Riedizioni / Bernard-Marie Koltès: avamposto sul limite estremo
Troppo teatrante per la letteratura e troppo letterario per il teatro: l’opera di Bernard-Marie Koltès è l’emblema di quel vuoto di posizione in cui la scrittura teatrale è percepita in Italia, un paese dove il drammaturgo è una specie di figura omissiva, una creatura fantasiosa e ibrida che, da vivo, esiste spesso solo per luce riflessa. Tanto più se, come Koltès, si è autori teatrali come lui lo è stato: fedele a un’idea di scrittura teatrale oltranzistica, torrenziale, poetica nel modo più verboso e spudorato. Una scrittura che va a sfidare il letterato, convinto che la scrittura teatrale non sia “vera letteratura”, ma anche il teatrante, che davanti alla pagina fluviale e (apparentemente) statica di Koltès ha subito l’istinto di dire: questo non è teatro, ma letteratura. Un equivoco che viene da lontano, che ha fatto sì che un autore che è in Francia già un vero e proprio classico, una figura tra lo sciamano e l’icona rock (Koltès, oltre ad essere morto molto giovane, era un uomo bellissimo), fosse finora presente in traduzione italiana solo in sparse pubblicazioni episodiche, da tempo introvabili. Quella lacuna oggi viene finalmente colmata: Arcadiateatro pubblica un’edizione completa delle opere teatrali di Koltès, tre volumi (due già disponibili, un terzo in uscita) che raccolgono l’opera completa del drammaturgo francese, dalle opere giovanili fino ai testi canonici, corredata dai saggi critici di Arnaud Maïsetti e Graziano Graziani.
Attraversare tutta l’opera di Koltès rende chiara innanzitutto una cosa: l’aderenza tenace a un’idea di scrittura. Quella di Koltès è una concezione del teatro radicale, testarda, quasi mistica. Ora sappiamo che lo è stata fin dagli esordi giovanili di Strasburgo: già allora, nelle riscritture da Gorkij e Dostoevskij, gli senti nella scrittura quello sgomitare, l’ansia di andare a perlustrare un confine: verificare certe tenute, spingere verso un luogo più estremo. “Cammineremo”, scrive in L’eredità, radiodramma del ‘72 finora inedito, “cammineremo, cammineremo per ore, con gli occhi spalancati. Partire, lasciandosi la luce alle spalle, la sordida e pesante luce senza segreti, e ipocrita, e ingannevole. Uscire, la porta chiusa per sempre alle nostre spalle, avanziamo e cerchiamo, avanziamo dritti senza scegliere, senza vedere niente, e camminare, camminare, camminare ancora”.
Una drammaturgia della fuga in avanti, della vocazione. Koltès ha sempre trattato la scena teatrale come lo spazio di un’emergenza: “Il palcoscenico lo intendo come un luogo provvisorio”, dice in un’intervista, “che i personaggi non smettono mai di pensare di abbandonare. La sfida del teatro è questa: abbandonare il palcoscenico per ritrovare la vita reale. Resta naturalmente inteso che non so affatto se la vita reale esista da qualche parte, e se abbandonando il palcoscenico alla fine i personaggi non si ritrovino su un altro palcoscenico, in un altro teatro, e così via. Forse è questa domanda, fondamentale, che permette al teatro di durare”.
L’opera di Koltès esiste proprio in questa permanente evasione dalla “verosimiglianza del mondo”: evasione che diventa immediatamente una contestazione. Fuori da qualsiasi tentazione naturalistica, da ogni convenzione di dialogo, nella sua opera non c’è niente che sembri assomigliare alla “vita reale”. È un’idea del palco quasi rituale, dionisiaca: trattare il teatro come il luogo del contatto con un’alterità assoluta, che strania e stravolge nello stesso tempo, lo spazio di un senso sempre in transizione.
Non è un caso, credo, che la maggior parte dei testi di Koltès si svolgano in luoghi di frontiera (dichiarati, come in Quai Ouest o Storie morte, oppure suggeriti, come in Lotta di negro e cani e Nella solitudine dei campi di cotone): spazi metafisici, confini, terrene di nessuno; situazioni dove le identità si sgretolano, l’incertezza diventa agguato, pericolo fisico e filosofico. Questi luoghi, queste parabole di confine che funzionano da terreni di collisione tra i mondi, vengono condensati tutti nello spazio potenziale del teatro: il palcoscenico come luogo di frontiera per eccellenza. È l’intuizione di Andrea De Rosa nella sua recente regia di Nella solitudine dei campi di cotone, vista a Napoli nell’estate 2020: il Dealer, Federica Rosellini, vestita con un paludato costume settecentesco, diventava un’ipostasi del teatro stesso: la merce venduta al cliente Lino Musella era il teatro – un teatro non come intrattenimento del borghese, convenzione di una cultura comoda, un repertorio da preservare come da nozione ministeriale, ma il teatro come offerta di sé, ipotesi di un’alterità assoluta e straniante, il perimetro di un turbamento impossibile altrove.
