Raffigurano o parlano? / L’immagine senza titolo

12 Marzo 2017

Al pari della cornice, anche il titolo rientra nella categoria delle soglie, dei dintorni dell’immagine, secondo l’accezione che gli hanno dato Gerard Genette e Jacques Derrida, che nel suo La verità in pittura le attribuisce perfino una funzione o un carattere di verità. Dal momento che l’immagine è un oggetto visibile, un artefatto volto a far vedere, per capire cosa rappresenta dovrebbe bastare il semplice atto del guardarla, ci si dovrebbe poter limitare a riconoscere e descrivere quello che mostra al nostro sguardo: in breve, essendo destinata all’occhio, dovremmo attenerci a quel che il nostro organo della visione rileva, senza cercare suggerimenti o indicazioni aggiuntive, nella fattispecie un titolo, che possa chiarire o aiutare a vedere meglio o diversamente quello che appare raffigurato. 

Intorno all’immagine, a delimitare i bordi dello sguardo, in realtà, non ci sono soltanto i limiti fisici del supporto su cui è dipinta, ma vanno inclusi anche i titoli, quali elementi soglia e orientanti la visione dell’immagine. Anche se il problema che pone il titolo all’immagine dipinta è alquanto recente, l’assegnazione di esso non è mai stata una decisione semplice e scevra da conseguenze per la visione della stessa immagine.

 

Secondo una tradizione logocentrica di pensiero, l’immagine senza le parole sarebbe muta: per poter comunicare, le immagini dipinte hanno bisogno delle didascalie. Ma allora, le immagini si devono vedere o leggere? Raffigurano o parlano? All’interno della loro visualizzazione o della loro lettura, quali funzioni deve eventualmente svolgere il titolo? Deve limitarsi a definire con un altro linguaggio ciò che già l’immagine riproduce, oppure deve ampliare la percezione della stessa alludendo anche a ciò che lo sguardo non scorge al suo interno? O deve invece assegnarle un’identità anche linguistica? 

Il titolo delle immagini nasce con la pittura narrativa (mitologica) e con la ritrattistica, generi in cui è necessario identificare i personaggi e i soggetti ritratti, la cui omissione impedirebbe la corretta e completa interpretazione del contenuto raffigurato: un uomo a torso nudo potrebbe essere riconosciuto sia come un atleta, sia come un eroe, sia come un giovane, sia come un martire. La pittura ci insegna che il rapporto tra quanto indica il titolo e quanto mostra l’immagine non è così scontato come si è portati a credere, e non è nemmeno così neutrale o surrettizio, ma può essere molto controverso e generare perfino stravolgimenti esegetici tra ciò che il titolo induce a pensare e quel che l’occhio vede riprodotto. Particolarmente illuminanti a tale riguardo sono, tra i tanti che si potrebbero menzionare, alcuni dipinti eseguiti da pittori molto diversi tra loro sia per poetica sia per periodo storico. 

 

Se il dipinto di Bruegel noto come Il misantropo evoca e invoca il proprio titolo, dice Michel Butor, diversamente fanno altre opere. Prendiamo ad esempio il Ritratto dell’Imperatore Massimiliano (1519) di Albrecht Durer, all’interno del quale il pittore scrive (o forse dipinge letteralmente la scrittura?) un titolo che è molto più di una semplice didascalia o di una spropositata sottolineatura dell’identità del personaggio raffigurato, in quanto presenta i caratteri di una vera e propria biografia del soggetto, comprensiva di sperticati elogi ed encomi solenni: 

Il potentissimo eminentissimo invittissimo Cesare Massimiliano che tutti i re e principi del proprio tempo in giustizia prudenza magnanimità liberalità e soprattutto in virtù bellica e in fortezza d’animo sopravanzò è nato l’anno dell’umana salvezza 1459 il 9 marzo è vissuto 59 anni 9 mesi 25 giorni è morto l’anno 1519 il giorno 12 del mese di Gennaio e lo voglia Iddio ottimo Massimo nel novero dei viventi riportare”. 

