Vivere nella poesia / Furor Mathematicus, di Leonardo Sinisgalli
Dopo settant’anni torna in libreria negli Oscar Mondadori l’edizione più completa di Furor Mathematicus di Leonardo Sinisgalli (1908-1981) poeta e ingegnere, narratore, traduttore, saggista, disegnatore, art director, autore di documentari e programmi radiofonici, critico d’arte lucano. La ripubblicazione consacra nella sua piena attualità un’opera sublime quanto vicina a tutti e un genere mai visto prima nel panorama letterario italiano. Essa presenta un geniale dispositivo e un’elegante architettura interna che affida qualità espressiva anche all’impaginazione, ed è capace di coniugare, in virtù di ispirazione e scrittura eccezionali, sapienzialità popolare e religiosità cosmica − animistica, pagana, cristiana − con scienza e poesia. Il risultato, che soccorre e promuove la nostra vita personale e sociale, è qualcosa di più raro del radio, più comune dell’acqua, più crudele della verità, potremmo dire parafrasando Dylan Thomas; è l’immagine del mondo che fa cerniera fra passato e futuro, non si appiattisce sulle tecnologie e le macchine né su meri oggetti seriali di consumo e attrazione feticistica, ma fa vivere nella stessa dimensione la scienza e il progresso con l’arte e la fantasia, mentre anche speciali capacità creative, il buon gusto e le abilità artigianali, sono messi in valore.
Si tratta di un ritorno sperato e in qualche modo annunciato. Molti anni fa avevo letto l’iscrizione sulla sua tomba nella misteriosa arena del piccolo cimitero di Montemurro, con metafisici gironi degradanti di ampiezza illusoria, in apparenza capaci di accogliere moltitudini: «Ritornerò fra tre anni/ o tre secoli tra raffiche/di grandine nel mese/di giugno».
Il Furor è ricchissimo. I dieci dialoghi di L’Indovino e Horror vacui presentano rara intensità ed enigmatica eleganza. L’indovino ricorda, secondo il curatore del volume Gian Italo Bischi, giustamente un matematico, autore di un’ottima introduzione, i dialoghi di Kublai Kan e Marco Polo di Calvino in Le città invisibili. Io chiamo in causa per contiguità di senso gli Eroici furori di Giordano Bruno. Nel Dialogo I di Bruno si dice la forza generativa della poesia, che può cambiare il mondo perché non ha padroni: «la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti». A cui si può aggiungere il monito contro la hybris della passione accecante per la scienza, la fine di Atteone sbranato dai suoi cani nel Dialogo IV: aveva visto Diana, la divina Bellezza e Conoscenza nuda, e i cani la fiutano incorporata dall’intelletto dentro di lui, e perciò lo assalgono come preda designata. Sinisgalli scrive parole dure contro il rituale della scienza atomica, ormai incontrollabile e rarefatta: «I dilettanti trovano oggi sbarrate le porte del Tempio. La scienza atomica [ ] si è murata come un’ecclesia. Perfino i fedeli sono stati cacciati fuori: sono rimasti soltanto i Sacerdoti».
Horror vacui è invece una sorta di raccolta di pensieri e aforismi che ricapitolano i temi del Furor e raggiungono profondità allucinante. Non posso non segnalare le Trenta proposizioni (sulla poesia). Le altre sezioni ordinano ricordi e divagazioni, carteggi, le Promenades Architecturales, saggi di geometria, design e altro ancora sempre assai godibili. Vi sono pagine di critica su Scipione, Antonio Donghi, Pericle Fazzini e tanti altri compagni di strada. Nel saggio su Donghi colpisce una sorta di continuum pittura/scrittura poetica. In un passaggio del testo l’inquietudine dell’artista detta le parole, o le pennellate, per darci «un’immagine che c’intriga e ci dispera, come un panno ad una finestra, un colomba sui tetti».
