Graeber e Wengrow: L’alba di tutto
Dimostrare che lo status quo non è inevitabile. Una costante ricerca di prove che dimostrino che l’attuale situazione del mondo non è l’unica possibile, mostrare che la narrazione comune nell’Occidente che ci spiega, come dice Diamond, che “Le grandi popolazioni non possono insomma funzionare senza leader che stabiliscono, dirigenti che rendono operative e burocrati che amministrano decisioni e leggi” è una visione non solo parziale, ma sbagliata e interessata della nostra storia di umani. Questo è essenzialmente L’alba di tutto, Una nuova storia dell’umanità, ponderoso risultato di una ricerca durata più di dieci anni fatta da David Graeber e David Wengrow e uscito in Italia per Rizzoli nel 2022.
I due David puntano subito l’attenzione su due autori che hanno più di altri contribuito a costruire le basi della narrazione che continuiamo a ripetere, Hobbes e Rousseau, le cui opere “hanno condotto alla visione moderna dell’evoluzione sociale: l’idea che le società umane si possano impostare secondo fasi di sviluppo, ciascuna con le sue tecnologie e forme di organizzazione caratteristiche (cacciatori-raccoglitori, agricoltori, società urbano-industriale eccetera).” E aggiungono “simili concetti affondano le radici in una reazione conservatrice alla critica della civiltà europea che cominciò a guadagnare terreno nei primi decenni del XVIII secolo. In particolare, è dall’ossessione tutta occidentale per la proprietà privata che deriva questa visione. “Rousseau, nel suo famoso esperimento mentale, concluse che ogni cosa si riduceva alla proprietà privata, soprattutto quella fondiaria.
Nel terribile momento in cui un uomo eresse una barriera e dichiarò Questo terreno è mio, e mio soltanto, tutte le forme successive di dominazione, e dunque tutte le catastrofi successive, diventarono inevitabili. Come abbiamo visto, questa ossessione per il diritto di proprietà come base della società e fondamento del potere sociale è un fenomeno squisitamente occidentale; anzi, se l’Occidente avesse un significato concreto, con molta probabilità si riferirebbe alla tradizione legale e intellettuale che concepisce la società in questi termini.” In un altro testo Graeber nota come i diritti di proprietà privata da parte di qualcuno che non fosse il Re, vennero riconosciuti per la prima volta solo alla fine del XVII secolo in Inghilterra (D. Graeber, Le origini della rovina attuale, e/o edizioni 2022, pag. 120). Le origini di quella critica, proseguono, non sono rintracciabili nei filosofi dell’Illuminismo, ma in commentatori indigeni della società europea, come lo statista nativo americano Kondiaronk. Ma chi era Kondiaronk, che qui viene presentato come simbolo della critica indigena alla colonizzazione europea?
1683, l’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arc ha diciassette anni, si arruola nell’esercito francese e viene mandato in Canada. Louis-Armand è un giovane sveglio e intelligente e nel giro di qualche anno diventa il vice del governatore generale, il conte di Frontenac. Nelle campagne di esplorazione impara l’irochese e il wendat e diventa amico di alcune figure politiche indigene, tra queste Kondiaronk, un uomo chiave della confederazione wendat, la coalizione di quattro popoli di lingua irochese. Convinto oppositore del cristianesimo, Kondiaronk è impegnato “in un complesso gioco geopolitico finalizzato a mettere gli inglesi, i francesi e le Cinque nazioni degli haudenosaunee gli uni contro gli altri, con lo scopo iniziale di evitare un disastroso attacco degli haudenosaunee ai wendat, ma con l’obbiettivo a lungo termine di creare un’alleanza indigena generale per respingere l’avanzata dei coloni.”
Nel 1703 Louis-Armand, che nel frattempo ha iniziato a farsi chiamare Lahontan, pubblica i Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sens qui a voyagé, quattro conversazioni fra lui e Kondiaronk, che nel testo viene denominato Adario. I contemporanei diedero per scontato che i dialoghi fossero inventati, ma negli ultimi decenni gli studiosi indigeni hanno riesaminato il materiale arrivando a conclusioni molto diverse. La figura di Kondiaronk emerge come quella di un uomo realmente esistito, e Graeber e Wengrow fanno del suo pensiero un nucleo base per la critica al modello europeo, sostenendo che la sua critica a costumi, religione, politica, sanità e vita sessuale sia come pungolo per il pensiero illuminista nel suo complesso, provocandolo e influenzandone lo sviluppo.
Alla ricerca delle origini della proprietà privata, Graeber e Wengrow, dopo aver dimostrato come soprattutto Rousseau sia responsabile della narrazione comune che continuiamo a ripetere in occidente, iniziano a trarre conclusioni: “possiamo sgomberare il campo una volta per tutte dall’idea prevalente secondo cui gli esseri umani vissero più o meno come i boscimani del Kalahari finché l’invenzione dell’agricoltura mandò tutto a monte. (…) Il mondo come esisteva poco prima degli albori dell’agricoltura era tutto fuorché un luogo di bande di cacciatori-raccoglitori girovaghi. Era caratterizzato, in molte zone, da villaggi e città stanziali, alcuni già antichi, oltre che da templi monumentali e da accumuli di ricchezze, in gran parte opera di officianti esperti di rituali e di abili artigiani e architetti.” L’esempio di Göbekli Tepe è paradigmatico, una serie di costruzioni monumentali risalenti almeno al 10.000 a.C. che mette in discussione ogni narrazione lineare della nostra storia.
