Un discorso politico sul sesso femminile nel mondo arabo-musulmano / Donne, violenza e Islam

16 Aprile 2018

“Per sapere occorre prendere posizione”, scrive Georges Didi-Huberman nel primo volume di L'oeil de l'histoire (ed. Minuit, 2009). “Prendere posizione è desiderare, è esigere qualcosa, è collocarsi nel presente e prendere di mira un futuro. Ma tutto questo esiste soltanto sullo sfondo di una temporalità che ci precede, ci ingloba, si affida alla nostra memoria fino ai nostri tentativi di oblio, di rottura, di novità assoluta. Per sapere occorre sapere ciò che si vuole, ma occorre anche sapere dove si situano il nostro non-sapere, le nostre paure latenti, i nostri desideri inconsci”.

 

Queste parole ci serviranno da viatico per riflettere sulla fabbrica di un discorso politico sul sesso femminile nel mondo arabo-musulmano a partire dal testo coranico e dai testi teologici che sono testi sacri. Ebbene, per lavorare su quei testi – quindi per desacralizzarli passando per un’intelligibilità psicoanalitica – dobbiamo prima vincere due resistenze: quella politica (che consiste nello spezzare le barriere dell’opinione diffusa) e quella psichica (cioè i nostri paletti interni, che ci proteggono dall’accesso inquietante alle profondità spaventose della nostra cultura). Dobbiamo accettare di confrontarci con le nostre angosce e con le nostre resistenze e andare al cuore di ciò rimane sempre incistato e poter troncare. Per troncare occorre prendere una distanza (dal comunemente insegnato), puntare alla fonte soltanto nel distanziamento. Prendere posizione è muoversi (fisicamente e psichicamente) e assumersi la responsabilità di tale movimento. È mettere in questione la memoria e gli oblii, gli oblii e la negazione, il desiderio di continuità o di rottura; è misurare il divario fra ciò che fu consegnato come lettera irrevocabilmente sacra e ciò che possiamo creare a partire da una lettura eretica, libera, per cominciare a storicizzare. È, nel nostro caso, rompere con l’interdetto di pensiero, o la paura, che impedisce, secondo le parole di M. de Certeau (La scrittura della storia, Jaca Book, 2006) di “cambiare la storia-leggenda in storia-lavoro”. Ciò richiede l’accettazione dell’esilio nell’altra lingua per riflettere sulla propria, il richiamo alle scienze umane (psicoanalisi, storia, filosofia…) per poter pensare il corpus teologico che governa i musulmani da 14 secoli a questa parte. Far lavorare il Testo attorno a questa questione del femminile, tradurre psicoanaliticamente i movimenti pulsionali sottostanti e i fondamenti del discorso è necessario affinché questo lavoro sull’incistato della cultura dia luogo a una costruzione, e affinché nel lavoro con pazienti di cultura arabo-musulmana la dinamica transferenziale possa sottrarsi all’effetto massiccio di ciò che conserva la propria forza di sopravvivenza nella parola (G. Didi-Huberman, L'immagine insepolta. L’immagine insepolta. Bollati Boringhieri, Torino 2006 e J. Althounian, La survivance, Dunod, 2000).

 

È vero: quando si parla di Islam si pensa frettolosamente alla spiritualità. Ebbene, occorre dissociare l’Islam teologico-religioso e politico da tutti gli altri movimenti che hanno fatto la grandezza della civiltà arabo-musulmana: mistica, poesia, filosofia, scienze, traduzione, eccetera.

Scrive il mistico Ibn Arabi (nato a Murcia, Andalusia, nel 1165 e morto a Damasco, Siria, nel 1240): “Sterile [letteralmente: ‘qualcosa su cui non si può contare’] è ogni luogo che non accetta il femminile”; oppure: “L’umanità non è la mascolinità [o la virilità]”; o ancora: “La femminilità circola per il mondo”.

Immenso è il divario dal testo teologico (della giurisprudenza musulmana). Che cosa ci dicono le vie – le voci – della teologia? (I nostri riferimenti in materia di teologia e giurisprudenza sono Al-Bukhârî, nato nel 810, morto nel 870 d.C.; Muslim, nato nel 206 a.H. a Nishapour; Tabarî, nato nel 224 a.H., morto nel 310 a.H. (839-923 d.C.); Al-Nasâ’î, nato nel 215 a.H. e morto nel 303 a.H. (829-915 d.C.).)