Il Furor si sviluppa fra l’inizio del secolo ventesimo e il secondo dopoguerra col miracolo economico italiano. L’influsso positivo di Sinisgalli si farà sentire molto oltre, fino a i giorni nostri, echeggiando nelle diffrazioni del nuovo nei modi di vivere, di lavorare, di incontrarsi e di abitare, di viaggiare, di fare e diffondere, fruire cultura e arte.
L’autore del libro è un giovanissimo e poi giovane uomo, un «paysan che ragionava d’istinto», entusiasta dell’arte e assetato di sapere, con spiccata predilezione e talentuosa attitudine per la poesia, l’architettura e la matematica. Un uomo del Sud che si spinge nella capitale e al Nord negli anni Venti con vivacità di pensiero, con un prodigioso crescente bagaglio di letture e conoscenze, costruito senza internet. Fluisce da Eupalino a Wright ai classici dell’architettura, della filosofia e dell’arte, fino a Bodoni e le macchine di Raymond Roussel, ad Archipenko e Max Bill, Giacomelli e Lipchitz, attraversando per rivalutarne criticamente l’inutilità in architettura concetti esoterici come tetractys o albero sephirotico. La sua sintesi dei mondi culturali lo pone al livello di pensatore internazionale. La sua visione è rigorosa e tagliente. L’architettura non è quella che insegnano maestri che non hanno mai avuto in mano un filo a piombo o una livella, non è una metafisica del nero e del bianco, non è basata sul disegno ma sulla Luce, «la Casa è un nido fatto di piume, di fuscelli, di fango. La Casa deve sapere di fumo, di capelli, di cane».
Nel libro percepiamo tuttavia Sinisgalli come un amico geniale, fidato, senza spocchia e con tanta saggezza e sensibilità, e lo percepiamo nella sua matericità e prossimità immediata di corpo familiare, di mente che si espande, divaga ma raccoglie poi tutti i fili in un senso unitario delle cose, e ci accoglie morbida e sognante coi suoi doni. Ci conquista allo stesso modo in cui nel 1938 conquistò Olivetti ottenendo l’incarico di Art Director, in base a una conversazione e un curriculum consistente in poco più che un saggio forse di geometria e alcune poesie inedite.
La sua avventura nella realtà di fuori è a Roma e Milano. Qui studierà e scriverà in diverse, spesso difficili e anche drammatiche stagioni, qui stringerà le sue amicizie e i sodalizi più significativi, sia nel mondo dell’arte che in quello dell’ingegneria e dell’industria, in cui avrebbe dato un contributo fondamentale alla collaborazione fra artisti e impresa per la trasformazione senza shock culturale dell’Italia arcaica in un sistema socio-economico e produttivo moderno. Con gli occhi ancora pieni di immagini della terra natia, la “dolce provincia dell’Agri”, nei quali aleggiano le profondità arcane della Lucania, del mondo agreste di segrete presenze in cui incontrò le Muse (Vidi le Muse è il titolo di una sua raccolta mondadoriana di poesie del 1943) il giovane Leonardo (nomen omen verrebbe da dire pensando al multiforme ingegno) si rivela fin dall’inizio poeta maturo e maestro di pensiero sempre più grande capace di destreggiarsi fra le due culture, come si diceva allora, fra il mondo antico di sapienzialità tellurica e astrale, e il mondo della modernità nella versione da lui poeticamente umanizzata. Dove anche le formule matematiche corroborano la comprensione e spiegano la forza della poesia. Che si può esprimere, come Sinisgalli scrive in una lettera a Gianfranco Contini, col numero complesso a+bj. Numero che unisce il reale e l’immaginario (l’impiego dei termini è qui rigorosamente cartesiano-sinisgalliano e prelacaniano) e dove a e b stanno per il reale, essendo b il reale attivato dall’operatore immaginario j.
Sarà la scelta della poesia a far rifiutare a Sinisgalli l’invito di Enrico Fermi a entrare a far parte dei ragazzi dell’Istituto di Fisica di Via Panisperna, che lo avrebbe portato all’atomica anziché a una vita d’arte e di azione pubblica attraverso il suo estro professionale.
