Intervista a Giorgio Di Noto / Effimero invisibile
Nel Deep Web gli annunci di vendita di droga, armi, documenti falsi e altre merci illegali, sono accompagnati da foto pensate per essere totalmente anonime, effimere, eliminabili dopo un breve periodo, scattate da telefoni cellulari. Queste immagini rispondono a un’estetica che si dilata da registri pubblicitari fino a virate surreali, con foto realizzate sia a livello professionale sia con evidenti errori e trascuratezze, dove spiccano i flash sulle buste di plastica e figure di tutto quello che c'è in vendita sulla darknet, scatti con riflessi sui televisori o sui monitor. Anche questo repertorio di immagini rientra nel campo della meta-fotografia? Giorgio Di Noto (1990) ha indagato le questioni estetiche di questo “archivio impossibile”, costituito da immagini sepolte nella vasta area di internet non indicizzata dai motori di ricerca, foto effimere o quasi invisibili, scaricate da siti che aprono e chiudono velocemente, cancellati dagli stessi gestori o chiusi dalla polizia. Scorrendo questo repertorio vediamo un annuncio di speed corredato dalla fotografia di un giaguaro, figure utilizzate come una vera e propria firma, come brand identity, dove l’immagine di un certo animale rimanda a uno specifico venditore, un'anguria con una didascalia, che recita "watermelon cosmic drops", un rospo che sta per il DMT (una triptammina psichedelica endogena), la foto di un vecchio sciroppo con la didascalia "cocaine brought to you by the Bilderberg group".
Questo progetto è diventato anche un libro, intitolato The Iceberg, che si propone di illustrare in modalità inedite il rapporto che lega internet, fotografia e osservatore: è composto da pagine bianche, pagine con immagini in bianco e nero e pagine con scritte, frasi che sono estrapolate da guide ideate per indirizzare chi compra nel dark web, con specifici suggerimenti di comportamento e frasi riprese da file pdf trovati online, veri e propri vademecum, tecnici ed etici, per l'acquisto delle sostanze: "Sii l'attore che sai di essere", "Non credere a nessuno", "Cerca di sembrare una persona perbene e non un tossico", "Non destare sospetti", "Usa sempre il tuo vero nome e il tuo vero indirizzo", "Tieniti stretti gli amici, mangia bene e rispetta il tuo corpo". The Iceberg si sfoglia anche al buio, e per vedere le immagini è necessaria una piccola torcia a luce ultravioletta, perché alcune fotografie sono stampate con inchiostri invisibili. E le immagini celate nelle pagine bianche sono quelle usate per promuovere la vendita di sostanze stupefacenti, utilizzate dai venditori per richiamare i compratori. Per attirare l’attenzione di Giorgio di Noto abbiamo messo un’esca nel Deep Web, un’esca-immagine celata in uno spazio bianco, non visibile ai più. Di seguito riportiamo il dialogo che si è visualizzato seguendo il filo oltre l’esca.
Mauro Zanchi: Una parte della tua ricerca ha individuato il network criptato che sfugge ai motori di ricerca e in cui vige la totale anonimia. Cosa si muove sotto la superficie legale di questo non-luogo, nel Deep Web di Internet?
Giorgio di Noto: Il Deep Web è quella vasta area di internet accessibile ma non indicizzata dai motori di ricerca. All'interno del Deep Web c'è un network criptato, accessibile solo tramite specifici software e browser, chiamato Dark Web. Ci sono arrivato mentre erano in corso le rivoluzioni e l’ondata di proteste che hanno attraversato i regimi arabi nel corso del 2011. In molti paesi i social networks erano bloccati e il Dark Web, principalmente attraverso il browser Tor, era lo strumento attraverso il quale venivano condivise e pubblicate molte notizie, video ecc. per aggirare la censura. Questo per dire che non è solo un regno oscuro di traffici illeciti ma qualcosa di più complesso. La non tracciabilità degli utenti e il concetto di anonimia può portare a diverse declinazioni, tra cui le più ovvie riguardano attività illegali. Ma per me era interessante vedere come si presentava questo doppio (a sua volta) di internet, in cui tutto è possibile e nessuno è (teoricamente) rintracciabile. Anche le poche immagini che appaiono sono spesso modificate per non risalire in nessun modo all'autore.
