Portare la foresta nella città / L'ecologia di Hundertwasser
Nel 1931 a Vienna, quando Hundertwasser non ha ancora compiuto tre anni, muore Arthur Schnitzler. A volte sembra che le idee maturino lentamente, restando nascoste come semi nella terra, aspettando solo che intorno si faccia caldo, che il terreno sia pronto per non sbocciare inutilmente, l’humus deve essere stato preparato da altre idee che si sono appoggiate accanto e, impregnando il terreno, stratificandosi nel tempo, hanno pazientemente atteso il nascere di un nuovo albero, per nutrirlo e farlo crescere forte e pieno. Agli inizi del Novecento, a Vienna, il terreno è pronto per accogliere la scoperta che avrebbe colorato tutto il secolo: l’uomo mette il piede, per la prima volta da sveglio, sul terreno molle e infido dell’inconscio.
Succede nel cuore dell’Europa, dove i muri vibrano ancora della musica di Mozart e Strauss, e nei caldi caffè trionfa, discreta e dal gusto indecentemente sensuale, la Sachertorte, creata proprio a Vienna nel 1832 da Franz Sacher per Klemens von Metternich. Mi piace immaginare in quei caffè donne come l’enigmatica Alma Schindler, moglie di Gustav Maher che tradì con l’ussaro Walter Gropius, futuro colpevole del degrado delle nostre città e che ebbe indietro il torto commesso al genio musicale quando lei lo lasciò per lo scrittore Franz Werfel. Altri scrittori passano in quella Vienna e respirano la stessa aria di Freud e Schnitzler, gente come Frank Wedekind, Franz Kafka, Karl Kraus, Robert Walser, Stefan Zweig. Ognuno a proprio modo, tutti impegnati a scavare all’interno dell’anima, a esplorare con i mezzi dell’arte quello che Freud sta esplorando con quelli della scienza, tanto che in una lettera a Schnitzler datata 8 maggio 1906 lo psicoanalista chiede come lo scrittore possa sapere cose che a lui sono costate anni di lavoro.
Il 1906 è anche l’anno del primo viaggio in Europa di Leopoldo Lugones, che con Horacio Quiroga andava sviluppando in quegli anni una forma narrativa destinata a diventare prerogativa degli scrittori di Buenos Aires. Borges lo considerava il suo maestro e, attraverso di lui, Bioy Casares, Cortázar, Silvina Ocampo e altri narratori i quali sviluppano un genere di esplorazione dell’anima che può essere vista come lo specchio di quanto stava accadendo a Vienna. Mentre qui i fatti si svolgono tutti all’interno dei personaggi, a Buenos Aires tutto accade all’esterno, ma alla base c’è lo stesso mistero.
L’anima non può comprendere senza l’ausilio delle immagini, da Aristotele in poi quest’idea è ben radicata nella cultura occidentale e, oltre ad essere corresponsabile della predominanza attuale del senso della vista su quello dell’udito, è sicuramente un postulato per chi lavora con la comunicazione oggi, dove la prevalenza dell’immagine è, letteralmente, sotto gli occhi di tutti. Tommaso d’Aquino, nella sua Summa teologica, la sintetizza così: “L’anima non possiede la capacità di comprendere se non vi è una trasformazione (dei messaggi sensoriali) in immagini (phantasmata)” (I. P. Coulianu, I viaggi dell’anima, Mondadori, 1991). “Sotto il nome di phantasia o senso interno, lo spirito sidereo trasforma i messaggi dei cinque sensi in fantasmi percepibili all’anima, perché essa non può cogliere nulla che non sia convertito in una sequenza di fantasmi; insomma essa non può nulla capire senza fantasmi (aneu phantasmatos)” (I. P. Culianu, Eros e magia nel rinascimento, Bollati Boringhieri, 2006).
