Il cane come modo per parlare di noi stessi / Social dog
Il volpino Boo ha tutto per essere irresistibile: è piccolo, con la testa tonda, il nasino, due occhietti espressivi, la coda vaporosa. Quando gioca, estrae ritmicamente la lingua dalla bocca, con delicatezza ma continuamente, come un bambino che cerca di compiere uno sforzo superiore alle sue capacità. Dimostra intelligenza e segue con attenzione quanto gli viene proposto, ma quando si abbandona sul pavimento, forse per stanchezza, trasmette un senso di resa. Marnie è una shih tzu anziana, sguardo perso, fare dinoccolato. Camminando inclina la testa di lato e non riesce a trattenere la lingua che penzola fuori dalla bocca. Sembra che ami assumere posture stravaganti, il pelo arricciato confusamente lascia intendere un certo disinteresse nei confronti dell’etichetta, ma esprime pure quel lieve dispregio delle norme sociali proprio delle artiste anziane o di chi ha percorso a lungo il mondo. Loki è un gigantesco cane lupo di tre anni, maestoso, ieratico, dallo sguardo penetrante. A differenza del lupo, di cui è una versione migliorata, meno patibolare e più grandiosamente borghese, non può fare a meno della compagnia dell’uomo. In una delle foto che lo ritraggono insieme a Kelly, il padrone, Loki si lascia tenere mollemente in braccio, come un bambino cresciuto troppo in fretta. Boo, Marnie e Loki sono “tre eroi del web”, contando il primo 17 milioni di like su Facebook, la seconda 2 milioni di follower su Instagram e il terzo 600mila. Attorno a loro, spiega il sito specializzato americano Bark Box, si muove un ampio giro di affari, una costellazione di oggettistica varia e di alimenti destinati ai cani a cui viene rimandato il compiaciuto visitatore delle loro pagine.
Boo, Marnie e Loki sono, a quanto pare, le punte dell’iceberg, visto che, come ci informa lo stesso sito, i nostri inseparabili amici appaiono nelle bacheche e nelle timeline sei volte a settimana, senza calcolare quanto frequentemente le loro immagini o i loro video facciano capolino sui nostri smartphone. Cani ovunque, insomma. A tal punto che si può azzardare l’ipotesi che sia nata e si sia definitivamente affermata la sottospecie del “social-dog”. Perché i cani che mettiamo su Facebook o su Instagram qualche caratteristica in comune la possiedono. Indipendentemente dalla razza, il social dog è un cane ultra-antropizzato che dell’umano ha tutto ad eccezione delle sue meschinità. Un cane rarefatto e ingentilito, sempre più vicino alla soffice consistenza e, talvolta, alle dimensioni di un peluche. Un ex- cane o, rubando un’espressione di Kafka, un controcane.
Richard Francis in Addomesticati (Bollati Boringhieri) spiega che i mammiferi addomesticati costituiscono un caso nel percorso evolutivo. Quanto sono non è solo l’esito di un adattamento all’ambiente, ma è anche il frutto di certe condizioni di partenza. Per farsi addomesticare, cioè, devono aver già sviluppato l’abitudine a sopportare lo stress della convivenza reciproca, e soprattutto, devono aver imparato a relazionarsi con l’uomo, manifestando un comportamento contrassegnato dalla mansuetudine. Con l’avvio della domesticazione si vengono a determinare delle conseguenze fenotipiche, di cui i tratti distintivi sono muso e zampe più corte, la coda all’insù, le orecchie pendule, il cervello più piccolo. Persino il colore del manto, nei cani, nei gatti, nei suini, nei furetti, nei bovini, subisce delle alterazioni, e il bianco è il colore che allontanandosi più marcatamente dalla tipologia selvatica diventa il segno della domesticazione. Pur essendo l’evoluzione fondamentalmente conservativa – in effetti anche un pechinese mantiene legami a doppia mandata col lupo –, nel complesso i mammiferi finiscono così con l’assomigliare ai cuccioli dei loro antenati selvatici. È la cosiddetta pedomorfosi, ossia la conservazione di tratti giovanili in esemplari adulti sessualmente maturi.
È evidente che i cani dei social di questa attitudine costituiscono l’estremo portato. Il cane, il nostro cane, in questa sede, viene quasi costantemente presentato nella versione infantilizzata nei cui confronti i sapiens sono ipersensibili. Il cane che vogliamo mostrare – la nostra idea di cane – è l’eterno bambino, svagato, pasticcione, incapace di cattiveria. È il figlio che ci accompagna nella nostra giornata, profumato, col pelo morbido e curato, lo sguardo infinitamente seducente. È il cane infiocchettato, vestito pure tra le pareti domestiche (Boo), che amiamo riprendere quando gioca in modo curioso, quando dorme a zampe all’aria, quando litiga col gatto, quando caccia una lucertola con scarsi risultati, quando commette degli errori. Spesso è lo stesso cane che proteggiamo ossessivamente dai pericoli, che sganciamo raramente e malvolentieri dal guinzaglio per il timore di non vederlo più tornare; il cane che teniamo separato da compagni di specie ritenuti pericolosi, e che, con rapido strappo, distogliamo dall’increscioso difetto che lo conduce ad assaporare il brivido delle deiezioni altrui.
Come spiega Alberto Marchesini nei suoi libri, il cane è stato ed è ancora spesso una metafora. Il cane è cioè un modo per parlare di noi stessi, per dettare al mondo come vorremmo essere visti. Il social-dog cosa dice di noi allora? Probabilmente che siamo persone capaci di interessarsi agli altri, che sanno amare i più piccoli e indifesi, manifestando tenerezza e disponibilità a ritagliare parti del proprio tempo per assaporare il piacere genuino che dona un essere innocente. Il cane svelerebbe la nostra superiorità morale, la nostra “purezza”, la nostra capacità di essere ancora ingenui. Col cane, insomma, si esce dai binari più consueti dei social: se da un lato si rinuncia all’umorismo di grana grossa, dall’altro si sospende anche quella carica di risentimento, di rancore, di odio che popola le bacheche e di cui ha scritto Sergio Benvenuto, anche se poi, in effetti, si tratta di una strategia volta comunque a esprimere, indirettamente, il proprio disgusto nei confronti del cinismo e della cattiveria degli “altri” umani.
Bisognerebbe capire fino a che punto il cane dei social rappresenti l’idea di cane dominante nei nostri tempi. Se, come si potrebbe supporre, il successo del cane contemporaneo, la sua massiccia presenza nelle nostre case, siano proporzionali al suo essersi trasformato in gingillo, in ornamento, e al suo essere stato contemporaneamente allontanato dalla bestialità. Lo dimostrerebbe, al contrario, l’irritazione che si sperimenta di fronte alle sue pulsioni naturali, e lo sbigottimento davanti agli accessi di aggressività verso gli umani. Quelli che i greci definivano “lyssa”, ritenendoli segni incontrovertibili dell’instabilità mentale del cane.