Ben Lerner. Odiare la poesia / Scrivere poeticamente (e misurarsi con una perdita)

9 Dicembre 2017

Di Ben Lerner, poeta e narratore molto apprezzato già col suo primo romanzo Un uomo di passaggio (Neri Pozza, 2014), è uscito da poco un breve ma folgorante saggio dal titolo Odiare la poesia (Sellerio, 2017) per la traduzione di Martina Testa. L’autore quindi, dopo essersi provato in questi anni nello stile narrativo, è tornato a confrontarsi col suo primo amore; ricordiamo difatti che esordì poeticamente negli Stati Uniti nel 2004 col libro Le figure di Lichtenberg, ora pubblicato e tradotto per la prima volta in Italia dalla casa editrice Tlon. Lerner torna a confrontarsi col fatto poetico, ma guardandolo dal di fuori, attraverso gli strumenti della speculazione teorica ed anche dello scetticismo e dell’ironia. Si prende atto nel libro che l’ideale Poetico è irraggiungibile, poiché le poesie reali, che sono dentro il quotidiano, non potranno mai abbracciare il canto che abita le elisie sfere, il canto degli dei. Lerner ricorda che Platone nel Fedro fa dire a Socrate: “…Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente…” e paradossalmente, l’attacco più veemente che l’antichità abbia compiuto su questa arte potrebbe essere letto come la difesa più autentica della Poesia stessa, come idea astratta e sublime, pensabile sì, ma mai raggiungibile.

 

E gli esempi che si susseguono per avvalorare tale tesi son molteplici e calzanti. Ecco allora comparire per antitesi le figure del poeta scozzese dell’800 McGonagall, con le sue rime illeggibili, e il grande romantico John Keats, che nulla sembrano avere in comune. Entrambi però, il primo con una sciattezza linguistica e stilistica, il secondo con una scrittura vicina ma giammai dentro le supreme sfere, “…creano uno spazio per l’autentico al negativo”; ci fa intendere, McGonagall, ancor più con la sua “suprema inettitudine”, la possibilità altra del tempo Poetico: “…che non possiamo scrivere vivendo nella storia”. Ma proprio questa irraggiungibilità fa sì che la poesia resista come categoria nel mondo e questa fuga e ritrosia dell’uomo odierno è data dalla sua imprendibilità, inafferrabilità definitoria, che Platone invece, conoscendola bene e temendola, diceva essere arma di persuasione delle menti deboli e giovani contro il pensiero razionale-filosofico e dialettico.

 

 

Lerner, formatosi nella cultura anglosassone – con i grandi saggi del ‘500 di Sir Philip Sidney, come l'Apologia della poesia, su su sino al grande poeta e critico letterario del Novecento Allen Grossman – cita Whitman che ai tempi profetizzava una grande nuova poesia per la nazione americana che rappresentasse tutte le categorie sociali, nessuna esclusa. E dice di più: “…ciò che serviva era un poeta che, in assenza di una tradizione comune o di un sistema metafisico, potesse dar vita al popolo americano celebrandolo…” con una scrittura onnicomprensiva e però: “…il programma whitmaniano non si è mai realizzato nella storia e non penso che si possa realizzare”, proprio perché solo l’idea di Poesia a cui mai si arriverà, può abbracciare tutto questo. Forse per questo Lerner suggerisce di scrivere poeticamente ma con la consapevolezza di misurarsi con una perdita, con l’impossibilità di arrivare al canto supremo. La Poesia è il “noumeno”, per riprendere vecchie categorie, le poesie che si scrivono sono “fenomeno”, ma proprio facendo poesia con gli strumenti spuntati di ogni giorno si dà ai lettori consapevolezza di quella distanza, ma anche forse continuando a ridefinirla a ogni nuovo scritto si provoca in loro un importantissimo stato di tensione emotiva.

 

E proprio nella parte finale del libro, Lerner ci parla della questione poetica dentro la prosa, facendoci intuire che quanto più la poesia sembra rarefarsi in uno stile narrativo e piano, e porta gli esempi della scrittura di Claudia Rankine, proprio là sembra rispuntare con i suoi accenti liricizzanti, apodittici e metafisici: “…Ciò che trovo nella Rankine è la sensazione che le categorie liriche tradizionali non siano più disponibili: l’ordine di leggere la sua scrittura come poesia, ed in particolar modo come poesia lirica, provoca l’esperienza tangibile di quella perdita… e mi sembra significativo che in Citizen, an american Lyric (titolo di una sua opera) la barra compare spesso a seguire o separare brani di prosa in cui si potrebbe leggere…della presenza fantasmatica dei versi stessi…”. Che la storia del verso, così come l’abbiamo intesa per millenni, con i suoi variegati stilemi sia satura? Che la forma di scrittura spirituale ed emozionale per eccellenza forse stia battendo un colpo innanzi alla rivoluzione mediatico tecnologica? Questo originale pensiero della Poesia irraggiungibile, ma pensabile in astratto, che fu tra l’altro anche dentro la speculazione poetica di un Montale: “…/Vissi al cinque per cento, non aumentate/la dose. Troppo spesso invece piove/sul bagnato./” va a rafforzare le teorie critico-speculative postulanti la reimmissione di quest’arte dentro altre forme di scrittura: quella narrativa certo, ma forse anche quella saggistica, di cui abbiamo già lucenti tracce nel Novecento.

 

Forse la poesia rientrerà nel corpo nuovo postmoderno sotto forma di lacerti, parole-batteri che possono stazionarvi e lasciare ancora una strana ombra nei suoi occhi così fuggevoli e digitalmente lontani. E certo per fare una poesia che più si avvicini alla Poesia, dice Lerner nella parte finale, occorre essere un po’ bambini (si ricordi il gran saggio pascoliano, di un altro tempo, sul fanciullino): “…Vi chiedo di tornare con la memoria a quella originaria instabilità linguistica, all’idea del linguaggio come forza creativa e distruttiva…e nella nostra esperienza questo potere lo sentiamo sempre più allontanarsi oppure siamo noi che ce ne allontaniamo…”. Ecco i due poli fondativi del libro: fare poesia mantenendo lo stupore del bambino, e fare poesia nella consapevolezza di creare uno spazio, una possibilità, per il lettore e per il poeta, di pensare la presenza di quelle “melodie mai ascoltate” e che mai però si ascolteranno.

 

Forse questo saggio, nella sua requisitoria contro ogni poesia ordinaria colpevole di imperfezione, fa una delle più originali difese della Poesia come forma d’arte imprescindibile per l’uomo, anche se da sempre messa all’indice se non da parte, proprio come detto, per la sua natura volatile ed eterea, non definibile una volta per sempre, forse perché il proprio del linguaggio poetico è l’alterità, lo scarto dalla norma linguistica, la cosa non è semplicemente presente, è differita, e anche differente. E qui forse c’è già tutto il pensiero di Derrida: la “différance”. Certo compito del poeta vero, sottintende Lerner, è avvicinarsi a quelle melodie il più possibile, come Adam Zagajewski afferma nel suo saggio L’ordinario ed il sublime (Casagrande, 2012): “…Le cose immortali fluttuano nell’aria mescolandosi all’effimero; qualcuno deve separarli…”. 

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