Cosa evocano o rivelano “per assenza” le immagini invisibili nella installazione The Iceberg?
La natura invisibile delle immagini è stata da una parte una scelta necessaria per rappresentare visivamente qualcosa che è sotto la superficie, dall’altra una scelta che mirava a creare un’interazione con il pubblico, lasciandogli il compito di rivelarle o meno. Possiamo dire che il progetto si muove su due livelli: il primo, più diretto e didascalico, mostra immagini di droga molto strane e insolite, che evocano proprio l'idea di un mondo sotterraneo; il secondo cerca di indagare la natura stessa di queste immagini, che diventano un esempio interessante da osservare per la loro natura effimera, nascosta, proibita, e soprattutto per la relazione che si instaura con lo spettatore contemporaneo, abituato al bombardamento quotidiano di immagini.
La scelta di usare luce ultravioletta e inchiostri speciali porta con sé anche connotazioni di stampo concettuale? Cosa ti interessa maggiormente nell’idea del non accessibile o dell’esistenza temporanea?
Da un punto di vista semplicemente tecnico, gli inchiostri invisibili e la luce ultravioletta sono tra gli strumenti più efficaci che ho sperimentato e dal mio punto di vista non c'è molto di concettuale nel mezzo di per sé. Una connessione importante, che mi ha convinto a proseguire per questa strada, è che la luce uv è realmente utilizzata per cercare tracce di stupefacenti: nel mio lavoro è lo strumento che permette di vedere le immagini di quelle sostanze. Lo stesso tipo di luce (e il fatto che sia una luce ha di per sé un significato) che rivela delle tracce, rivela nell'installazione un'altra traccia, che è proprio l'immagine. Questo rimando per me costituisce la necessità del mezzo, che è una conditio sine qua non fondamentale in questi tipi di progetti, credo. Quello che mi interessa è studiare come viene visivamente elaborato oggi il non accessibile, che tipo di relazione si instaura con lo spettatore, per cercare di capire qualcosa di più su come le immagini influenzano la nostra percezione e viceversa.
In un periodo di sovrabbondanza di immagini il tuo interesse per ciò che si auto-cancella o che sparisce a cosa apre?
È quello che sto cercando di capire ed è il motivo per cui insisto su questo tema nei miei progetti. L'attuale situazione in campo visuale è abbastanza chiara, le immagini stanno proprio cambiando forma, la nostra percezione è totalmente cambiata. Un'immagine ora può avere la stessa funzione di quello che tempo fa era un appunto volante su un fogliettino. Le fotografie alle password del wifi che scattiamo, quelle che gli studenti fanno alle lavagne a scuola o ancora il selfie temporaneo per sistemarci i capelli, che cosa sono esattamente? Quello che cerco di fare è utilizzare i miei progetti come esperimenti, per me in primis, per capire qualcosa in più su come funzionano le immagini e che cosa sono.
La tua ricerca sembra molto interessata a un immaginario dalla doppia realtà, una vera e una che rappresenta quella vera. Ci puoi parlare di questo spazio ulteriore delle innumerevoli riproduzioni?
Se c'è un fil rouge che collega i miei lavori è certamente quello di cercare un capovolgimento del punto di vista tradizionale fino ad arrivare a degli scontri, a dei cortocircuiti, che penso aiutino a rivelare l'ambiguità della fotografia e più in generale la complessità del processo di percezione delle immagini. Forse il nodo della questione è insistere su quanto quello che vediamo sia frutto di un processo di traduzione e quanto non esista una riproduzione fedele della realtà. Ma oltre a questo, che dovrebbe essere ormai qualcosa di ovvio e banale, mi interessa cercare quei gap che a volte si creano tra mittente e ricevente dell'immagine, tra contenuto e contesto di condivisione, tra l'aspettativa e la reale elaborazione di quanto vediamo. Lo spazio ulteriore di cui parli è uno spazio che cerco di creare proprio per dare luogo a un capovolgimento, se così possiamo dire, della rappresentazione. C'è una sorta di circolarità che invita a rivedere quanto si è appena guardato cambiando punto di vista. Sembra qualcosa di articolato o complesso, ma in realtà è un semplice e banale processo, che cerco di attivare per presentare quella sorpresa, più o meno ludica a seconda del progetto, che spero aiuti a comprendere il punto di vista proposto.
