La storia del mondo scritta dagli alberi
“Istruzioni per vivere una vita. Prestare attenzione. Stupirsi. Raccontarlo” o, nella versione originale: “Instructions for living a life. Pay attention. Be astonished. Tell about it.”
Si apre in esergo, con questi versi della poetessa statunitense Mary Oliver, il recente volume di Valerie Trouet, Gli anelli della vita. La storia del mondo scritta dagli alberi, edito in italiano da Bollati Boringhieri nel Febbraio di quest’anno (l’originale è del 2020): e in effetti non c’è modo migliore per introdurre il lettore alla professione dell’autrice, la “dendrocronologia”, dal termine greco dendros, albero, e ovviamente da chronos, una disciplina che ai giorni d’oggi è diventata uno dei principali strumenti per lo studio delle intricate interazioni fra foreste, esseri umani e clima. Disciplina e passione che erano sconosciute alla stessa Trouet prima del 1998 quando all’università di Gand, in Belgio, iscritta ad un Master in ingegneria ambientale, si trovò a scegliere un progetto di ricerca per la tesi, e avvedendosi che i suoi compagni si erano assicurati tutti quelli più interessanti, che prevedevano viaggi e ricerche all’estero, senza esitazioni accettò la proposta di un docente di ecologia della vegetazione e anatomia del legno: l’ipotesi di uno studio sugli anelli degli alberi in Tanzania. Detto, fatto (con non poche perplessità dei genitori) ma così comincia una carriera. Di grandi soddisfazioni, vale la pena anticipare.
Che contando gli anelli della sezione di un tronco d’albero se ne calcola la lunghezza di vita, è senso più che comune: non bisogna scomodare nemmeno i più elementari livelli di scolarità. Che gli anelli degli alberi possano contenere sufficienti informazioni da legittimare una disciplina scientifica, invece, se più di vent’anni fa era fuori dall’immaginazione di una studentessa di Master come la Trouet, per chi scrive lo era ancora fino a qualche giorno fa, prima di imbattersi in un libro che non a caso stupisce, conquista attenzione senza obbligarla, e a maggior ragione ti induce a raccontarne, magari in una serata conviviale, provando a distrarsi dalle terribili immagini della cronaca quotidiana.
Sembra un periodo verde per la botanica, numerosi sono i libri dedicati alle piante che scalano le classifiche dei volumi più venduti. C’è da rallegrarsene. Ma nelle pagine de Gli anelli della vita non si fa menzione di una qualche intelligenza vegetale (tanto meno di un’assai improbabile coscienza: per riflettere sulla differenza che c’è tra comportamento intelligente adattivo e coscienza, consultare l’imperdibile Lunga storia di noi stessi di Joseph LeDoux). E non si tratta nemmeno di una dichiarazione d’amore, in genere accompagnata dalla denuncia dei crimini di Homo Sapiens, benché non ci sia capitolo in cui la Trouet non sottolinei come la sua ricerca e quella dei suoi colleghi, lasci poco spazio al negazionismo ambientale. “Io amo gli alberi, ma non li abbraccio. Le uniche occasioni in cui ne parlo come esseri senzienti sono (a) quando leggo L’albero di Shel Silverstein a mio nipote e (b) quando spiego che cosa sia il crossdating, cioè l’operazione di confronto tra i pattern anulari di due alberi”. Un libro di scienza, Gli anelli della vita.
Per capire cosa sia il crossdating, bisogna fare un passo indietro, tornando a quel senso comune che ci fa contare gli anelli quando ci avviciniamo alla sezione di un tronco d’albero. Anche se tagliare un albero non è l’unico modo per contarli, ci mancherebbe! Se ne accorse troppo tardi Don Currey, uno specializzando in geografia presso la University of North Carolina, che nel 1964 ricevette dalla Forrest Service dello Stato del Nevada Orientale l’autorizzazione e tagliare Prometheus, un esemplare di Pinus longaeva che, con i suoi 4862 anelli sulla sezione, si scoprì essere (stato) il più antico albero vivente sulla Terra. Currey fu definito un assassino e, comprensibilmente, quando nella sua camera d’albergo – conta che ti riconta, come si usa dire – si rese conto dell’errore/orrore maturò la decisione di cambiare campo di ricerca dedicando il resto della sua carriera scientifica allo studio delle distese di saline. A salvare la sua memoria dal perpetuo, pubblico disdegno contribuì Tom Harlan, un ricercatore del LTRR, che nel 2012 campionò con un succhiello un esemplare di Pinus longaeva, calcolando avesse 5062 anni: l’anello più interno risalendo al 3050 a.C. (o, come oramai più correttamente scrive anche Valerie Trouet, a.e.v., ante era volgare).