Come si vede, si tratta di un vero e proprio certificato anagrafico del personaggio ritratto, che aggiunge all’immagine precise informazioni, la cui funzione non interferisce affatto con la fruizione del significato estetico della medesima. Il modo in cui guardiamo un’immagine di cui ignoriamo il titolo e di cui non sappiamo cosa “deve” o “intende” rappresentare, né conosciamo quale possa essere stata la motivazione e l’intenzione comunicativa che ha spinto l’autore a realizzarla, è del tutto diverso da quello in cui la guarda chi conosce il titolo. Le differenti condizioni di partenza inducono le due categorie di osservatori ad adottare due distinte strategie visive che, innanzitutto, sono caratterizzate da una sostanziale diversità d’attenzione e livello di coinvolgimento: le due categorie di soggetti, infatti, non solo vivranno quest’esperienza percettiva con diversa intensità emotiva, ma anche i loro atteggiamenti mentali saranno orientati e sintonizzati su diversi livelli di attese e aspettative.

 

Di fatto, la conoscenza preliminare del titolo di un dipinto, considerata comunemente come un necessario riferimento alla sua visione, agisce come un vettore sull’orientamento dello sguardo dell’osservatore, predisponendolo e indirizzandolo verso una precisa interpretazione o ricerca del contenuto a cui il titolo allude o esplicitamente indica. La funzione ausiliaria e didascalica del titolo non è mai innocua, né ingenua, giacché la sua adozione equivale all’implicita accettazione di una precisa chiave interpretativa, che esercita una coercitiva doppia azione, retrospettiva e precettiva, sulla visione dell’opera, suggerendo da un lato cosa vi è stato visto, e indicando dall’altro cosa vi si deve vedere: da ciò deriva come immediata conseguenza l’attribuzione di uno specifico interesse dello sguardo del pittore per quella specifica categoria di soggetti. 

 

Il periodo in cui il titolo diventa il vero protagonista nel mondo dell’arte fu decisamente la seconda metà del secolo scorso, allorché questo “paratesto” pittorico assumerà una importanza nuova, tale da imporre una controversa tematizzazione e ridefinizione dello statuto ontologico dell’opera d’arte. All’osservatore esperto di immagini dipinte risulta alquanto agevole rilevare quanto il titolo di un dipinto possa indurre lo sguardo a focalizzarsi su certi aspetti piuttosto che su altri, istituendo gerarchie tra i vari soggetti figurativi contenuti nell’immagine. Talvolta, in particolari dipinti, in ragione di un intenzionale invito alla riflessione sull’ontologia dell’immagine, il titolo viene esplicitamente formulato in modo da contraddire quanto l’immagine raffigura, come nel caso del celebre dipinto di Magritte Ceci n’est pas une pipe, in cui il testo dipinto è soltanto il primo grado del titolo, perché fuori dal quadro ne esiste un altro, che il pittore surrealista utilizza per indicare in modo più chiaro ciò che è denunciato nell’opera: La trahison des images. In altri contesti, la funzione del titolo può rovesciare i ruoli nel dialogo tra guardante e guardato, autore e soggetto, spettatore e soggetto ritratto, come nell’intrigante opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto del pittore concettuale italiano Giulio Paolini.

 

 

Il titolo assegna all’immagine (abitualmente assunta come l’oggetto da guardare) il potere di esercitare a sua volta uno sguardo che osserva il pittore che la sta dipingendo. L’osservatore attuale che si trova davanti al dipinto avverte di essere un intruso, di ostacolare e interrompere questo legame visivo, ma dal momento che occupa la posizione che a sua volta fu del pittore, ne assume, stando al titolo, vicariamente la presenza, vivendo così l’esperienza di sentirsi osservato dallo sguardo dipinto, di essere un oggetto guardato piuttosto che un soggetto guardante.