Sawda, la seconda moglie di Mohammad dopo Khadija. Il Profeta volle ripudiarla perché aveva pianto la perdita dei suoi nella battaglia di Badr. Sawda dice: “Conservami, o Messaggero di Dio, e fai dono della mia notte ad Aisha. So che è la tua preferita”. 

Aisha, nota come l’amata dell’Amato da Dio, giocava ancora con le bambole quando a 9 anni divenne la sposa-bambina.

 

Hafsa, sposata dopo Aisha. Un giorno rientrò a casa prima del previsto e in camera sua sorprese Mohammad e Maria abbracciati. Esclamò: “Nel mio giorno, nella mia camera e sul mio letto?” Il Profeta giurò che avrebbe rinunciato a Maria. Ma l’Angelo Gabriele lo rimproverò: “O Profeta, perché… ti interdici quello che Dio ha reso lecito?” Mohammad chiese a Hafsa di tacere sull’accaduto, ma lei ne informò Aisha. Disse Gabriele: “Quando il Profeta confidò un segreto a una delle sue spose, e questa lo andò a riferire [a un’altra]…” (Corano 66:1-5). Gli storici scrivono che Gabriele protesse il suo Profeta contro il tradimento delle sue mogli:

Se invece vi sosterrete a vicenda contro il Profeta,

[sappiate] allora che il suo Padrone è Dio (…).

Se vi ripudiasse, certamente il suo Signore vi sostituirebbe con delle spose migliori di voi,

sottomesse a Dio, credenti, devote, penitenti. (Ibid.)

 

Dirà Omar, padre di Hafsa: “Se il messaggero di Dio mi avesse chiesto di tagliare la testa a Hafsa, l’avrei fatto su due piedi”. E Abu Bakr, padre di Aisha, si dispererà: “È la fine dell’Islam”. 

Un’altra moglie del Profeta, Umm Salama, lo interrogò sulla disuguaglianza fra i sessi in materia di eredità: “Perché il Corano attribuisce due parti al maschio mentre la femmina ne ha una sola?”, domandò. “Perché gli uomini partecipano alla guerra”, rispose Mohammad. Allora lei espresse il desiderio che le donne avessero diritti pari a quelli dei loro omologhi maschi: “Noi vogliamo combattere come gli uomini!”, disse. Ma l’Angelo Gabriele delegittimò le premesse di un’emancipazione e l’ingresso delle donne nello spazio pubblico. Disse:

Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Dio concede agli uni rispetto alle altre. (Corano 4:34)

Zeinab bint Jahsh è la quinta moglie – la sesta sposata da Mohammad dopo Khadija – e la sua vicenda sarà accompagnata dal versetto sul velo e sullo statuto dell’adozione nell’Islam. Soffermiamoci un po’ sulla sua storia. Mohammad aveva uno schiavo di nome Zaid, il quale lo scelse come padre spirituale, strappando la filiazione alle leggi della consanguineità e della biologia. Davanti a quella scelta, Mohammad proclamò al cospetto della comunità: “Siate testimoni che Zaid è mio figlio. Io eredito da lui, e lui eredita da me”. Per il suo figlio adottivo, Mohammad scelse Zeinab, ma lei si mostrò restia. Allora Gabriele la rimproverò come segue:

Quando Dio e il Suo Inviato hanno decretato qualcosa,

non è bene che il credente o la credente scelgano a modo loro. (Corano, 33-36)

 

 

Zeinab si piegò all’ingiunzione divina. Ma la storia prosegue così: un giorno Mohammad entrò in casa del figlio, che era assente, e il suo sguardo cadde su Zeinab. Il Profeta rimase folgorato da quella bellezza soprannaturale che non conosceva, e indietreggiando esclamò: “Solo Dio detiene la potenza”.

 

Ma come si fa a sposare la moglie del proprio figlio adottivo? Questi non si chiamava forse Zaid ibn (“figlio di”) Mohammad? Come poteva il Profeta rapire la moglie proprio a colui che era stato fra i primi a credergli? Poteva forse venir meno alla parola data? Quando si è il Messaggero della parola divina, come si fa a venir meno alla parola data senza delegittimarsi, senza screditare la parola stessa? A mo’ di risposta interviene Gabriele:

…nel tuo cuore tenevi celato quel che Dio avrebbe reso pubblico.