Quale è la struttura madre che sottostà alla fotografia? Cosa rivela in più la traduzione in immagine numerica o digitale di una fotografia?
La quasi totalità delle fotografie non ha oggi un supporto ma è condivisa nella forma di un file numerico: mi interessa dunque capire questo e cosa significa, non solo da un punto di vista concettuale ma anche da uno puramente materico. L'immagine non ha più un supporto, non ha matericità e non è fatta di tanti piccoli alogenuri d'argento anneriti. È un'espressione matematica, una serie di numeri che disposti in una certa maniera riproducono qualcosa. Ma se cambi la disposizione puoi ottenere un risultato totalmente o parzialmente diverso. Questa traduzione non credo che riveli qualcosa in più dell'immagine ma, eventualmente, ci dice qualcosa del modo in cui le immagini sono fatte e veicolate viaggiando nelle nostre memorie reali e virtuali. Forse ci rivela anche quanto sia fondamentale l'interpretazione nella produzione e nella fruizione stessa. Tutto sta nel processo di traduzione, non esiste un grado zero.
Ci puoi parlare della tua idea di tradurre tridimensionalmente famose fotografie del Novecento applicando software e algoritmi utilizzati in campo medico, astronomico o matematico? La fotografia è una scultura?
Nel momento in cui inizi a lavorare con la traduzione numerica delle immagini, ti confronti con le infinite possibilità che i numeri consentono di sperimentare. Quindi, all'interno degli esperimenti sulla natura delle immagini digitali e su cosa possono diventare, la traduzione in 3D è stata una delle prime che ho affrontato. Le alte e le basse luci di una fotografia possono essere tradotte in altezze diverse (e così tra l'altro è realmente in scala microscopica su una stampa analogica e per questo ci sembra più tridimensionale di una stampa digitale). Portando all'estremo quest'idea sono arrivato a una traduzione tridimensionale, che poi è diventata un vero e proprio modello 3D.
Una delle caratteristiche ricorrenti dei miei progetti è lo studio e il tentativo di riportare a stato materico qualcosa che non ha un supporto. Quindi tradurre in un oggetto tridimensionale una fotografia digitale (che a sua volta è la riproduzione di un supporto bidimensionale) è un esperimento che sentivo la necessità di provare. E la cosa interessante è stata constatare come quella doppia realtà di cui parlavamo si manifestava di nuovo: il modello rivela l'immagine di partenza solo in una posizione specifica, altrimenti diventa un'informe materia che sembra scolpita. La scultura è un processo sottrattivo: si scava la materia e quello che rimane è l'opera. Nel caso della stampa 3D il processo è additivo. Anche questo contrasto mi interessava. Sono tutti passaggi, cambiamenti di stato, esperimenti di traduzioni che faccio per giocare, nel vero senso della parola, con le immagini e le rappresentazioni, per cercare di capirne qualcosa di più. La fotografia può essere scultura, ma può essere anche scrittura, pittura ecc.
Questo è il punto, credo.
I discorsi sull’originalità sono delegittimati? Non si tratta più di produrre opere, quanto individuare situazioni o idee che evochino un inedito senso?
È difficile dare una risposta, onestamente, anche perché è difficile mettere dei limiti, dei paletti al linguaggio e alle possibilità che anche solo nuovi materiali potranno portare. Se da una parte non parlerei tanto di delegittimazione, dall'altra sicuramente l'idea di lavorare a un inedito senso mi sembra molto vera e trovo molto più interessanti quei lavori che si concentrano su questo, senza avere la pretesa dell'originalità del contenuto, ma piuttosto del modo in cui lo si elabora e presenta. Anche perché abbiamo bisogno proprio di questo, oggi tutto avviene per traduzione e interpretazione: l'interattività digitale è fatta di questo, così come la scansione di migliaia di volti, messaggi, voci ecc. Insomma, credo che ribaltare il punto di vista su cose anche note e scontate sia banalmente uno degli obiettivi più importanti e necessari.