Nello sforzo di definire la corrente letteraria di Buenos Aires, si parla di fantastico, salvo che perdendo nel tempo le antiche valenze, ci è rimasta fra le mani un’equivoca letteratura fantastica nella quale si ammucchiano tutte quelle opere che non trovano altra collocazione e che sotto questa etichetta assumono un aspetto dimesso, un tono minore, quasi da ultime della classe, qualcosa che la letteratura alta guarda con sdegno, o meglio non guarda affatto, proprio come ognuno di noi fa con il proprio doppio oscuro.
Una luce la troviamo nel significato della radice phaìno – da cui derivano fantasia, fantastico, fantasma – che equivale a io mostro. A Vienna come a Buenos Aires gli scrittori ci mostrano l’invisibile, i mitteleuropei descrivendoci l’interno e i sudamericani trasformandolo in immagini esterne, gli uni e gli altri impegnati nell’aprire una finestra su di un’altra dimensione.
È precisamente quello che era convinto di fare Hundertwasser quando produceva le sue phantasmata: “Per me i quadri sono porte che apro – per quanto mi riesce – su un altro mondo molto vicino e insieme molto distante; un mondo a cui non abbiamo accesso, in cui ci troviamo ma senza rendercene conto, un mondo che si contrappone a quello reale. Il nostro mondo parallelo da cui noi stessi in una certa misura ci allontaniamo come estranei. È questo, il paradiso. Ci troviamo nel mezzo, ne siamo catturati e tuttavia una forza oscura ce lo preclude. Io, spingendole, sono riuscito ad aprire alcune finestre su questo mondo. Come abbia fatto, è difficile da spiegare. Sicuramente non con la forza, non per mezzo di una selezione o dell’intelligenza, e tanto meno con l’intuizione in senso stretto. Piuttosto, con una specie di sicurezza da sonnambulo” (H. Rand, Hundertwasser, Taschen, 2007). Dopo cento anni di psicoanalisi e dopo quanto si è detto sugli autori di Vienna e Buenos Aires, verrebbe automatico pensare che qui Hundertwasser stia parlando di finestre sull’inconscio. Ma potremmo vederla anche da un altro punto di vista: sicuramente l’inglese Charles Howard Hinton, autore di “romanzi scientifici”, già alla fine dell’Ottocento avrebbe letto in queste parole una chiara descrizione della “quarta dimensione”.
È del suo secolo la formulazione di questa ipotesi da parte della scienza, che a quel tempo si presentava come un’elegante spiegazione ai fenomeni visionari generalmente connessi con religione e magia. Oggi la questione non è dove iniziare a contare dopo la terza, ma dove finire, visto che i fisici arrivano a ipotizzare fino a dieci o undici dimensioni per spiegare le forze che agiscono nel nostro universo – o forse è meglio parlare già di universi, considerato che nel 2005 Leonard Susskind, fisico della Stanford University, nel suo Il paesaggio cosmico si diletta nello spiegare la teoria delle stringhe in un panorama che vede la presenza simultanea di 10500 universi, ciascuno con proprietà fisiche differenti.
Andiamo oltre ancora, c’è un’altra possibilità, quella di cui parlano molti mistici di tradizioni differenti e che Gesù di Nazareth riassumeva con le parole “il regno di Dio è dentro di voi”. Di quale paradiso sta parlando Hundertwasser? Qual è la forza oscura che ce lo preclude? Antonio, il primo eremita cristiano, li chiamava demoni e contro di essi combatteva furiose battaglie che arrossavano il cielo del deserto. Per liberarsene, una strada possibile pare sia quella della semplicità. Gesù nella tradizione islamica è visto soprattutto in qualità di asceta e mistico. “Quest’ultima caratteristica è messa in evidenza soprattutto da quei detti in cui egli raccomanda la povertà o una certa sobrietà nell’uso delle cose” (S. Chiallà, a cura di, I detti islamici di Gesù, Mondadori, 2009). Sentiamo Hundertwasser: “Per vivere basta davvero poco. Già allora avevo la mia filosofia. Dicevo: che sciocchezza volere sempre di più. I comunisti, i socialisti, i sindacati, tutti cercavano per prima cosa di ottenere di più, più soldi e più cose che si potessero comprare con i soldi. Cosa succederebbe se la gente, invece di volere sempre di più, scegliesse di avere sempre meno? Sarebbe sicuramente più felice, più sana, mangerebbe cibi meno ricchi di grassi, deciderebbe di disfarsi delle proprie automobili, andrebbe in bicicletta e coltiverebbe la verdura nell’orto; tutti avrebbero meno bisogno di denaro” (H. Rand, op. cit.).