Temevi gli uomini, mentre Dio ha più diritto a essere temuto. (Corano 33:37)

Questo versetto fu rivelato a Mohammad mentre si trovava nella camera della piccola Aisha. Quando lei, incredula, gli chiese: “Puoi tu possedere la moglie di tuo figlio?”, Gabriele rispose così:

Quando poi Zaid non ebbe più relazione con lei, te l’abbiamo data in sposa…

Pertanto nessuna colpa al Profeta per ciò che Dio gli ha imposto. ( Corano 33:36-37)

 

E quando Aisha disse che il suo sposo non aveva il diritto di superare il numero di mogli autorizzato per i musulmani – cioè quattro – l’Angelo riapparve:

O mogli del Profeta, quella fra voi che si renderà colpevole di una palese turpitudine,

avrà un castigo raddoppiato due volte. Ciò è facile per Dio

 

Da allora, e a tutt’oggi, la filiazione è quella del sangue e l’adozione è proibita in terra d’Islam. 

Fino a quel tempo, le donne non erano velate. La scissione fra spazio privato e spazio pubblico non era sancita da alcun testo giuridico. Ma il desiderio di proteggere la bella Zeinab fece dire a Gabriele: 

O mogli del Profeta, non siete simili ad alcuna delle altre donne…

Rimanete con dignità nelle vostre case e non mostratevi com’era costume ai tempi dell’antica ignoranza (jâhiliya oulâ). (Corano 7:31)

 

La storia-leggenda abbonda di particolari su come Gabriele stesso venisse a dare manforte al Profeta nelle sue conquiste, come esortasse il suo Profeta a distruggere le tribù ebree, come assumesse le sembianze di un abitante della Mecca per confondere i nemici. Safiya, ebrea, avrà padre e marito decapitati, sarà fatta prigioniera e finirà con altre nell’antro dell’harem. Altrettanto dicasi per Juwayriya, ebrea anche lei. Safiya, ci dice Tabarî, massimo commentatore del Corano e storico dell’Islam, sarà posseduta sul suolo imbevuto di sangue fresco. Il Profeta l’ha presa senza attendere la fine del tempo prescritto per una vedova.

 

In questi testi troviamo tutto ciò che ci sconvolge al giorno d’oggi: i camion carichi di donne da vendere (Daesh) ci ricordano i prigionieri catturati all’epoca della Fondazione. In quelle guerre, durante quelle guerre, per via delle guerre, c’era disponibilità di donne: queste erano vendute, possedute, offerte in dono, a seconda. E la giurisprudenza dell’Islam è nata per dare una legittimità al ratto di donne. Scriverà Muslim: “Quando la donna diventa prigioniera di guerra, il suo matrimonio diventa illecito”. E gli storici si affrettano a osservare: “Erano felici nella dimora profetica”. La donna è descritta come la vergine senza traccia, priva di memoria e affrancata dai solchi della sua precedente esistenza. Come se la sua anima fosse priva di affetti; come se, dopo l’incontro con Mohammad, evaporasse ogni ricordo: visivo, tattile, sensoriale, cognitivo. Un fitto velo cade sulla sua vita. Interi lembi della sua esistenza restano inghiottiti o sepolti in un presente operativo che nega i palinsesti della memoria.

Le Cronache, dagli antichi fino ai moderni – da Tabarî (morto a Baghdad nel 923 d.C.) fino a Sha’râwî (nostro contemporaneo) – abbondano di storie di nozze sul suolo imbevuto di sangue ancora fresco. Il marito è morto, viva il marito! Assassinati i mariti, si erigono tende in tutta fretta per celebrare le nuove nozze.

 

La maggior parte degli hadith sarà attribuita ad Aisha, che gli agiografi chiameranno “la Memoria dei musulmani”. Ella reciterà per i posteri: “Le vostre spose sono per voi come un campo da arare. Venite pure al vostro campo come volete” (Corano 2:223), oppure: “Sposate (inkahû) allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono” (Corano 4:3; il termine arabo inkahû significa “accoppiatevi”, “possedete carnalmente”), o ancora: “Se sono insubordinate, relegatele in camere a parte e battetele”. (Corano 4:34)

Nel suo grande commentario al Corano – fonte per noi importantissima – Tabarî propone una graduatoria di questa tassonomia del castigo: prima le reprimende, poi l’abbandono (“relegatele in camere a parte”), e infine le percosse, se persistono nella disobbedienza. A chi? A Dio e ai loro mariti, risponde Tabarî.