Succhielli, LTRR… ancora qualche passo indietro. L’acronimo sta per Laboratory of Tree-Ring Research della University of Arizona, il quartier generale della dendrocronologia, dove questa scienza ha avuto origine. Grazie la suo fondatore, che però era un astronomo, Andrew Ellicott Douglass, nato nel 1867 e morto quasi centenario (come qualche “giovane” albero che ha studiato) nel 1962. Perché un astronomo? E come mai il primo e più importante dipartimento di dendrocronologia al mondo si trova in Arizona, a Tucson, centosessanta chilometri a nord del confine con il Messico, una landa quasi desertica, priva di alberi? Perché all’inizio del XX secolo Tucson era un luogo con cieli limpidi e tranquilli, l’ideale per l’osservazione astronomica. All’epoca, un mecenate statunitense appassionato di astronomia, tale Percival Lowell, finanziò la costruzione di un Osservatorio nel Southwest del paese, così da poter osservare l’opposizione di Marte del 1894, incaricando della supervisione proprio Douglass, che a quel tempo aveva una posizione a Harward.
Qualche anno prima, nel 1877, il nostro Schiapparelli aveva individuato sulla superficie del pianeta rosso quelli che descrisse come canali. Nella traduzione inglese dell’italiano “canale” si preferì, alla parola gully che indica una configurazione naturale, channel, che connota una costruzione artificiale. Da qui a immaginare una civiltà aliena che irrigava ambienti altrimenti aridi, ci volle poco e Percival Lowell, il mecenate, tanto si convinse da dedicare tempo e denari alla divulgazione presso il grande pubblico dell’evidenza della vita su Marte. Il resto lo fece, nel 1897, Herbert G. Wells con La guerra dei mondi. Sicché Douglass, l’astronomo, nel 1894, fece le sue osservazioni e spiegò la natura dell’autoinganno. Mai contraddire un mecenate! men che mai scrivendo nero su bianco: << Mi sembra che il Sig. Lowell possieda un forte istinto letterario, ma nessun istinto scientifico>>.
Il licenziamento in tronco (cos’altro?) non tardò ad arrivare. Ma l’istinto scientifico di Douglass non ne risentì che per qualche anno. Nel 1906 trovò un posto come assistente di un professore di fisica e geografia presso la University of Arizona a Tucson e fondò la disciplina e l’istituto di Dendrocronologia, immaginando che nell’esaminare gli anelli degli alberi si potessero ricostruire i cicli passati dell’attività solare, nello specifico studiando l’eventuale correlazione tra le macchie solari e il clima terrestre. Per decifrare un rapporto così complesso bisognava ricorrere a lunghe serie temporali: a Douglass venne in mente che gli anelli formatisi anno dopo anno nei fusti degli alberi antichi potessero essere adatti allo scopo. Non solo. Fu sempre Douglass, per primo, a comprendere che la crescita di un albero era misurabile in base all’ampiezza dei suoi anelli e che quell’ampiezza è determinata dalla quantità di sostanze nutritive assorbite dalla pianta. Ergo: l’ampiezza dell’anello di un certo anno probabilmente indicava la quantità di acqua piovana assorbita in quello stesso anno.La correlazione con il clima.
