Decisioni / La comunità perduta
Nella “buona novella” annunciata da Michel Serres, Contro i bei tempi andati (Bollati Boringhieri), c’è un solo momento in cui l’ottimismo per il futuro cede al rimpianto, ed è nel ricordare l’incontro con un’amica di gioventù, ritrovata dopo vent’anni. Era uscita dalla miseria della famiglia, poteva permettersi le vacanze al mare, ma di quell’epoca rimpiangeva il vivere insieme, il colloquio continuo, il reciproco aiuto con i vicini, ben diverso dalla solitudine dell’età adulta: “una volta potevamo contare sulle comunità: caotiche, chiassose, litigiose, con le brache e i vestiti bucati, ma calde quanto a fraternità”. La comunità implicava la condivisione di uno spazio e di una tradizione da cui si traeva un’identità saldata dal “vivere insieme”, dove il prossimo era chi ci stava accanto. Forte era il senso di appartenenza a un mondo, ricorda l’antropologo Marco Aime in Comunità (Il Mulino, euro 12,00), in cui nessuno dei membri era estraneo, ma che nello stesso tempo aveva un forte senso di distinzione e una conseguente diffidenza verso gli estranei. La comunità era piccola, omogenea, autosufficiente, conosceva solo cambiamenti lenti, le nuove generazioni venivano integrate grazie a “riti di passaggio” che le rendevano partecipi alle tradizioni. In apertura del suo libro, Aime rievoca le scene dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, il mondo contadino della Lombardia di inizio Novecento. Non era un’esistenza idillica, i conflitti e le ingiustizie non mancavano, non era scontato poter contare sulla solidarietà e la reciprocità disinteressata. Il proprietario terriero caccia dalla sua terra la famiglia contadina il cui padre ha tagliato un albero di pioppo per ricavarne lo zoccolo che serve al figlio per il lungo cammino verso la scuola. Quando il carro con le povere masserizie è pronto a partire, le altre famiglie si limitano a osservare nascoste dietro i vetri della finestra.
In una delle pagine più amare degli Scritti corsari, “la lettera aperta a Italo Calvino” del ‘74, Pier Paolo Pasolini si dispera per non essere stato compreso neppure da uno degli intellettuali a lui più cari. L’avvento dell’individualismo edonistico dell’orrendo consumismo non lo induce, come crede Calvino, a rimpiangere l’Italietta, eterna provincia dello spirito, intrisa della cultura formale dell’umanesimo scolastico. Quel che Pasolini lamenta è la scomparsa delle comunità di uomini vissuti nell’età del pane, non dell’oro, consumatori di beni essenziali, in cui il risparmio era la dote paziente di chi si aspettava tempi peggiori: comunità rimaste intatte per millenni, che conducevano una vita precaria ma necessaria, mentre i beni superflui rendono superflua la vita. Nella premessa a un’antologia di Scrittori della realtà del ’61, Pasolini notava come “siamo una delle ultime generazioni a capire la ‘natura’, la ‘vita’ e quindi la realtà umana, nella sua accezione contadina, borghese, classica”. La “mutazione antropologica” ha prodotto la scomparsa irrevocabile di una lingua, di una storia, di una gestualità popolare, “alterità” critica e conflittuale rispetto alla uniforme subcultura del neocapitalismo dove la realtà è sostituita da simulazioni ingannevolmente manipolabili, riproduzioni artificiali, oggi diremmo “virtuali”.
