Pianoforte e orchestra / Beethoven sfida il “mercato”
Oltre le narrazioni fantasiose, manca la prova che nell’aprile del 1787 a Vienna l’allora trentunenne Mozart abbia incontrato e magari ascoltato suonare un promettente ragazzotto tedesco appena sedicenne, di nome Beethoven. Questo fa sì che il più significativo collegamento “pratico” fra i due sommi musicisti – un grado di separazione, adottando la nota teoria sociologica – sia costituito da una bottega di fabbricanti di pianoforti. Il titolare si chiamava Johann Andreas Stein e aveva sede ad Augusta quando Mozart, in viaggio per Parigi nell’autunno del 1777, conobbe i suoi fortepiano, restandone folgorato. In una celebre lettera al padre si coglie nitidamente la sua esaltazione di fronte alla scoperta: «Posso toccare i tasti come voglio, il suono sarà sempre uguale. Non strascica, non è troppo forte né troppo debole e non è mai assente; in una parola, va sempre bene». La grande novità era il meccanismo chiamato in gergo “scappamento”, che lo stesso Amadeus descriveva come meglio non si potrebbe: «Quando si toccano i tasti, i martelletti ricadono indietro subito dopo aver toccato le corde, sia che si tengano premuti, sia che li si rilasci».
Gli strumenti di Stein – da allora sempre prediletti – avrebbero assunto per Mozart un ruolo fondamentale nella sua poetica pianistica. Una rivoluzione rispetto sia ai fortepiano precedenti che alle varie tastiere provenienti dalla tradizione barocca: l’ingresso nell’epoca del suono come valore espressivo, veicolato anche dalle variabili di colore. Si trattava di un’evoluzione che a sua volta avrebbe enormemente accresciuto la popolarità dello strumento, ampliandone la diffusione e allargando il mercato delle musiche ad esso destinate.
Mozart avrebbe sfruttato da par suo questa situazione, non solo nell’ambito delle composizioni per pianoforte solo o in combinazione cameristica con pochi strumenti, ma anche e soprattutto in un genere del quale si può per molti aspetti considerare il fondatore o quanto meno il perfezionatore in chiave classicistica, dopo le varie prove degli autori del primo Settecento, da Bach in poi: il Concerto per pianoforte e orchestra. Non particolarmente curato da Joseph Haydn (più incline semmai al sonatismo per tastiera), il genere fu coltivato da Mozart fin dall’adolescenza, diventando una delle colonne della sua attività a Vienna negli anni Ottanta del Settecento: il compositore ne era anche l’interprete nell’ambito di accademie o concerti “in sottoscrizione”, cioè eventi pubblici a pagamento, che mettevano in moto un giro d’affari non trascurabile pure in ambito editoriale e didattico. In particolare, nel giro di tre anni, a cavallo della metà di quel decennio, Mozart scrisse una dozzina di Concerti (il suo catalogo ne comprende 27): quasi tutti lavori straordinari per nitore e duttilità formale, caratterizzati da un fervido rapporto fra l’innovativa varietà del suono pianistico e l’eleganza della tavolozza orchestrale.
Il tramonto della stella mozartiana, rapido come la sua ascesa, coincise con la fine del successo come pianista-compositore – una vicenda assai complessa su cui i biografi si esercitano da sempre – ma non significò la chiusura del mercato appena nato. Anzi, esso continuò a svilupparsi impetuosamente anche dopo la morte del salisburghese (1791), nell’ultimo decennio del secolo, lanciando una serie di virtuosi, autori delle opere che suonavano, dei quali oggi rimane traccia sbiadita nelle storie e nulla nel repertorio: Leopold Antonin Koželuch, Johann Franz Xavier Sterkel, Josef Gelinek, Jan Vanhal, Emanuel Aloys Förster e molti altri. La “domanda” era vivace, in rapida espansione. Non per caso la figlia di Johann Stein, Maria Anna detta Nanette, poco dopo la morte del padre, avvenuta nel 1792, aveva trasferito l’attività a Vienna, dimostrando di avere la perizia tecnica e commerciale in grado di consolidare l’affermazione della ditta, che avrebbe avuto notevole e non breve fortuna durante l’Ottocento. Beethoven la conobbe piuttosto bene (ecco il collegamento) e non diversamente da Mozart apprezzava grandemente le caratteristiche degli strumenti Stein: «Forse lei non sa – le scriveva nel 1817 – che fin dal 1809 ho sempre preferito i vostri pianoforti, anche se non sempre ne ho avuto uno». Prima del 1809 il compositore tedesco aveva usato un pianoforte pure viennese, fabbricato da Anton Walter, costruttore che si era già fatto prediligere da Mozart nei suoi ultimi anni.