 

In altri casi, il titolo può perfino conferire un nuovo statuto, assegnando uno specifico valore sociale ed economico, oltre che un preciso significato e identità alle cose, come nel caso dei ready made di Marcel Duchamp, per il quale un orinatoio viene identificato come una fontana, come oggetto d’arte che merita di essere esposto nei musei al pari di un’opera d’arte. Talvolta, il titolo indica qualcosa di misterioso e surreale, sprovvisto di qualsiasi apparente connessione logica con l’oggetto al quale viene associato. Il titolo di un’altra opera di Duchamp, La mariée mise à nu par ses célibataires, même, la cui traduzione letterale sarebbe La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche, indicherebbe la presenza di una figura femminile, probabilmente in abito da sposa, là dove non vi sono altro che forme geometriche, cilindri e cerchi, figure astratte e fenditure prodotte dall’incrinatura della lastra di vetro che funge da supporto all’intera opera. All’interno della stessa logica, che assegna al titolo il potere di definire, affermare, smentire, tradire, conferire e perfino privare di ogni valore e riconoscimento, rientra il caso limite dell’atto notarile ed estetico, nonché artistico che l’americano Robert Morris assegna a un attestato al quale attribuisce il valore legale di ritrattazione dell’artisticità di una sua opera, declassata a semplice oggetto materiale, in quanto il suo autore non la considera più arte, attraverso un formale “Documento (Dichiarazione di ritrattazione estetica).” Di recente, poi, negli ultimi decenni del Novecento, molte opere d’arte sono accompagnate da una sorta di titolo ossimorico: un titolo che afferma che non esiste il titolo, che l’opera non ne possiede alcuno: questa negazione d’esistenza è sintetizzata da due lapidarie parole, Senza titolo, spesso nella locuzione inglese, Untitle.

 

Questo genere di opere rinuncia al titolo perché ciò che mostra è di per sé esaustivo, del tutto eloquente e univoco, oppure perché è stato concepito in modo da richiedere la specificazione di non avere un titolo, il che è qualcosa di molto differente rispetto al fatto di mostrarsi come un artefatto che può farne a meno. Se si tratta di opere che non hanno necessità di avere un titolo, può significare che si devono soltanto guardare perché il loro contenuto è “semplicemente” acquisibile per via visiva e va riferito solo a quello che l’occhio vi vede; oppure può voler dire che esse non sono “titolabili” in quanto non definibili con le parole; o infine perché non prevedono un unico titolo, ma sono aperte a molteplici titoli che, di volta in volta, a seconda di come vengono interpretate, ogni osservatore conferirà loro. Nella logica di quest’ultima accezione, la mancanza del titolo non va intesa come denuncia di un’assenza di significato, bensì come meccanismo atto a presentare l’opera in quanto artefatto caratterizzato da un bordo intenzionalmente dischiuso, aperto e in attesa di completamento o definizione, funzione che spetta all’osservatore il quale, con la sua immaginazione, è chiamato a completare l’opera assegnandole un titolo. Al contrario rispetto all’ultimo caso descritto, con l’intento di bilanciare il depauperamento semantico e funzionale subìto dal titolo, si pone un genere molto radicale ed estremo di lavori artistici per i quali il titolo costituisce di fatto l’opera d’arte: la definizione del termine “arte”, presa dal dizionario, ingrandita e stampata viene esposta nelle gallerie come un’opera d’arte dal pittore concettuale Joseph Kosuth. Gli esempi potrebbero essere molto più numerosi e articolati di quelli fin qui indicati, ma quanto riportato è sufficiente ad acquisire quel minimo di consapevolezza del fatto che i significati delle parole contenute nel titolo di un’immagine possono esercitare molteplici funzioni: denotative, didascaliche, assertive, evocative, tautologiche, digressive, non necessariamente in sintonia con i contenuti visibili. 