Non è difficile leggere in queste parole un preciso riassunto delle battaglie ecologiche degli ultimi decenni. Hundertwasser è considerato, a ragione, un punto di riferimento per tutta la cultura ecologica e, in particolare, per i nuovi sviluppi dell’architettura. È squisita caratteristica di questo secolo l’avvicinarsi e l’intrecciarsi di mondi apparentemente lontani come l’agricoltura, l’architettura, l’alimentazione, il paesaggio, il design, mondi che s’incontrano su un terreno comune: quello comunemente denominato “verde”. In questo panorama, Hundertwasser, che voleva essere chiamato “mago della vegetazione” (Hundertwasser, Hundertwasser su Hundertwasser, 1975), svela il suo ruolo di guida dei nostri tempi, dove l’integrazione fra elemento vegetale e architettura è ormai un dato di fatto. Se ne cerchiamo le motivazioni, potremmo accontentarci di ricondurre tutto all’imbarazzante dilagare dell’effetto-verde che, con la scusa della sostenibilità, sta verniciando di green ogni settore dell’attività umana, dall’economia fino all’architettura. Se non ci accontentiamo, se sentiamo che c’è altro di là dalla moda, potremmo rischiare di addentrarci in campi più familiari agli antropologi, agli storici o ai medici, per scoprire che si potrebbe trattare di una semplice necessità biologica che qualcuno chiama biofilia, magari connessa al fatto che, nonostante tutto, continuiamo a essere quegli stessi animali che per almeno trecentomila anni hanno trascorso il proprio tempo fra praterie e foreste e che ora, dopo qualche migliaio d’anni di addomesticamento, intravedono la possibilità di riavere quell’ambiente, magari comodamente a casa propria.
Il rapporto di dipendenza di noi umani dall’elemento vegetale è evidente e con esso la relazione, molto meno scontata, fra agricoltura e architettura, ma basta scavare solo un poco nell’origine mitologica di entrambe, per trovarsi di fronte a una sostanziale unità. Così come nella fondazione di ogni spazio umano, che sia una città o un edificio, “l’agricoltura in origine fu percepita come un atto violento, in quanto l’uomo, praticandola, brutalizzava la natura, sua madre, e la dominava, al contrario di ciò che avveniva con l’orticoltura, che è una collaborazione intima, pacifica e addirittura simbiotica con la terra-nutrice” (J. Brosse, La magia delle piante, Ed Studio Tesi, 1992).
In questi anni abbiamo assistito allo sviluppo e consolidamento commerciale del “verde tecnico”, quelle tecnologie che integrano elementi vegetali al costruito. Si tratta in sostanza di sistemi integrati di materiali diversi che permettono di far vivere determinate specie di piante in una condizione che è definita “fuori suolo”. Il successo di un progetto che preveda queste tecnologie sta sì nella scelta accurata dei sistemi di realizzazione, ma soprattutto nella consapevolezza del fattore tempo, che è il vero messaggio di tutta l’architettura ecologica. In questo panorama, ciò che scriveva Hundertwasser negli anni Sessanta: “Le tecnologie per posare un prato, un bosco, giardini e alberi sugli edifici sono ormai talmente avanzate che non c’è più alcuna scusa per non avere un giardino pensile sul tetto” (Hundertwasser, Un bosco sul tetto, 1986) è non solo profetico, ma diventa un vero e proprio programma di lavoro. Hundertwasser precorre l’avanguardia dell’architettura contemporanea, quella che, usando la vegetazione come vero e proprio materiale da costruzione, vuole realizzare un nuovo modo di costruire che possiamo chiamare Vegetecture.