Nel 1878 Ferdinand Tonnies aveva formulato il contrasto tra comunità, fondata sul sentimento di spontanea partecipazione, e società, basata sulla razionalità dello scambio, dominante nel mondo industriale (Laterza, 2011). La comunità è un organismo, estensione dei rapporti parentali e di vicinato, segnati dalla condivisione di linguaggi, ricordi ed esperienze comuni che rafforzano il senso di appartenenza per somiglianza. La società, al contrario, è un aggregato meccanico di parti, in cui gli individui vivono separati, in tensione gli uni con gli altri; le relazioni si stabiliscono solo sulla base degli interessi, in una competizione in cui non conta la specificità del singolo, ma la prestazione che è in grado di fornire. Jean-Luc Nancy ha osservato che la storia è sempre stata pensata sullo sfondo di una comunità arcaica perduta, di cui si continua a coltivare la nostalgia ed elaborare il lutto, si tratti della famiglia naturale, della polis ateniese o della repubblica romana, delle prime comunità cristiane o dei comuni medioevali. “La comunità potrebbe essere al tempo stesso il mito più antico dell’Occidente e il pensiero, tipicamente moderno, di una partecipazione dell’uomo alla vita divina: il pensiero dell’uomo che penetra nell’immanenza pura” (La comunità inoperosa, 1983, Mimesis). Sulle comunità aleggia però un’eco di morte: basti pensare alla “comunità di agosto” che vide nel 1914 raccogliersi nella civile Europa giovani entusiasti, soprattutto di estrazione borghese, alla notizia dello scoppio del conflitto.
Lo storico statunitense Eric J. Leed, in Terra di nessuno (Il Mulino, 1985), ha mostrato come il diffuso sentimento di adesione alla guerra si nutrisse del rifiuto della società, vissuta come luogo di conflitti e di interessi egoistici mercantili, a cui contrapporre una comunità, momento di ritrovata purezza degli ideali patriottici e di solidarietà disinteressata. In quella magica coesione si avvertiva risuonare lo spirito del popolo, l’individuo si annullava volentieri nell’organismo morale unitario che dava espressione all’identità nazionale riconquistata. Certo, la comunità di agosto, saldata dall’odio verso il nemico, era una “grande illusione”, per dirla con il titolo del film di Jean Renoir; verrà ben presto il disincanto nelle atrocità delle trincee, il comune sentire ideale non cancellava le differenze di classe, non si traduceva in vera uguaglianza.
Ma la Voglia di comunità, per dirla con Zygmunt Bauman (Laterza, 2007), non si è spenta, anzi è rinata nel mondo globalizzato, dominato da competitività e individualismo e in cui si avverte incertezza e instabilità. La comunità che ci manca è quella che garantisce in primo luogo sicurezza, presupposto di una vita felice, in cui le relazioni esclusive con i propri “simili”, all’interno di un gruppo omogeneo, sembrano garantire protezione e reciproco riconoscimento. Il “cerchio caldo” della comunità locale supplisce alle mancanze di uno Stato distante e inefficace, impotente a impedire l’ingresso di stranieri, potenziali criminali: ma la comunità sicura rischia di tradursi in un ghetto volontario. Maurice Blanchot ha indicato nel Maggio ‘68 il momento di effervescenza in cui la libertà di parola, rendendo trasparente la comunicazione, dava vita ad una comunione che non aveva bisogno di trovare in un nemico la propria coesione (La comunità inconfessabile, 1983, SE, 2002). Fu quello il momento in cui comunismo e comunità si toccarono, per perdersi subito; e forse questo è il destino di ogni comunità, come già era emerso nelle riflessioni di Georges Bataille negli anni Trenta. Pur muovendo dal riconoscimento della costitutiva insufficienza dell’individuo, la cui esistenza lacerata richiama per essenza la relazione con altri, Bataille aveva finito per scorgere nell’amicizia o nel rapporto tra gli amanti l’unica possibile comunione.