Il teatro, insomma, come luogo dell’Altro. Ne è un segno anche la presenza costante e ostinata, in Koltès, del personaggio di colore: il Nero, un pendant tutto novecentesco del fool shakesperiano. Il Nero è la messa in atto drammaturgica di questa alterità irriducibile – un punto di vista sempre esterno, il soggetto emarginato, espulso dal corpo sociale: e quindi dotato, pasolinianamente, di una sorta di privilegio sacro, un’eccezionalità capace di destare scandalo. La qualità primaria di questo scandalo è che esso non può in nessun modo essere inglobato dallo sguardo del Potere. Il Nero è il simbolo di ciò che può anche essere svilito, allontanato, ostracizzato, umiliato e perfino ucciso, ma mai digerito, assimilato, mai mimetizzato. Egli è ciò che non si può risolvere nelle categorie dei vincenti. La sua è una storia diversa, una storia altra. Una storia alternativa – una storia possibile. Quello che ci tocca in La notte poco prima delle foreste – per citare solo il suo testo più fortunato e popolare – non è solo la sua disarmante attualità con la cronaca di oggi e le questioni legate all’immigrazione clandestina; ma anche qualcosa di non diverso dalla selvaggia metafisica della Solitudine nei campi di cotone o dallo scandalo del corpo che sta al centro di Lotta di negro e cani. L’Africa di Koltès non è un inferno e neanche un paradiso, la sua Africa è un analogo del suo teatro: un luogo misterico e rischioso, un luogo del possibile.
Il teatro di Koltès è sempre, in ogni senso, l’attacco a un sistema, la contestazione di un modo canonico di fare teatro. Il teatro di oggi spesso da quell’orecchio non ci sente, e con Koltès continua spesso a non voler fare davvero i conti, trattandolo – anche lì dove lo produce nei suoi cartelloni – come un corpo estraneo, uno special anomalo che più o meno funziona ma non insegna nulla, e soprattutto non produce una nuova idea di fare e programmare il teatro all’interno di un’urgenza pienamente contemporanea. Koltès fu del resto sempre molto esplicito nell’attaccare un teatro – quello a lui contemporaneo – troppo abitudinario nel rivolgersi quasi solo al ‘repertorio’:
Un regista si crede eroico se mette in scena un autore di oggi fra sei Shakespeare o Čechov o Marivaux o Brecht. Non è vero che autori di cento, duecento o trecento anni fa raccontino storie di oggi; si possono certo fare paralleli; ma, no, non mi si farà credere che le storie d’amore di Lisetta e Arlecchino siano attuali. Cosa si penserebbe di un autore che si mettesse a scrivere, oggi, storie di paggi e di contesse in castelli settecenteschi? Sono il primo ad ammirare Čechov, Shakespeare, Marivaux e a cercare di imparare da loro. Ma, anche se la nostra epoca non annovera autori di questa grandezza, penso che sia meglio portare in scena un autore contemporaneo, con tutti i suoi difetti, che dieci Shakespeare. Nessuno, e men che meno un regista, ha il diritto di dire che non ci sono autori. Certo, non se ne conoscono, perché non vengono portati in scena, e perché oggi è considerata una fortuna incredibile essere rappresentati in buone condizioni; mentre invece è il minimo. Come volete che gli autori migliorino se non si chiede loro niente e se non si cerca di trarre il meglio da quello che fanno?
Leggendo Koltès in questa forma, ora che si è guadagnato la statura del classico, la sua opera appare così, come un’interrogazione a tutto campo. I suoi testi e le sue posizioni funzionano come teoremi selvaggi, quasi provocazioni: la sua è l’immagine di una novità perenne, una scrittura sempre nel contemporaneo – una drammaturgia del pericolo, dello smarrimento e del desiderio. Come dice il Dealer della Solitudine: “Non sono qui per dar piacere, io, ma per riempire l’abisso del desiderio, per richiamare il desiderio alla mente, per costringere il desiderio ad avere un nome, per trascinarlo a terra, dargli forma e peso, con la brutalità che c’è nel dare forma e peso a un desiderio”.
L’ultima fotografia, di Mario Spada, ritrae un momento di Nella solitudine dei campi di cotone, regia di Andrea De Rosa, 2020.