Gli alberi, si sa, crescono con maggior vigore in primavera: il legno primaticcio che si forma riflette la vitale crescita della stagione. C’è differenza tra conifere e latifoglie, ma non potendo andare troppo in dettaglio… con il procedere del periodo vegetativo per la pianta diventa più importante accumulare anidride carbonica più che trasportare acqua, e per questa ragione le cellule del legno tardivo, che invece si formano tra la fine dell’estate e l’autunno, sono più piccole e dotate di pareti più spesse. “L’alternativa fra scatto di crescita del legno primaticcio in primavera, legno tardivo in autunno e periodo di inattività invernale, si ripete ogni anno della vita di un normale albero in una foresta a clima temperato. Il brusco passaggio dal legno tardivo con cellule piccole dell’anno precedente e legno primaticcio con cellule grandi di quello successivo è evidenziato dal limite netto che si forma”. È quel limite che noi osserviamo, è quello l’anello della vita. Valerie Trouet non abbraccia gli alberi ma scrive che sono felici quando essi ricevono molte sostanze nutritive e tanta acqua, non patendo la competizione né gli attacchi di altre piante. “In un anno felice, un albero crescerà abbondantemente, formando un anello ampio. In un anno meno felice [per la siccità, per il freddo, per un uragano che gli ha strappato le foglie] l’albero non avrà molte energie, e il suo anello sarà stretto. La felicità degli alberi è dunque fortemente influenzata dal clima”.
Ma come osservare gli anelli senza tagliare un albero? Dio non voglia, uno vecchio come Prometheus? Usando un succhiello di Pressler, una specie di cavatappi che, non senza fatica – ci vogliono mani forti, braccia allenate e una perizia che si sviluppa con l’esperienza – permette di estrarre una carota che viene immediatamente riposta dentro una cannuccia bianca. La carota-campione permette di veder e contare immediatamente gli anelli che si formano appena sotto la corteccia, nel delicato strato detto cambio, l’unica parte del fusto davvero viva, mentre il trasporto dell’acqua avviene nella parte più esterna chiamata alburno: il carotaggio si limita a un’area di appena 1,5 centimetri di diametro, la pianta non ne risente minimamente, e noi possiamo leggere tutte le informazioni. Quante? Prestare attenzione e stupirsi. La successione di anni umidi (felici) e secchi (meno felici) viene registrata negli alberi sotto forma di un pattern riconoscibile, una specie di codice Morse. Il passo successivo, la stele di Rosetta, del crossdating (ci siamo tornati, infine) ha un nome e una data: la trave HH-39.
Responsabile, ancora una volta, fu Andrew Ellicott Douglass che nel 1915 aveva già raccolto oltre cento esemplari di pino giallo (Pinus ponderosa) che cresceva nell’Arizona settentrionale, mettendo a punto una cronologia a ritroso che arrivava fino al 1463, studiando così la variazione climatica negli ultimi 450 anni. In quell’inizio del XX secolo s’imbatté anche in un albero di oltre 3200 anni, una sequoia gigante in Sierra Nevada. Ma la svolta arrivò grazie alla collaborazione con gli archeologi che lavoravano nei siti dell’area dei Four Corners, all’incontro tra Colorado, New Mexico, Arizona e Utah, centri abitati di cui si faceva fatica a datare la costruzione e il successivo abbandono. L’American Museum of Natural History di New York scrisse a Douglass chiedendo aiuto, suggerendo una possibile comparazione tra gli anelli degli alberi ancora vivi che aveva esaminato e quelli delle sezioni di alcune travi ritrovate nei siti archeologici. Eureka! Ci vollero 14 anni, ma finalmente si arrivò ad una datazione assoluta: la trave HH-39 presentava 143 anelli, 120 dei quali sovrapponibili a livello temporale ai primi 120 anni (1260-1389) della cronologia nel frattempo ricostruita sugli alberi vivi. A ritroso Douglass calcolò che l’anello più interno della trave risaliva al 1237. Un rapido confronto con le travi di tutti i siti permise di restituire la prospettiva storica accurata delle 75 rovine della civiltà Pueblo.