L’essere in comune sembra oggi declinarsi soprattutto nelle sue forme regressive, secondo logiche neo-tribali che affidano a simbolismi arcaici proposte di localismo etnocentrico. La nostalgia di piccole patrie saldate dal suolo e dal sangue si rafforza proprio quando la nuova generazione di nativi digitali, a cui è possibile connettersi con ogni angolo del mondo, inventa nuove comunità abbandonando le rive paludose del sentimento “nazionale”, il coagulante sociale responsabile delle catastrofi della nostra storia recente. “Muoiono le vecchie appartenenze, anche la Nazione, a cui abbiamo sacrificato, il più delle volte per nulla, milioni di nostri progenitori. E noi cerchiamo di inventarne di nuove, locali, per esempio, in cui si scambiano nuove monete, e anche globali, con i Social Network che riuniscono milioni di persone”, scriveva Serres in Non è un mondo per vecchi (Bollati Boringhieri, 2012). È certo vero che tra le virtualità di Internet vi è quella di decentralizzare e democratizzare il sapere, di sfaldare le gerarchie piramidali che costringevano gli “infelici molti” al ruolo di “cagnolini seduti ad ascoltare la voce dei loro padroni”. Ma nella transizione dal collettivo al connettivo, dal face to face allo screen to screen, lo scambio d’informazioni non si traduce in comunicazione, non esiste vera con-versazione (letteralmente “trovarsi insieme”), non s’impara a vivere con gli altri: “la tecnologia non fornisce un’educazione ai sentimenti”, scrive Aime. La comunicazione digitale a distanza elimina insieme al contatto fisico anche la condivisione di esperienze; la controparte scompare nella sua fisicità e lo smartphone finisce per trasformarsi in uno specchio che riflette, come tanti Narcisi, solo noi stessi. In un mondo sempre più interconnesso, la relazione non è più dall’uno ai molti come nei vecchi media, ma rimane unilaterale, ciascuno trasmette, ma nessuno ascolta.
Il diluvio di informazioni asettiche e incontrollate non solo rende facilmente manipolabile la fruizione dei messaggi, ma rischia di tradursi in analfabetismo dell’empatia; venute meno le emozioni suggerite dal linguaggio del corpo, diventiamo affettivamente miseri e se “Almeno il virtuale evita il carnaio”, come ha scritto Serres, rischia però di alimentare forme di secrezione dell’odio rafforzate dall’impunità.
L’homo digitalis non abita più i grandi spazi in cui si riunivano le masse, il suo è un assembramento senza riunione, manca il fuoco di un sistema simbolico, e senza una memoria condivisa non si costruisce un Noi. Aime ricorda di aver dedicato la sua tesi di laurea ai racconti di masche, figure simile alle streghe diffuse tra le montagne del cuneese e in genere nell’arco alpino, storie che, insieme a quelle di guerra e di lavoro, venivano narrate nelle veglie serali nelle stalle. Era il momento della socialità ritrovata che consentiva di trasmettere valori e insegnamenti e soprattutto di costruire l’immagine che il gruppo aveva di sé. Non abitiamo più nello stesso spazio, non viviamo più nello stesso tempo. Il Web non è un territorio, non è segnato, modellato da chi l’ha vissuto, non possiede toponimi per indicare luoghi di una memoria collettiva. Nell’epoca del consumo non sono solo le merci a venire rimpiazzate, diviene più difficile stabilire legami duraturi su cui instaurare rapporti di fiducia, che implicano aspettative di reciprocità e un investimento di tempo sul lungo periodo. Dalla fine del Novecento, il passato si è contratto, la memoria culturale sembra scomparsa e il futuro ha un respiro sempre più corto. Dai non-luoghi siamo passati al con-tempo, al presente permanente della Rete. Nell’epoca in cui i legami si sono fatti liquidi, conosciamo al più quel che Max Weber chiamava comunità “estetica”, dove non si tesse fra i membri una rete di responsabilità e di impegni a lungo termine, al massimo si mette a disposizione nella forma del file sharing, senza entrare in comunione.
Venuto meno il sogno di convertire, come auspicava John Dewey, la Grande Società in Grande Comunità, scontiamo gli esiti del neoliberismo, che ha finito per realizzare la convinzione di Margareth Thatcher, “non esiste una cosa come la società. Ci sono uomini e donne, e le famiglie”. Forse non c’è stata fatica più meritoria nella filosofia degli ultimi decenni del tentativo di pensare una condivisione fra soggetti che non sia fondata sull’identità comune, sul “proprio” e l’appartenenza, sempre pronta a scivolare nella logica dell’esclusione del diverso. E questo anche in Italia grazie soprattutto a Roberto Esposito (Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, 1998) e Giorgio Agamben in La comunità che viene (1990, ristampato da Bollati Boringhieri nel 2017). Ma anche se la società è ben lontana dallo spirito comunitario, la voglia di comunità non si estingue. “La comunità ci è data – o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un’opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare”, ha scritto Nancy. Roberto Esposito ha ricordato che l’etimo di communitas, cum-munus, rimanda al latino munus che significa originariamente dono, inteso come obbligo nei confronti degli altri e in ultima analisi denota ciò che non è proprio: “Il munus che la communitas condivide non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare”.