Prende forma una visione del mondo in cui l’agricoltura non solo era conosciuta, ma veniva coscientemente rifiutata. “Il rifiuto sistematico di tutti gli alimenti domesticati è ancora più sorprendente quando ci si rende conto che molti popoli californiani e della costa nordoccidentale piantavano e coltivavano il tabacco, oltre ad altre piante che poi usavano a fini rituali o come beni di lusso da consumare durante banchetti speciali. In altre parole, conoscevano benissimo le tecniche per piantare e curare le specie coltivate, ma rifiutarono in blocco l’idea di piantare gli alimenti quotidiani e di trattare le colture come base della dieta.” Sulla base di queste informazioni, acquista nuova luce la scoperta che fra le prime coltivazioni documentate c’è il lino, risalente almeno al 7.000 a.C. e che veniva usato per confezionare abiti, che insieme alla lana è stato il materiale più usato per l’abbigliamento fino all’arrivo del cotone dall’India dopo la metà del Seicento.
L’alba di tutto è un libro complesso, pieno di informazioni, che a volte dà la sensazione di perdersi inseguendo sentieri improbabili che poi, inevitabilmente, sfociano nel discorso più generale che è una costante messa in guardia verso le narrazioni ufficiali della nostra storia che ha cancellato, ignorato o semplicemente trascurato dettagli che invece visti da un’altra prospettiva appaiono fondamentali, come nel caso del discorso sulle città. “Gli insediamenti abitati da decine di migliaia di persone fanno la loro comparsa nella storia dell’umanità circa seimila anni fa, in quasi tutti i continenti, dapprima come casi isolati e poi iniziando a moltiplicarsi. L’eterogeneità di questi centri rende difficile inserire le conoscenze attuali in un’antiquata sequenza evolutiva, dove città, Stati, burocrazie e classi sociali emergono tutti insieme. Non è solo che alcune delle prime città non avessero divisioni di classe, monopoli di ricchezza o gerarchie amministrative: esse presentano anche una variabilità tanto estrema da implicare, fin dall’inizio, una sperimentazione conscia in forma urbana.
L’archeologia contemporanea rivela, tra le altre cose, che pochissime di queste prime città mostrano segni di governo autoritario. (…) Di fatto le prime città grandi e popolose non comparvero in Eurasia, nonostante i vantaggi tecnici e logistici di quest’area continentale, bensì nella Mesoamerica, che non vantava veicoli a ruote o velieri, e neppure il trasporto a trazione animale, né tantomeno la metallurgia o la burocrazia alfabetizzata. Questo solleva un interrogativo ovvio: perché così tante persone finirono per vivere nello stesso luogo? La storia convenzionale ricerca le cause ultime nei fattori tecnologici: le città furono un effetto ritardato ma inevitabile della rivoluzione agricola, che inaugurò la crescita demografica e innescò una serie di altri progressi, per esempio nei trasporti e nell’amministrazione, il che rese possibile sfamare popolazioni numerose residenti in un unico posto. Poi tutte queste persone ebbero bisogno di Stati che le amministrassero. Come abbiamo visto, nessuna delle due parti di questo racconto pare scaturire dai fatti.” Graeber e Wengrow proseguono nell’analisi arrivando a ipotizzare che “l’agricoltura estensiva potrebbe essere stata il risultato, e non la causa dell’urbanizzazione.”
Uno dei meriti di L’alba di tutto è aver puntato l’attenzione sull’autoconsapevolezza dei popoli che l’Europa ha sempre considerato primitivi e sul fattore stagionale, che lungi dall’essere un mero regolatore climatico ha svolto una funzione che possiamo chiamare politica. Si è visto come molti di questi popoli si auto-organizzassero in senso gerarchico esclusivamente durante la stagione della caccia per poi tornare a un sistema di vita dove l’autorità di un individuo su di un altro era considerata uno dei mali peggiori. Proprio come nel caso dell’agricoltura, non era una questione di ignoranza, ma di scelta consapevole: “gli indiani delle pianure erano attori politici consci, profondamente consapevoli delle possibilità e dei pericoli del potere autoritario. Non solo smantellavano tutti gli strumenti dell’autorità coercitiva non appena finiva la stagione rituale, ma erano anche attenti ad assegnarli a rotazione ai vari clan o società di guerrieri: chiunque detenesse la sovranità un anno sarebbe stato sottoposto all’autorità altrui il successivo.”
L’alba di tutto va inserito nel grande fiume di interesse che sta provocando la dimensione del Tempo Profondo. Da più di un decennio si moltiplicano studi e approfondimenti su quella che continuiamo a chiamare preistoria e che invece si è rivelata come la parte più lunga e importante della nostra esistenza. È lì che stiamo cercando strategie per affrontare il nostro presente antropocenico e per scongiurare un futuro che sempre più sembra assomigliare all’inizio della nostra storia di uomini.