Per questo tipo di strumenti, esattamente come il salisburghese, Beethoven cominciò a scrivere Concerti per pianoforte una volta che si fu definitivamente trasferito a Vienna, nel 1792. Evidentemente anch’egli coinvolto nella sfida di raggiungere la popolarità e il benessere come pianista-compositore. Il mercato era sicuramente affollato ma in ogni caso promettente, soprattutto in considerazione del fatto che il giovanotto di Bonn come pianista era di gran lunga più dotato dei suoi competitori, e come compositore ci aveva messo pochissimo per imporsi all’attenzione del pubblico che contava, quello dell’aristocrazia viennese.
La sua potente e insopprimibile vocazione creativa assoluta, ma anche la sordità incipiente, crescente e infine disperante, che rendeva sempre più problematica l’attività esecutiva, decisero altrimenti. Solo i primi due Concerti, infatti, possono essere considerati frutto dell’impegno come pianista-compositore e furono da Beethoven eseguiti, in qualche caso ripetutamente, anche nel corso di “tournée” che lo portarono a Praga, Dresda, Lipsia e Berlino. Già con il Terzo Concerto – che per questo rappresenta in certo modo una sorta di crinale musicale – si entra in una dimensione diversa, che afferma l’inizio di un percorso nuovo mentre riassume ed esalta la lezione mozartiana più profonda (il modello è il prediletto Concerto K. 491 in Do minore, 1786, uno degli unici due in modo minore del salisburghese e il più drammatico). Non a caso, le esecuzioni del Terzo da parte di Beethoven avvennero in contesti un po’ diversi da quelli tipici del pianista-compositore: solo a Vienna, inserite in programmi tanto vasti quanto articolati e dedicati a generi multipli. Così sarebbe accaduto anche per il Quarto, che segna il culmine assoluto dell’esperienza beethoveniana nell’ambito del Concerto per pianoforte e che sarà anche l’ultimo ad essere suonato dallo stesso compositore. Dopo il Quinto, il Concerto per pianoforte e orchestra uscirà dagli orizzonti di Beethoven. Al di là della forza innovativa nel disegnare un nuovo rapporto fra strumento solista e orchestra, la concezione che ne aveva il musicista legava strettamente il fatto creativo e quello esecutivo. Ma il secondo gli era precluso.
In ordine cronologico, il primo Concerto scritto da Beethoven è quello in Si bemolle maggiore op. 19, che però fu pubblicato dopo quello in Do maggiore e quindi è catalogato come n. 2. Pensato fin dal 1792, sbozzato fra il 1794 e il 1795, rifinito cinque anni più tardi con la completa sostituzione del Rondò originale (e pubblicato a Lipsia solo nel 1801), il pezzo fu eseguito per la prima volta a Vienna nel marzo 1795, con Antonio Salieri in veste di direttore e naturalmente Beethoven alla tastiera; altre due volte, alla fine di quell’anno e all’inizio del successivo 1796, a capo dell’orchestra salì il grande Joseph Haydn. Di entrambi questi autori il tedesco era teoricamente allievo (perché in entrambi i casi il rapporto fu appunto più teorico che pratico), ma la loro presenza testimonia soprattutto il prestigio che il venticinquenne Beethoven era riuscito a guadagnarsi come pianista-compositore. Scritto per un’orchestra assai meno ricca del n. 1, che invece ha la strumentazione che sarà lo standard di tutti gli altri (nel n. 2 mancano clarinetti, trombe e timpani), questo Concerto ha una delicatezza vivace molto più marcatamente mozartiana di quello che lo segue e mostra un Beethoven decisamente acerbo, ancora indeciso sulla strada da percorrere per affrancarsi dal modello del salisburghese.