 

Talvolta, anche per ragioni di natura espressiva o poetica, i titoli vengono intenzionalmente utilizzati per produrre un effetto di contrasto tra i due registri, il verbale e l’iconico, confidando proprio sul fatto che la forza comunicativa della parola può essere spinta fino a prevaricare, distorcere e perfino stravolgere ciò che l’immagine raffigura. Il ruolo che la parola ha svolto nell’arte pittorica non è univoco, ma è spesso trasgressivo, contraddittorio, deviante e perfino rifiutato. Altre volte la parola viene utilizzata con l’intento di far emergere tutta l’irriducibilità delle due forme di comunicazione, che si possono contaminare e sostenere a vicenda solo fino a un determinato punto limite, dato che, oltre l’estrema orbita del proprio potenziale semantico si produce un salto del proprio statuto ontologico. È quel che avviene con la poesia visiva, dove la lettera oltrepassa il margine dello specifico linguistico per assumere caratteri e proprietà dell’altro statuto. La parola non è più letta come un insieme di lettere, gruppo di significanti alfabetici, trascrizione grafica di un suono o di un significante fonetico, bensì viene utilizzata per le sue intrinseche qualità figurali, la cui visualità è molto simile a quella dell’immagine. Ne consegue che essa venga apprezzata e giudicata per quel che mostra agli occhi e non per quel che rinvia alle orecchie, come già a suo tempo ci teneva a precisare Leonardo. 

 

I testi che hanno affrontato le intricatissime relazioni tra la parola e l’immagine sono numerosi, da quelli miniati dai monaci amanuensi medievali alle lettere del capoverso dei salteri, ai carmi figurati, magistralmente studiati da Giovanni Pozzi nel suo La parola dipinta, alla raffinata grafica dei libri d’ore del duca Jean de Berry del XIV secolo, alla sperimentazione grafico-visiva dei poeti, dai Calligrammes di Guillaume Apollinaire a Le parole in libertà di Filippo Tommaso Marinetti, ai poeti concreti della Poesia visiva, alle Tesi e asserzioni dell’arte concettuale degli anni settanta del secolo scorso. 

Questa tematica, trattata in un paragrafo del mio ultimo libro Nell’occhio del pittore. La visione svelata dall’arte, Einaudi, Torino 2016, ci fornisce elementi di riflessione anche in qualche caso, molto più attuale, come il fotogiornalismo e l’assegnazione del più importante premio fotogiornalistico al mondo, assegnato dalla giuria del World press photo, presieduta dal fotografo della Magnum Stuart Franklin.

Il 15 febbraio del 2014 lessi un bellissimo articolo di Marco Belpoliti pubblicato sul quotidiano La Stampa, dal titolo “Una preghiera alla luna in cerca di un segnale”, che trovai particolarmente poetico: scritto con la leggerezza di un alito, ma penetrante come un’emozione. Una lettura magistrale dei significati e dei rimandi politici, sociali e umani a cui allude il titolo, “Segnale”, della fotografia vincitrice del World Press Photo dello stesso anno. Il motivo per il quale ci riferiamo a questa immagine, scattata dal fotografo americano John Stanmeyer, è che non è particolarmente bella, né raffigura qualcosa di singolare o di clamoroso. Limitandosi a quel che essa oggettivamente raffigura, la si potrebbe catalogare come la riproduzione di un banale fatto di cronaca: alcune persone in piedi su di una spiaggia, in piena notte, alzano al cielo il display luminoso di un telefonino acceso. 

 

 

Ciò che fa di questa immagine un artefatto visivo molto toccante e che le conferisce un contenuto emozionale e documentario pregnante non è da cercare in qualche qualità intrinseca di natura estetica o tecnica, ma essenzialmente nel “senso” che il titolo attribuisce a quel gesto: lungo la costa di Gibuti alcuni migranti africani alzano al cielo i loro telefoni cellulari per catturare il segnale dalla vicina Somalia e contattare i parenti lontani. È attraverso il “significato” che la giuria del premio ha visto l’immagine, giudicandola come la raffigurazione di “un evento o una situazione di grande rilievo giornalistico raccontati in un modo che dimostra sensibilità visiva e creatività.”