Nel suo animo accanto al pensiero scientifico risuona la parola poetica e riluce la vampa del fuoco sacro della magia delle cose che la sola speculazione scientifica mai comprenderà. Nel suo universo brilla la scintilla geniale e numinosa, ad esempio, in cui è racchiuso il segreto dell’Arte Muraria, che fa stare in piedi le case, templi, palazzi, acquedotti e anfiteatri. Immerso nella dolce follia della ricerca di un antico rito, ricorda di sé ventenne Sinisgalli, «Io non sapevo spiegarmi le sublimi conquiste dell’Arte Muraria se non come espressione di una sacra estasi o di un sacro terrore, e davo la colpa agli Etruschi di essere stati i primi a introdurre uno spirito laico. Se Iddio s’era servito dell’argilla per creare gli uomini e se il Cristo aveva edificato sulla pietra il suo tempio [ ] ciò voleva dire che ogni materiale aveva una destinazione prescritta e che bisognava capire il senso di ogni fibra e le particolari simpatie tra l’acqua, la pietra e la luce per “riguadagnare il cielo”».
E per costruire bene vanno usati come ingredienti dell’opera non solo calce e pietre, calcoli e misure, ma anche la previsione di provvidenziali interstizi, la conoscenza della luce e delle acque del luogo, la sapienza affondata nella realtà immateriale che riunisce le conoscenze venute da ogni filamento di materia impiegato nella costruzione, e interpreta magnificamente lo spazio. Nella Chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma «c’erano intercapedini, tra muri e colonne, in cui entrava una mano e che bastavano a dare l’aria sufficiente a rodere la rigidità di certe linee, la durezza geometrica dei contorni». C’era odore di cera bruciata, un’aria fuligginosa, la stessa «che doveva riempire gli studi di Borromini, Gongora, El Greco: una sostanza cerea imbrattava i loro tavoli, le loro mani, i loro fogli. La Chiesa di San Carlino pareva fatta di quella sostanza, che ha le nervature, lo stralucido dei vecchi scheletri, dei gusci d’uova, dei gusci di chioccia, quello splendore che è nei corni, nelle unghie, nei capelli».
Va pensata l’Aria perché «l’Architettura deve essere fatta per accogliere la voce, è come la cassa di uno strumento destinato a vibrare nell’aria». Va pensato lo Spazio con la geometria che non il pensiero astratto, ma l’occhio possa apprezzare. Una geometria come paradossale «grafia dell’invisibile, un’ottica trascendentale». Una geometria che «più che di regole visibili, più che di misure e di figure, è fatta di ordini, di corrispondenze, [ ] di allineamento di punti», di cui ci serve la «singolarità di certe curve, la indeformabilità di talune proposizioni». E sono un segreto rivelato dalla poesia anche l’immagine del filo che lega le cose del mondo, quelle che lui ha unito, senza che tutti lo percepiamo, e il tracciato del cammino della conoscenza. Essa s’invera solo se al freddo raziocinio, all’asciuttezza dei numeri accade di potersi integrare con la poesia e la sua cabala meravigliosa.
Questa sapienza ha le insegne della modestia del sapere di non sapere, è in bilico sull’orlo di un abisso nietzscheano, e forse per questo suggerisce a Sinisgalli parole alate per descrivere il miracolo acrobatico di Fred Astaire, «l’uomo o l’angelo che in ogni istante si salva dalla caduta, impuntandosi», che «è un’anitra che starnazza, incapace di sollevarsi a volo, e capace tuttavia di stare in bilico sulla voragine» con il suo frenetico tip tap.