Il Concerto in Do maggiore op. 15 fu messo a punto fra il 1795 e il 1798 in una prima versione e due anni più tardi ebbe la sistemazione definitiva, consegnata alle stampe nel 1801. Fu Beethoven stesso, come si diceva, a tenerlo a battesimo, probabilmente a Praga nel 1798 e a suonarlo in seguito varie volte, compresa la documentata esecuzione viennese avvenuta il 2 aprile 1800. Il compositore recepisce forma e stile della parte più estroversa della tradizione mozartiana: primo movimento di carattere “marziale” o “militare”, con trombe e timpani in bella evidenza e virtuosismo brillante nella parte solistica; secondo movimento (in questo caso, un Largo) di accentuata profondità emotiva, con ricerca coloristica interessante non solo nella parte pianistica, ma anche nell’accompagnamento orchestrale, in cui tacciono, con trombe e timpani anche flauti e oboi, lasciando spazio solo ai fiati dalla tinta più scura: clarinetti, fagotti e corni. Il terzo movimento vede esplodere quella idea di brillantezza votata all’umoristico che secondo lo storico del pianoforte Piero Rattalino è tipica dei Concerti beethoveniani.
Quale fosse la strada dell’originalità Beethoven lo aveva nettamente più chiaro nel 1803, quando, la sera del 5 aprile al teatro An der Wien, presentò il suo terzo Concerto per pianoforte, cui aveva lavorato a partire dal 1800. Lo stesso compositore sedeva alla tastiera in occasione della prima, ma le sue condizioni gli impedirono poi di affrontare altre esecuzioni, come quella che un anno dopo vide protagonista il suo allievo Ferdinand Ries. La serata fu una delle più rilevanti “accademie” interamente dedicate al compositore tedesco: nel programma figuravano anche la Sinfonia n. 2 e l’Oratorio Christus am Ölberge (Cristo sul monte degli ulivi).
Sul Concerto op. 37 n. 3 in Do minore le valutazioni critiche sono tutt’altro che uniformi. La più radicale in negativo è forse quella di uno dei più geniali pianisti della seconda metà del secolo scorso, Glenn Gould, che lo ha descritto, «malgrado la sua ampiezza e il suo vigore innegabili», come «il più debole di tutti i Concerti di Beethoven». Gould basava la sua stroncatura su motivi essenzialmente formali, ma onestamente non disconosceva il tratto più marcatamente personale di quest’opera comunque coinvolgente: “ampiezza e vigore” disegnano bene i tratti di uno stile che sta per superare le ultime scorie della maniera classicistica per affermare un discorso molto personale, che va oltre il gusto della sorpresa per seguire la soggettività espressiva dell’autore con sempre più nitida efficacia. Ad esempio, il primo movimento non si limita alla citata maniera “militare”, come era stato nel Concerto n. 1, ma disegna una drammaticità ben altrimenti profonda, del resto esemplata anche in analogia tematica con il concerto mozartiano favorito, quello nella stessa tonalità di Do minore, K. 491. E come ha chiosato Rattalino, se è vero che qui Beethoven rende omaggio a Mozart, «è altrettanto vero che in nessun caso Mozart aveva fatto entrare il solista come Beethoven lo fa entrare nel Concerto n. 3»: tre doppie scale in “sforzato” e la riproposizione del tema con energica, autonoma sottolineatura drammatica.
Questa caratteristica costituisce il filo rosso di tutto il movimento fino alle perorazioni conclusive e alla Coda, che esalta se possibile ancor più la contrapposizione fra i temi. Segni indubitabili di originalità anche nel Largo centrale, non fosse che per la scelta armonica del Mi maggiore, tonalità lontanissima da quella di impianto, che regala un effetto disorientante e nello stesso tempo esalta la dolce, luminosa invenzione melodica, con il pianoforte quasi ovattato (Beethoven prescrive il “sordino”) in dialogo con un’orchestra nella quale oboi, clarinetti e trombe tacciono mentre flauti, fagotti e corni si ritagliano un ruolo di primo piano.