“Ho lavorato molto con i rivestimenti d’erba per i tetti, mi piace ricoprirli con la terra in modo che possano crescervi prati e alberi. In questo vi è qualcosa di molto particolare, che supera i confini dell’ecologia. È un atto religioso avere della terra sul proprio tetto e lasciare che le piante crescano sopra di noi; è un atto che ci concilia con Dio, con la natura. Forse non con il monoteismo cristiano o ebraico, ma con qualcosa di più ampio, più ancestrale, più lontano nel tempo – con una saggezza antichissima” (H. Rand, op. cit.). Anche qui Hundertwasser aveva visto giusto. È del 1989 la pubblicazione dei risultati di una ricerca archeologica condotta da Marija Gimbutas in cui si dimostra con i mezzi della scienza quello che i più arditi studiosi di mitologia sospettavano da tempo. È ragionevole pensare a un periodo lungo migliaia di anni, che va dal 4000 a.C. fino oltre il 7.000 a.C., in cui in Europa la figura principale di culti e credenze è una figura femminile alla quale ci si riferisce come alla “Dea”. Questa figura non va intesa come un doppio femminile del Dio al quale siamo abituati. È necessario concepire un sistema in cui mondo e uomo non sono separati, ma parte di un unico organismo. La foresta e gli alberi prima, e i culti legati alla fecondità della terra poi, sono tutte manifestazioni del senso del sacro che pervadeva ogni cosa e che aveva nella Dea e nei suoi simboli l’unico punto di riferimento.
Le date del mito e della storia coincidono. La nascita della civiltà, della città, della scrittura, coincide con l’avvento degli dei maschi e il conseguente rifiuto della spiritualità femminile, e con l’interpretazione e riscrittura della storia da parte dei vincitori, con le inevitabili deformazioni a loro vantaggio, tra le quali la più insidiosa è la cancellazione di tutto ciò che è stato prima della loro venuta, il mondo inizia allora, un’operazione talmente ben riuscita che è tuttora alla base della nostra educazione. I nuovi culti si espandono in Europa dal 4.000 a.C. Al culto della Dea e delle foreste si sostituisce quello degli dei maschi, la Dea è “scomposta” in tante figure femminili secondarie, mogli, amanti, figlie che ricalcano “in cielo” quello che sta avvenendo “in terra”. Un passaggio fondamentale per noi occidentali avviene con la nascita dell’idea del Dio unico, maturata in Medio Oriente e codificata nell’Avesta e nella Bibbia, i cui primi testi scritti non sono antecedenti al 1500 a.C. Qui si trova una delle radici dello scollamento fra uomo e natura: “Dio li benedisse e disse loro: - Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Genesi, 1,28). È avvenuto il passaggio.
L’uomo non è più parte della natura, ne è al di sopra, Dio stesso gli ha concesso il permesso di soggiogare la terra e ogni essere vivente. La Dea e le sue foreste diventano l’altro, lo sconosciuto cui attribuire tutti i caratteri della negatività. Si può affermare che noi siamo cresciuti, come specie, in unione completa e simbiotica con quello che ora definiamo “la natura”. Il nostro universo, per migliaia e migliaia di anni, è stato formato esclusivamente da rocce, fonti, praterie, alberi, foreste. Oggi dietro alla voglia di verde possiamo vedere riaffiorare le basi stesse della nostra specie. Se è vero che siamo cresciuti nella foresta, è l’esterno l’ambiente che ci è più congeniale. Non si tratta di uscire dalla città, al contrario. La sfida è portare la foresta nella città, facendola crescere in ogni spazio possibile: e qui la lezione di Hundertwasser diventa fondamentale.