 

Man mano che procede nella lettura dei commentari, si resta colpiti dalla perorazione in favore di “un’arte quantitativa della sofferenza” (l’espressione è di Michel Foucault). In questa tassonomia del castigo, l’uomo sceglie quella che considera “la più grande delle umiliazioni”, cioè possedere carnalmente la donna in un mutismo voluto e assoluto; stuprarla, insomma. Prosegue Tabarî: “Continuare a non rivolgerle la parola e possederla è molto penoso per lei (wa dhâlika ashaddu ‘alayha)”. O ancora, l’uomo la trascura e si rifiuta di dividere il suo letto “finché non tornerà da lui sottomessa e farà ciò che egli desidera (hattâ tarji’a ilâ mâ yuhibb)”, ovvero “finché lei rispetterà l’imperativo divino di assoggettarsi ai vostri diritti” (il riferimento è ai diritti del marito).

Il rispetto per l’uomo diviene un dovere divino, e la legge divina si confonde con la legge dell’uomo. Trovare una tecnica per adattarvi le punizioni farà del corpo femminile il personaggio principale di questa “semiotecnica del castigo” (M. Foucault). Esso sarà punito, abbandonato (beninteso, si tratta del corpo erogeno, libidico), oppure posseduto nell’umiliazione. Così, il corpo è rinchiuso nei meandri di un potere politico che si esalta e si fa forte dell’ingiunzione divina. Il sistema punitivo è da collocare in una certa economia politica che assoggetta il corpo femminile e che opera su di esso una presa immediata, tanto fisica che psichica.

 

Ripensiamo a “un bambino viene picchiato” [S. Freud, Opere, vol. IX, Un bambino viene picchiato (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali) (1919), pp. 41-65, Bollati Boringhieri, Torino 1989]: il versetto appreso fin dalla più tenera infanzia, e veicolato da un’intera cultura, può porre di fronte a una mancata repressione della sequenza seconda del fantasma del bambino picchiato, a una sua mancata isterizzazione, che lo rende incline alla malinconia o al masochismo. Il reale sociologico impregnato di religioso, che conosce un’inquietante recrudescenza al giorno d’oggi, crea un corto circuito fra una sequenza che è un puro prodotto dell’analisi, e una realtà materiale, concreta, impedendo così una costruzione fantasmatica. Nei testi esegetici, l’uomo è presentato come una figura di padre eccitato, straripante, e la donna come una figlia incestuosa che provoca l’eccitazione del padre. È proprio nella sura “delle Donne” che troviamo questo versetto: “Presto getteremo nel Fuoco quanti non credono ai nostri segni. Ogni volta che la loro pelle sarà consumata gliene daremo un’altra, affinché assaporino il tormento eterno” (Corano 4:56).

 

Di fronte a quest’insostenibile crudeltà si profila il quadro di una janna (Paradiso). I commentatori si affrettano a porre il divino dalla parte del principio maschile. È esemplare, a questo proposito, il loro discorso sul Paradiso e su ciò che è promesso agli uomini nell’aldilà. La janna si presenta come surplus di sensualità, eccesso di lascivia, revoca di tutti i divieti. Il sessuale diviene un’interminabile orgia e un illimitato godimento maschile. Davanti all’interminabile corteo delle huri, la virilità dell’uomo, dipinta come assoluta, compromette l’idea stessa del piacere sessuale, perché in questo immaginario il sesso rimane costantemente congestionato, in erezione perpetua, senza possibilità di sfogo (S. Freud, Introduzione al narcisismo (1914), Bollati Boringhieri, 1976). Nel XV secolo, Suyûtî descrive una verga che non riposa mai, facendo dell’uomo del Paradiso il fratello di Urano.

È così che nasce una certa letteratura pornografica (e non erotica) dove sesso e religione si mescolano. Sesso sotto lo sguardo di Dio. (Il testo teologico richiama alla mente gli scritti di Sade o di Bataille.) In questa letteratura teologica, che oggi sta tornando in scena, Dio diviene colui che dice all’uomo: “Godi”. “Godi!” diventa un imperativo divino. È in nome del godimento, e non in nome della rinuncia alla pulsione, che l’uomo crede. La radicalizzazione si nutre di questo imperativo che dice: “Godi!”.