La più logica evoluzione del discorso iniziato con il terzo Concerto si avrà nel 1809 con il Concerto per pianoforte di Beethoven più popolare ed eseguito, il n. 5 in Mi bemolle. Nel frattempo, però, nel 1808 vide la luce il vero capolavoro della serie, il Concerto in Sol maggiore op. 58 n. 4. Tale lo qualificano la straordinaria novità rispetto al solco della tradizione classica e la sublime poesia costruita sui valori del suono, in un rapporto fra strumento solista e orchestra che supera i banali concetti di integrazione e opposizione. La libertà formale che si afferma fin dalla prima battuta, con il sommesso attacco del pianoforte capace di “dettare” all’intera orchestra il clima coloristico ed espressivo, oltre a quello tematico, era stata solo intuita da Mozart nel giovanile Concerto K. 271 (1777), laddove al motto del tutti subito risponde con sfrontata brillantezza il solo. Ma in Beethoven il rapporto s’inverte. Apre il pianoforte, l’orchestra si adegua. E nel secondo movimento, Andante con moto, il rapporto fra i due protagonisti sembra rovesciarsi in un confronto drammatico di inaudita tensione: l’orchestra, a soli archi, impone in un recitativo perfino brutale il cosiddetto “principio di opposizione”, mentre quello “implorante”, proprio come in una scena drammatica impersonato dal pianoforte, viene infine ridotto al silenzio. La sintesi emerge nel conclusivo Rondò, una delle invenzioni beethoveniane più luminose e intimamente cordiali, lontanissima ormai dal cliché della brillantezza umoristica, trionfo di una soggettività capace di superare il dramma per approdare a un vittorioso equilibrio.
Il Quarto fu dedicato all’Arciduca Rodolfo d’Austria, forse eseguito già nel marzo del 1807 nel palazzo del principe Lobkowitz, poi inserito nel lungo programma dell’accademia del 22 dicembre 1808 al teatro An der Wien, dove fu suonato da Beethoven in una serata che comprendeva anche la Quinta e la Sesta Sinfonia e la Fantasia corale per pianoforte e orchestra op. 80, che sarebbe stata pubblicata solo nel 1811.
Quest’ultima è una pagina di singolare originalità, sia sul piano formale – è costituita da due soli movimenti – sia per le scelte stilistiche del compositore. L’iniziale Adagio è riservato al pianoforte solo e ha tutto l’aspetto di una Toccata all’antica maniera. Le testimonianze della serata al teatro An der Wien riportano che in quell’occasione Beethoven, seduto alla tastiera, si lanciò in una vasta improvvisazione, circostanza che sottolinea bene il carattere particolare, per certi aspetti “cerimoniale” della composizione. L’Adagio come lo conosciamo oggi fu in effetti composto e fissato una volta per tutte solo alcuni mesi dopo.
Segue un Finale, nel quale dapprima il pianoforte dialoga con le varie famiglie strumentali dell’orchestra in un contesto di Variazioni piuttosto brillanti, e quindi fa il suo ingresso il coro con voci soliste, per il suggello vocale-strumentale. Queste caratteristiche rendono la Fantasia una sorta di “cartone preparatorio” dell’ultimo movimento della Nona Sinfonia, non soltanto per le scelte musicali e formali – dialogo fra coro e orchestra, sviluppo variatistico – ma anche da un punto di vista strettamente tematico: il compositore adotta infatti una melodia che compare già in un Lied risalente al 1795, la cui somiglianza con il tema dell’Inno alla Gioia è evidente. Di più, anche il “clima” civile e morale delineato dal testo conduce nella stessa direzione. Beethoven commissionò le parole al poeta Christoph Kuffner. «Quando Amore e Forza si uniscono – dice la conclusione – il favore di Dio ricompensa gli uomini». Mancavano ancora più di quindici anni alla Nona, ma la strada era già tracciata.