Pensi che abbia ragione Godard quando asserisce che “l’immagine non appartiene a chi la fa, ma a chi la usa”?
Assolutamente sì, è ciò che ripeto sempre quando si affronta ad esempio il tema del fotogiornalismo: a me interessa analizzare come viene percepita un’immagine, come viene recepita ed elaborata dallo spettatore e dalla sua memoria. Non tanto le buone intenzioni di chi l'ha realizzata, ma come viene vista e utilizzata da chi la riceve. Da un punto di vista banalmente semiotico, si tratta di analizzare quel gap che io credo si crei tra mittente e ricevente del messaggio: le informazioni e le intenzioni riposte dal mittente spesso non sono quelle effettivamente ricevute, diremmo percepite, dal ricevente. Il fotogiorrnalismo ne è un esempio lampante, perché mette in evidenza la natura ambigua della fotografia e ripone in essa delle intenzioni, che vengono spesso stravolte nel processo d'invio e ricezione del messaggio. Ecco, a me interessa inserirmi in questo cortocircuito, che credo sia una delle caratteristiche più interessanti dell'immagine fotografica. Per questo penso che la citazione di Godard sia molto vera.
La fotografia contemporanea aiuta a essere coscienti della realtà, è solo un altro mezzo illusorio o apre a ulteriori questioni più sottili?
Forse questa domanda arriva in un momento sbagliato per me, proprio mentre mi sto interrogando sulla necessità e sulla natura di certe pratiche, che molto spesso mi sembrano essere solo esercizi di stile del linguaggio che va di moda, per affermarsi all’interno di una comunità ristretta. Ma detto questo sicuramente certa fotografia contemporanea, oltre a essere interessante come sperimentazione di linguaggi visivi anche solo da un punto di vista estetico, propone senz’altro una visione alternativa, che aiuterebbe a sviluppare uno sguardo critico sul mondo delle immagini. Quindi sono vere entrambe le cose: a volte è solo un mezzo illusorio, più facile di altri, a volte è veramente capace, forse più di altri, a sollevare questioni sottili.
La tua ricerca è connessa alle questioni aperte da Byung-Chul Han in riferimento allo spazio di internet che forma uno “sciame digitale”? Come modelli la tua identità autoriale in funzione ai vincoli in cui tutti interagiamo nella fitta rete di connessioni, nel mondo parallelo di internet?
Le caratteristiche dello “sciame digitale” influenzano sicuramente il modo in cui ci rapportiamo al mondo e in particolare a quello parallelo di internet. Siamo tanti individui interconnessi, ma isolati singolarmente nella propria realtà, creata e vissuta attraverso i nostri dispositivi, e con la sensazione di far parte di una comunità che in realtà non esiste. È la grande contraddizione della rivoluzione digitale, dell'accessibilità e proliferazione di milioni di dati. In questo contesto l'aspetto visuale è importantissimo: pornografia e condivisione sono le due parole che mi vengono subito in mente e che caratterizzano la condizione che stiamo vivendo. Tutto ciò si ripercuote sulla comunicazione e sulla natura delle immagini. Da un certo punto di vista è un terreno molto fertile per riflessioni ed esperimenti, dall'altro tutto finisce subito per essere inglobato dal sistema stesso: il fatto che siamo bombardati da immagini, che alla fine scompaiono e sono talmente tante da aver perso significato, risulta ormai essere qualcosa di ampiamente sviscerato e analizzato. Forse c'è bisogno di cambiare anche qui punto di vista, per cercare di vedere e vedersi dall'esterno del sistema, per trovare nuovi spunti, affinché la pratica non si esaurisca in un esercizio di stile. Ammesso che ciò sia possibile, è quel che cerco di fare, prendendomi anche lunghe pause, come ora, per studiare. Riguardo all'identità autoriale, la maggior parte dei miei progetti perdono parzialmente di senso se veicolati tramite internet, in quanto si basano proprio sul contrasto creato dal passaggio di quello che vediamo su uno schermo in qualcosa di tridimensionale, oggettuale e materico. Da una parte questa caratteristica è fonte spesso di frustrazione ma dall'altra credo che sia un'identità importante e una condizione necessaria per la riuscita del lavoro. Un primo passo forse per uscire dal sistema, dallo sciame.