Sinisgalli, sempre più importante e riconosciuto, vincitore di premi cinematografici alla Biennale di Venezia, traduttore di Baudelaire e Valery, autore di diverse raccolte di poesie e racconti, curatore di programmi per la RAI, amico di poeti come Ungaretti, Gatto, Quasimodo, e recensore di quadri di autori come De Chirico, Morandi, Viviani, ha lasciato la sua impronta umanizzante nell’immaginario e nei consumi del paese influenzando il design, suggerendo nomi (recensì per Mondadori i primi gialli dando il nome italiano al genere poliziesco) e immagini pubblicitarie per i prodotti industriali, idee per l’architettura e l’arredamento, come fondatore e direttore di riviste come “Pirelli” e “Civiltà delle macchine”, come collaboratore di Adriano Olivetti (art director della produzione dal 1938), come consulente di “Domus” e “Casabella", e diverse altre, attraverso i contatti e la realizzazione di campagne pubblicitarie con la grande industria (vedi le sue collaborazioni con Adriano Olivetti e Filippo Eugenio Luraghi, la collaborazione con Finmeccanica e Alfa Romeo, l’ENI dove è chiamato da Enrico Mattei e Alitalia), attraverso la sua partecipazione al gruppo di architetti e artisti che si riunivano intorno a Edoardo Persico, dando così il suo contributo al mito dell’Italian Style.
Il sogno intrigava alquanto Sinisgalli, facendo risaltare la nettezza e i colori delle immagini della veglia, nel contrasto coi suoi surreali toni di grigio. Ne immaginava la genesi in una sovrapposizione di lastre fotografiche, corrispondenti a immagini in noi immagazzinate, di cui nessuno sapeva dir nulla: “Chi ordina, chi conserva questo prezioso materiale? Chi ne fa il montaggio ogni notte? Chi confonde i panorami, chi ripete periodicamente le stesse scene? Io non lo so. Forse neppure Freud lo sa”. Diceva che le figure del sogno fanno gesti di lentezza estrema, “si muovono come le stelle”, e così si spiega perché Proust impiega trenta pagine per descrivere un bacio. “In verità quel bacio, – sono le prime pagine del libro, Longtemps je me suis couché de bonne heure... –, il piccolo Marcel lo riceve mentre si addormenta da sua madre”.
ln un periodo magico della sua vita tutti i suoi amici si stupivano del fatto che Leonardo andasse molto presto a letto la sera. Nessuno sapeva, come invece lui sapeva, che in quel periodo ogni notte gli si presentavano meravigliosi sogni di architetture che realizzava qua e là per il mondo, che lui attendeva con trepidazione.
Il sogno ha orrore della luce, ma oggi, con l’avvento del cinema, notava Sinisgalli, gli uomini hanno enormemente accresciuto le loro possibilità di sognare.
Il suo sogno indica una meta fantastica e incredibilmente a portata di mano, quella di nutrire e far risplendere la vita con la poesia, e di donare domicili dignitosi e spazi vitali secondo l’insegnamento di Wright: «L’uomo chiede soltanto, sulla terra, uno “spazio umano più generoso”. Tanto più necessario perché «L’uomo moderno è destinato a perdere il suo domicilio, [ ] si porta appresso le sue radici: non riesce ormai che ad abbarbicarsi a questa o a quella città. È un profugo, è un viaggiatore è un esiliato».
Il padre di Sinisgalli era tornato dopo aver cercato fortuna in America, ritrovando la serenità delle origini, quel posto sulla terra cui ciascuno di noi avrebbe diritto: «L’uomo che torna solo/A tarda sera dalla vigna/Scuote le rape nella vasca/ Sbuca dal viottolo con la paglia/Macchiata di verderame./L’uomo che porta così fresco/Terriccio sulle scarpe, odore/Di fresca sera nei vestiti/Si ferma a una fonte, parla/Con un ortolano che sradica i finocchi./É un uomo, un piccolo uomo/Ch’io guardo di lontano./È un punto vivo all’orizzonte./Forse la sua pupilla/Si accende questa sera/Accanto alla peschiera dove si asciuga la fronte».