Intorno al 1970, a bordo del mercantile di dodici tonnellate acquistato a Palermo e ribattezzato “Regentag”, Hundertwasser elabora la teoria del “Diritto alla finestra degli inquilini” e nel 1973 realizza nell’ambito della Triennale di Milano l’installazione “L’albero inquilino” piantando quindici alberi nei palazzi di via Manzoni. Basterebbero solo queste due idee a rivoluzionare completamente l’architettura contemporanea.
La prima è molto semplice: “È tuo diritto modificare secondo il tuo gusto la finestra e, fin dove arriva il tuo braccio, anche il muro esterno” (Hundertwasser, Il tuo diritto alla finestra – Il tuo dovere verso l’albero, 1972). Chi avesse dubbi sull’efficacia di quest’azione, può confrontare la Kunsthaus a Vienna prima e dopo l’intervento di Hundertwasser. C’è la stessa differenza che esiste fra la morte e la vita. Qualche maligno potrebbe dire fra Gropius e Gaudí.
L’altra idea, l’albero inquilino:
“L’albero-inquilino rappresenta una svolta, nella quale all’albero viene nuovamente attribuito un ruolo importante come partner dell’uomo.
La relazione uomo-vegetazione deve assumere dimensioni religiose. Solo se ami l’albero come te stesso sopravviverai.
[…] Le pareti sterili e verticali che delimitano lo spazio tra le case, di cui subiamo ogni giorno la tirannia e l’aggressività, si trasformano in valli verdi dove l’uomo può respirare liberamente.
Gli alberi-inquilini abitano una zona grande circa un metro quadrato, a forma di loggia, ben separata dallo spazio interno. Le finestre sono state fatte arretrare, dall’interno il visitatore può guardare gli alberi-inquilini e anche l’esterno. Un metro cubo di terra garantisce che gli alberi crescano quanto basta.
L’albero-inquilino paga il suo affitto in beni reali” (Hundertwasser, Gli alberi-inquilini sono messaggeri del mondo libero in città, 1980/1991/1996).
Qui siamo già oltre il verde tecnico, siamo in piena Vegetecture, nella realizzazione operativa del motto “Bring the forest in the city” che da qualche anno impregna la nuova cultura ecologica.
Ora, l’invito è a non considerare queste idee come “semplici” fantasie di un simpatico sognatore, un artista al quale tutto è concesso. Uno dei modi migliori per sbarazzarsi di un uomo il cui comportamento potrebbe rivoluzionare il nostro quieto vivere è quello di attribuirgli l’etichetta di artista o, peggio, di santo. Così la nostra coscienza è a posto. Non potremmo mai comportarci come lui, era un santo. Ci vuole solo un po’ di coraggio e umiltà. Per esempio, gli architetti dovrebbero incidere in una targa di ottone da lucidare ogni mattina queste sue parole: “Ogni architetto ha il sacrosanto dovere di riconoscere che ciò che ha realizzato non è affatto finito, ma piuttosto una semplice ossatura a cui gli inquilini dovranno dare una forma; che lui stesso non è in grado di costruire la casa adatta a ciascuno. L’architetto ha un solo dovere: costruire un’ossatura abbastanza robusta e sufficientemente variabile perché sia possibile eseguire parziali cambiamenti architettonici” (Hundertwasser, Manifesto per il boicottaggio dell’architettura, 1968).
Voglio chiudere questa divagazione con alcune parole che possono dare un’idea dello spirito che animava quest’anomalo pittore, artista, architetto o, semplicemente, uomo libero: “Le persone dovrebbero avere il diritto di modificare le case in cui vivono tanto all’interno quanto all’esterno. L’abitazione, questa terza pelle dell’uomo, dovrebbe evolversi, modificarsi, trasformarsi; ostacolare questo processo è un atto criminale tanto quanto ostacolare la crescita e lo sviluppo di un bambino. È esattamente questo che vediamo accadere continuamente in architettura e il mio lavoro ha lo scopo di opporsi a questa situazione” (Harry Rand, op. cit.).