Da quegli inizi, giusto un secolo fa, parte la storia della dendrocronologia, grazie alla quale si può ottenere una datazione scrupolosa dei siti archeologici, confrontandola anche con il metodo forse più conosciuto del carbonio-14 (per inciso: con il carbonio-14 si arriva a datare oggetti molto più antichi, ma con intervalli temporali di decenni o addirittura secoli, la dendrocronologia garantisce “a dodici mesi”): si può studiare il clima negli ultimi duemila anni e più, ricostruendo il contesto storico degli episodi di siccità e dei periodi pluviali; si possono studiare gli effetti dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche, degli incendi boschivi e altri disastri naturali del passato e, non ultimo, la storia delle foreste. Al momento, la più lunga documentazione ininterrotta sugli anelli degli alberi, la cronologia della quercia e del pino tedeschi, copre gli ultimi 12650 anni, nessuno escluso. Dougalss nel sarebbe giustamente fiero.
Nell’affascinante ricostruzione della Trouet si legge e s’incontra Hyperion, ad oggi l’albero vivente più alto al mondo, quasi 116 metri, una Sequoia sempervirens che si trova da qualche parte in California (dopo la tremenda esperienza di Prometheus, i siti precisi di questi monumenti naturali non vengono indicati con precisione per timore di atti vandalici o comunque sconsiderati). Adonis, in Grecia, un esemplare di Pinus heldreichii, è l’albero più antico conosciuto in Europa: età effettiva, più di 1075 anni (il succhiello usato dalla missione della Trouet nel 2016 era lungo solo (!) 90 cm e non raggiunse il midollo). Poi molto dipende anche dalla definizione di “albero” e “datazione”. Se si considerano gli alberi “clone” e quelli “monumentali”, un clone di abete rosso (Picea abies), l’Old Tjikko in Svezia potrebbe avere 9550 anni, quasi nove volte Adonis. D’altra parte Pando, una colonia di 40mila fusti generati da un unico esemplare di pioppo tremulo americano si calcola abbia un sistema radiale di 80mila anni fa… ma i singoli fusti in genere hanno meno di 130 anni. E quanto agli alberi monumentali, pur convenendo sulla loro veneranda età, in genere è difficile stabilirne quella esatta, il loro diametro è enorme ma il fusto ha sviluppato tronchi distinti e spesso sono marci nella parte più interna e antica: impossibile datarli dendrocronologicamente e anche con il carbonio-14. Per Valerie Trouet Adonis è il più antico albero d’Europa con tanto di carta d’identità, si pur mancante della data precisa di nascita: e tanto basta… per ora!
Ci sono limiti e difficoltà. In genere, gli alberi delle zone tropicali rappresentano una versa sfida per i dendrocronologi. Vi sono poi casi di anelli mancanti: in anni molto difficili dal punto di vista climatico, alcuni alberi dotati di scarsa resistenza, invece di formare un anello particolarmente stretto, semplicemente ne fanno a meno: è stato il caso del 1580, un anno che più secco difficilmente si ricorda, in California e in tutto il Southwest. Vi sono anche falsi anelli, abbastanza comuni nei climi caratterizzati da monsoni estivi: la siccità tardo primaverile precedente il monsone induce l’albero a credere che sia già arrivato l’autunno, la pianta produce prematuramente legno tardivo, poi “si rende conto dell’errore” e torna a produrre cellule primaticce, ed ecco due anelli in un anno… ma all’occhio esperto di un dendrocronologo, munito di microscopio, la differenza appare evidente.
Grazie a quegli occhi esperti è stato possibile scoprire molte informazioni riguardanti i primi abitanti dell’Europa, ai tempi di Stonehenge, e retrodatare la cronologia dell’avvento del buddhismo in Giappone analizzando il più antico edificio in legno al mondo, il tempio di Horyu-ji nella prefettura di Nara. Si può scoprire un “falso”, o una copia, osservando che l’anello più recente di un pannello di quercia (molto usati tra XV e XVII secolo da Van Eyck, Bruegel il Vecchio, Rembrandt, Rubens) risale a un periodo successivo la data riportata sull’opera. “Crossdatando” altre informazioni, quelle che vengono dalle stalagmiti, dalla NAO (l’oscillazione nord-atlantica, la fluttuazione ciclica della pressione atmosferica sui due centri, dell’alta pressione nelle Azzorre e di quella bassa dell’Islanda) o dal carotaggio dei ghiacci antichissimi, si ottengono ricostruzioni e proiezioni climatiche di raffinata precisione. E previsioni.