Ciò che, in modo molto eclatante, questa immagine mette in evidenza riguarda proprio la funzione determinante che svolge il titolo: è dall’attribuzione di uno specifico significato al gesto raffigurato che scaturisce la forza emozionale dell’immagine. Eloquenti, in tal senso, sono le motivazioni date dalla giuria: la foto espone i temi della globalizzazione, la tecnologia, la migrazione, la povertà, l’alienazione, l’umanità. È un’immagine potente e sofisticata, così sottile e poetica, ma intrisa di significato. Trasmette questioni di grande gravità e la preoccupazione del mondo di oggi”. 

Tuttavia niente impedirebbe di vedere dietro al gesto con cui si porta in alto il telefonino anche ben altre intenzioni: i soggetti potrebbero compierlo con l’intento di fotografare il cielo stellato o la luna che illumina la scena; per farsi un selfie; o, come indica il titolo, per cercare “campo”, ovvero intercettare le onde radio che consentono al telefono di connettersi. 

 

Anche se la necessità pratica di sollevare il cellulare in alto, al fine di intercettare le onde radio che permetterebbero al telefonino di collegarsi a un ripetitore, potrebbe anche essere non del tutto fondata: com’è noto la lunghezza d’onda delle radiofrequenze utilizzate per i telefonini è compresa tra il metro e i dieci centimetri, ragion per cui, tenere il telefonino in tasca o sollevarlo in alto non comporta alcuna variazione significativa della ricezione del campo, in particolare poi all’aria aperta, né consente alcuna comunicazione vocale senza l’ausilio delle cuffie. 

Pertanto, coloro che, ignorando il titolo, osservassero l’immagine per quel che icasticamente riproduce non avrebbero molte incertezze nel descrivere cosa essa raffiguri. Nulla impedirebbe loro di riconoscere nell’immagine una scena del tutto priva di impatto emotivo: un gruppo di persone che, in un remoto angolo del mondo, subisce l’irresistibile bisogno di imprimere nella memoria digitale del telefonino l’immagine di quell’istante in quel luogo. Questa eventuale lettura dell’immagine verrebbe confermata dal fatto che la postura delle figure e l’orientamento del display dei cellulari sembrano indicare l’atto attraverso il quale abitualmente si inquadra il cielo stellato o la stessa luna. 

 

Il titolo, in questo caso, certificando il contenuto visuale dell’immagine, si attribuisce anche uno statuto di verità, in mancanza del quale la fotografia non eserciterebbe alcuna empatia sulla coscienza del fruitore e perderebbe qualsiasi rilevanza sociale, politica e umanitaria. Come ha ben spiegato Jerrold Levinson, i titoli costituiscono spesso una parte integrante e in molti casi perfino una proprietà essenziale di un’immagine, poiché essi possiedono un potenziale oltre che comunicativo anche estetico molto rilevante.

Seppure l’ambito e le funzioni siano differenti tra loro, un significativo interesse suscitano anche i titoli dati ai libri, particolarmente quelli dati ai romanzi: oggi sono diventati un fattore decisivo del loro successo commerciale e, andando ben al di là del compito accessorio di indicare il contenuto, assumono sempre più spesso il ruolo, opportunamente studiato, di suscitare nel lettore allusioni e suggestioni intenzionalmente ammiccanti.

Basti ricordare tra le numerosissime pubblicazioni, anche molto recenti, i romanzi di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, e di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, come esemplificazione di titoli “azzeccati” che hanno esercitato un sicuro appeal sul lettore e una conseguente spinta al loro successo commerciale. 

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