Aime presta particolare attenzione a quelle forme in cui si avvia una filosofia del co-, co-working, co-housing, ecc.; nel pieno della logica capitalistica, che esalta competitività e guadagno individuale, esse propongono stili di vita basati sulla condivisione, sulla messa in comune, contro la miseria dell’arricchimento privato. Era questa la logica originaria dei Kibbutz per i fondatori dello Stato d’Israele, era la logica delle comuni e dei collettivi degli anni Sessanta, l’epoca che ha visto l’apogeo della cultura dell’amicizia che, insegna la saggezza dei classici, è egualitaria e non persegue l’utile. Rispetto alla logica dello scambio, il dono implica la libertà di ricambiare o meno, libertà del tempo e del modo di farlo, libertà del rischio che si prende, visto che non c’è certezza di venire contraccambiati. Il dono presuppone fiducia, è promotore di relazioni e legami sociali, implica una perdita iniziale in vista di un guadagno per tutti. Così si originano beni comuni che sono fuori commercio, si sottraggono alla logica della proprietà; li abbiamo ricevuti da altri e dobbiamo trasmetterli, come la terra che ci è stata prestata dai nostri figli. Questa forma di comunità resta un’isola nel mare della desolazione sociale, arcipelago nell’inferno che abitiamo tutti i giorni, cercando di “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, scriveva Italo Calvino nel finale del suo libro più politico, Le città invisibili del ’72.
“La comunità che viene”, suggerisce Agamben, ignora presupposti di appartenenza, non si fregia di alcuna identità: il soggetto che la costituisce è il qualunque, il quodlibet, “l’esser tale che comunque importa”, l’essere desiderato (libet), qual-si voglia, come accade nell’amore. La persona è amata non per le proprietà che la rendono classificabile in un gruppo, ma solo ed esclusivamente per il fatto che è tal quale e non un’altra. Il superamento della scissione di universale e singolare è la condizione della sola etica possibile: “etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera”. Una comunità etica presuppone impegni a lungo termine, è vissuta come condivisione dei problemi di ciascuno, impone scelte che gettino le basi del futuro. La comunità si è fatta elettiva, non è il luogo in cui si nasce o si vive a determinarla, la condivisione non è data da un’origine comune. Siamo chiamati a decidere come e con chi essere in comune, come permettere alla nostra esistenza di esistere e di farsi storia. Non si tratta ogni volta di una decisione politica, ma è una decisione a proposito del politico: se e come permettiamo alla nostra alterità di esistere insieme, di determinare come stare nel nostro tempo. “Dobbiamo decidere di fare – di scrivere – la storia, esporci, cioè, alla non-presenza del nostro presente e alla sua venuta (in quanto ‘futuro’ che non è un presente che succede, ma la venuta del nostro presente). La storia finita è questa decisione infinita verso la storia”, ha scritto Nancy. Non è da affidare alla politica il compito di rinnovare una comunione perduta, ad ogni singolarità spetta tracciare i percorsi della sua comunicazione, della sua “estasi”, del suo uscire da sé per essere partecipe all’altro.
In passato il futuro era molto meglio di adesso, si usa dire: le generazioni precedenti potevano sensatamente prospettarsi condizioni migliori di quelle vissute dai propri genitori. Osserva Salvatore Natoli nel finale del suo recente Il fine della politica (Bollati Boringhieri) che anche le società contemporanee hanno una riserva di futuro, un futuro terreno, privo ormai di eschaton, senza prospettive di redenzione o di salvezza eterna. Venute meno le grandi narrazioni, la politica oggi si riduce all’immediato, al governo della contingenza, ma, pur consapevole che la sua opera avviene nello spazio di un perpetuo transitare, può conservare un telos: non una meta finale da raggiungere, ma una adesione al presente che sappia trarre dalle circostanze le possibilità che aprano al futuro e consentano alle generazioni a venire di trovare ancora gradevole dimorare sulla terra.