Che a detta dei dendrocronologi non sono rassicuranti: un lavoro di Trouet e colleghi del 2015, inviato a Nature Climate Change, e che dimostrava come il manto nevoso in Sierra Nevada in quello stesso anno fosse il più basso degli ultimi 500 anni, scatenò una tempesta mediatica. Al pari di quella forse più famosa, conseguente la pubblicazione su Nature nel 1998 del lavoro del climatologo Michael Mann, del paleoclimatologo Rat Bradley e del dendrocronologo per eccellenza, Malcom Hughes, illustrato dal famoso grafico dell’Hockey stick, la mazza da Hockey, che combinando i dati ricavati dagli anelli, le carote di ghiaccio e altri proxy dimostrava che il surriscaldamento globale del XX secolo era un fenomeno che non trovava precedenti negli ultimi 600 anni. Di qui anche depistaggi, tentativi di confutazione dei dati, pubblicazioni critiche come Mercanti di dubbi e fino allo scandalo del Climagate del 2009, quando alcuni hacker riuscirono ad entrare nel server della Climate Research Unit dell’University of East Anglia (scandalo, per altro, assai ridimensionato).
Leggendo e lasciandosi stupire dal racconto della Trouet si scopre come venne risolta, nel 2016, la disputa sull’autenticità di uno Stradivari, anzi del Messia, lo Stradivari per eccellenza; si viene a conoscenza dell’“anno senza estate del 1816”, durante la Piccola Era Glaciale, che diede alla luce le immortali scene invernali di Brueghel il Vecchio, e il Frankenstein di Mary Shelley che durante quella “non” estate si trovava in vacanza con il marito e altri e amici sul Lago Lemano, con un freddo tale da costringere tutti a rimanere al chiuso… tanto valeva scrivere!; si rilegge la storia della fine dell’Impero Romano, delle conquiste di Gengis Khan favorite dall’erba cresciuta abbondante nel caldo umido dell’inizio del XII secolo, utile a fornire il foraggio necessario per la sua sempre più numerosa cavalleria; si riflette sulla curiosa cronologia delle più famose sommosse della storia; si aggiorna il paradigma di Jared Diamond, aggiungendo alle armi, all’acciaio, e alle malattie, la siccità. E c’è anche modo di riflettere, semmai ce ne fosse ancora bisogno, sul ruolo della Chiesa Cattolica nel “facilitare” il progresso della conoscenza scientifica: il primo termometro relativamente attendibile venne inventato nel 1641 da Ferdinando II de’ Medici, discepolo di Galileo, ne seguì la creazione di undici stazioni metereologiche gestite da monaci e gesuiti dal 1654 in poi. Ma nel 1667 la rete venne sciolta da Santa Romana Chiesa, secondo la quale per interpretare la Natura ci si doveva affidare unicamente alla Bibbia, e non alla lettura di strumenti artificiali. In Inghilterra le misurazioni iniziarono solo nel 1659, cinque anni dopo l’apertura delle stazioni frutto dell’entusiasmo dei Medici, negli Stati Uniti si dovette attendere il 1743: ma loro poi continuarono.
Prestare attenzione. Stupirsi. Raccontarlo. Le istruzioni per vivere una vita di Mary Oliver sono straordinariamente applicate da Valerie Trouet in questo racconto e in quello della sua quotidiana ricerca, che per questo 2022 prevede una nuova squadra per una nuova missione in Grecia, nel sito di Smolikas, sulla catena del Pindo, questa volta dotati di un succhiello lungo abbastanza da toccare il midollo di Adonis, regalando finalmente a quell’antichissimo albero la sua definitiva carta d’identità.
E, come si congeda con il lettore, brindando con un vino rosso della zona: alla buona scienza fatta con buoni amici. Cin cin!