All’epoca dell’esecuzione pubblica del Concerto in Sol maggiore e della Fantasia corale, già Beethoven stava pensando a una nuova composizione per pianoforte e orchestra. In essa la vecchia concezione del Concerto “marziale” confluisce senza cesure nella personalissima visione epica ed eroica che Beethoven aveva forgiato con la Terza Sinfonia, non a caso nella stessa tonalità di Mi bemolle. E del resto, mentre la composizione procedeva, nella primavera del 1809, Vienna finiva bombardata dai francesi e anche brevemente occupata. E Beethoven, non diversamente dai suoi compatrioti, si riconosceva nel nazionalismo tedesco che gli Asburgo sollecitavano e favorivano per tentare di arginare lo strapotere bellico di Napoleone. Così, ecco fiorire negli appunti per il Concerto in Mi bemolle op. 73 n. 5 annotazioni come “Canto di trionfo per la battaglia”, oppure “Assalto” e “Vittoria”. Il che rende quanto meno paradossale la spuria e postuma intitolazione “Imperatore”, oggi popolarissima. Non può trattarsi, ovviamente, di Bonaparte. A lui Beethoven aveva pensato di intitolare la Terza Sinfonia, pochi mesi prima che si autoproclamasse imperatore: per questo il musicista lo aveva “cancellato”, letteralmente e idealmente. E se si trattasse dell’imperatore della casa d’Asburgo, saremmo qui di fronte all’intitolazione a un monarca le cui armate furono rovinosamente sconfitte a Wagram – a pochi chilometri dalla capitale Vienna – il 5 e 6 luglio 1809.
Semmai, “imperiale” in senso psicologico è la temperatura espressiva di questo monumentale Concerto composto in tempo di guerra. Uno spirito autenticamente sinfonico pervade la partitura, con eloquenza alta e tornita, tipica di un linguaggio non esente dalla retorica, ma anche profondamente umano e coinvolgente. E la parte solistica si incarna in un virtuosismo di inusitata brillantezza e corposità, determinando il clima di una composizione che non raggiunge forse le vette poetiche del Quarto ma lo affianca quanto a potenza creativa mentre impone il ruolo del pianoforte come “primus inter pares” rispetto all’orchestra, allo stesso tempo splendidamente autonomo e magistralmente “integrato”.
Anche a causa degli eventi bellici, la prima viennese del Quinto Concerto si tenne solo nel febbraio 1812, solista Carl Czerny, allievo di Beethoven. La prima assoluta era avvenuta pochi mesi prima, nel novembre 1811 a Lipsia, nello stesso periodo della pubblicazione. Beethoven non lo suonò mai.
Se i primi due Concerti per pianoforte di Beethoven mostrano chiaro il legame con una tradizione rispetto alla quale il musicista realizzava solo un parziale superamento, ben diverso è il discorso per gli altri tre, e specialmente gli ultimi due. In questi lavori si afferma incisivamente un’idea innovativa che alla particolare forza espressiva unisce – in rapporto di causa ed effetto – anche una speciale ricerca sul suono e sui rapporti fra strumento solista e orchestra. Nel corso dell’Ottocento, la “visione” beethoveniana sarebbe rimasta sotterranea e quasi ignorata per settant’anni, mentre il Concerto per pianoforte percorreva una vicenda di straordinaria ricchezza e varietà. Sarebbero venuti, vivente ancora il musicista tedesco, gli anni del cosiddetto “Concerto Bidermeier”, nel quale l’orchestra era ridotta a un ruolo subalterno, quasi schiacciata dalla rutilante, a volte perfino pacchiana preponderanza del virtuosismo solistico; sarebbe maturata dopo la sua morte la svolta romantica – da Mendelssohn a Liszt, da Schumann a Čajkovskij – caratterizzata dalla ricerca di unità formale attraverso le scelte tematiche e di esaltazione virtuosistica della tastiera nella dialettica con una scrittura quasi sinfonica per la parte orchestrale. Ma solo l’apparire dei Concerti per pianoforte di Brahms, e specialmente del Secondo (1881) avrebbe visto riemergere perentoriamente l’assunto beethoveniano dell’unità di pensiero e della molteplicità di suono intorno al confronto fra pianoforte e orchestra. Una dialettica dinamica, mobile, nobilitata dalla profondità soggettiva dell’espressione e dalla energia oggettiva della forma musicale. Al tramonto del XIX secolo, il “classicismo rivoluzionario” beethoveniano trovava in Brahms la sua forse ultima manifestazione, una delle più luminose e autentiche. E con essa vedeva affermarsi una volta per tutte la potenza creativa e l’originalità con le quali il genio di Bonn aveva saputo “rifondare” il genere mondano per eccellenza. Trasformando il Concerto per pianoforte e orchestra da musica di consumo a musica assoluta.
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