, i prodromi antropologici e culturali che oggi hanno trovato approdo nel decreto Salvini.
In conclusione, siamo entrati in una nuova età della democrazia e i populismi sono l’ospite inquietante che, dopo aver bussato alla porta, con le sembianze confuse dell’antipolitica e del voto di protesta o della rivendicazione identitaria su base regionale o nazionale, vi hanno fatto stabilmente ingresso, agli inizi del XXI secolo, con quei tratti “idealtipici” che l’analisi di Marco Revelli ci aiuta a mettere in evidenza: l’antielitismo, la pulsione antipluralista, la mobilitazione plebiscitaria, la semplificazione della concezione e delle procedure della volontà generale. Ma quali rimedi alle disfunzioni della democrazia proporre in alternativa a quelli offerti dai nuovi populismi? A chi riduce il popolo ora a un corpo mistico e puro ora a un popolo aritmetico, convocato su piattaforme digitali, periodicamente od opportunisticamente, cosa ribattere? Come ricostruire un discorso sulla democrazia che seduca dal “basso” più di quanto faccia il discorso populista? Avremo una risposta nei prossimi lavori di Marco Revelli? Ce lo auguriamo, per trovare possibili vie di uscita da quell’impasse e dalla palude della postdemocrazia, la cui genesi è lucidamente ricostruita nel libro.