Cosa pensi dei modelli alternativi di coautorialità, di creazione collaborativa, di lavori senza una paternità specifica, delle strategie di anonimato, degli autori che si mimetizzano in una nuvola condivisa?
Mi sembra tutto molto interessante se questo ha un senso o dà un taglio inedito al progetto, se insomma non sia solo una trovata. Ogni cosa ha un suo significato e se questo fa parte della riuscita e dell'esistenza del lavoro allora mi sembra un ottimo e stimolante punto di partenza. Allo stesso tempo la scomparsa dell'autore o comunque lo stravolgimento del concetto di autorialità non mi sembra qualcosa di per sé così innovativo se non fa parte di un progetto specifico e non ha senso all'interno di quel progetto. Un lavoro può essere poco interessante sia che l'autore sia una persona con nome e cognome, sia che gli autori siano sconosciuti o dei robot o altro.
Sono un po’ rigido su questo punto, ma per me la cosa importante è la relazione e condizione di necessità che si deve instaurare con il contenuto presentato, una coerenza sia di forma che concettuale. O almeno è quello di cui vado alla ricerca.
In questo momento immagino l’oltrefotografia come una dimensione ulteriore, appostata dietro/dentro/attorno/oltre la fotografia. Tu come ti poni in questa “altra” possibilità?
Il problema è definire i termini del discorso e cosa intendiamo per fotografia, per ciò che non è riuscita a mostrare. D'altronde la fotografia è uno strumento, una parola che rappresenta la possibilità di scrivere con la luce, e fa quello da quasi duecento anni. Il problema è l'immagine e le modalità di produzione e condivisione delle immagini, che saranno sempre nuove, diverse, inaspettate e con risoluzioni sempre maggiori ecc. Non riesco a immaginare scenari fantascientifici, onestamente, ma solo la naturale evoluzione degli strumenti di comunicazione di cui la fotografia fa parte: basterà sbattere le ciglia per scattare una foto, magari. Dal punto di vista dell'arte è interessante capire come verranno elaborati i linguaggi, che ruolo l'arte stessa avrà nel riflettere su questo. La fotografia probabilmente riuscirà a mostrare sempre più cose, da un punto di vista scientifico e tecnologico. Eventualmente mi piace pensare più a una sorta di azzeramento, a una tale saturazione che un giorno magari la produzione di immagini e le immagini stesse verranno controllate e limitate. Fare fotografie potrebbe diventare qualcosa di sovversivo.
La serie televisiva britannica Black Mirror mostra scenari e personaggi in una realtà ambientata nel futuro, molto aderente ai problemi di attualità e alle sfide poste dall'introduzione di nuove tecnologie dei nostri tempi. Nei vari episodi vengono utilizzate macchine per rivedere in tempo reale momenti accaduti in passato nella vita privata di ciascuno, per visualizzare ricordi, per trasferire una memoria individuale che sta per morire in una memoria di un gigantesco hard disk, per trasferire la coscienza di una persona nel cervello di un altro individuo, per far rivivere una persona cara e molto altro. Tu come immagini la fotografia del futuro?
Mi figuro la scomparsa della macchina fotografica come strumento e la possibilità di "salvare" immagini direttamente dalla realtà aumentata in cui saremo immersi. Potremo decidere noi, con il pensiero e con gli occhi, quando scattare un'immagine e salvarla. Non sarà più necessario il gesto. Questo rivoluzionerebbe naturalmente moltissime cose e il concetto stesso di fotografia e di fotografo. Credo che corriamo sempre di più verso una realtà doppia e probabilmente immaginare il superamento di una a sfavore dell'altra o l'intersecarsi delle due non sia qualcosa di così lontano. Il punto cruciale è cosa diventerà una fotografia. Non è detto che sarà qualcosa di fisso. Quell'attimo congelato a cui siamo abituati verrà sostituito dalla possibilità di avere sempre a disposizione tutto il flusso e l'immagine diventerà qualcosa di dinamico e allo stesso tempo relativo.