L’immagine paradisiaca di un godimento maschile all’infinito trova il suo corrispondente in una lingua che, malgrado la sua straordinaria ricchezza semantica, resta prigioniera di una società tuttora dominata da una concezione arcaica della vita e della società stessa. Per fare un esempio, la parola adhrâ’, “vergine”, si usa soltanto in riferimento alla femmina e mai al maschio: come se l’uomo fosse sottratto a ogni divenire, a ogni evoluzione e a ogni storicizzazione. Insomma, uomo si nasce, non lo si diventa. E poiché la nostra società non si è realmente evoluta, oggi in arabo ci mancano le parole per dire “maschilismo”, “sessismo”, “femminismo”.

 

È un fatto: oggi la nostra storia, lo statuto della donna, l’adozione, il matrimonio, la testimonianza, l’eredità eccetera, sono legati direttamente alla scrittura e alla trasmissione della storia-leggenda tramandata a partire dai testi agiografici, applicando alla lettera il testo coranico. Ricevendo i privilegi che il Testo gli accorda, lo storico ha così fabbricato una Storia conforme a una politica del potere, anzi del sovrapotere (per adottare l’espressione di Foucault) e a un discorso di dominio. L’Islam ha instaurato un mondo gerarchizzato che riceve le sue leggi dall’alto. Il religioso ha istituito una preminenza maschile, e questa ha fondato il politico sacro: un sacro che si oppone a ogni lavoro di pensiero. Nell’intento di preservare la dominazione maschile, i testi avallano non soltanto l’idea della donna come oggetto di scambio, ma l’annullamento della struttura-Altrui, per usare un’espressione di Deleuze. I testi degli agiografi diventano così il Testo del pensiero politico islamico, e costituiscono l’humus concettuale che ha permesso l’esclusione della donna da tutti i dispositivi che consentano l’autonomia o l’emancipazione. Per tradurre il tutto nella nostra terminologia odierna, la contestazione di Gabriele (e quindi le leggi del cielo), aveva di mira, in primo luogo, la donna come essere di diritto.

Il testo mistico parlava del maschile e del femminile di chiunque, senza ricorsi all’essenzialismo. Dal canto suo il testo teologico – politico per definizione – ha fabbricato un discorso di dominio legato al genere. Quando il modo fallico diventa l’unico modo del pensiero, la donna non soltanto è iscritta in una logica di subordinazione, ma vi figura soltanto come “campo da arare”. Dunque non è inclusa nella “categoria dell’umano” (J. Butler), ovvero è esclusa dalla struttura-Altrui (J. Deleuze).

 

Concludere, aprire...

 

Scrive Natalie Zaltzman che tutte “le opere antropologiche di Freud mostrano che ogni destino individuale, nei suoi investimenti libidici, dipende dagli investimenti libidici della massa cui appartiene, e che il posto assegnatogli in quanto elemento organico di quell’insieme rende il suo destino inseparabile dal destino collettivo” (N. Zaltzman, De la guérison psychanalytique, PUF, 1999, p. 99). Qui il destino collettivo delle donne è talmente imbevuto di violenza sacralizzata da compromettere il senso delle esperienze individuali di ognuna. Ma se il lavoro dell’analisi consiste nel permettere al/la paziente di costruire la sua storia e di dare senso al retaggio del suo passato, come si fa a lavorare quando un individuo è così legato al collettivo, quando il sacrificio non è soltanto storia familiare, ma storia di una genealogia storica? Si può – e se sì, come? – dissociare il passato individuale dal passato collettivo, il presente psichico dal presente storico attuale, e il passato traumatico da ciò che non cessa di essere traumatizzante?

Concludo con alcune osservazioni e qualche interrogativo:

 

1. Tenendo a mente quanto scrive Freud in Mosè e il monoteismo, l’assenza di un omicidio nella religione musulmana merita di diventare oggetto del nostro lavoro. Questo perché la storia può diventare “il mito del linguaggio” soltanto sulla base di una morte e di un’interiorizzazione della dimensione dell’assenza.

 

2. Dobbiamo riflettere ancora, specialmente in questo nostro tempo, sulle basi pulsionali della religione musulmana. Nel disastro cui oggi assistiamo non si può forse scorgere un ritorno del dissociato, del rimosso; un impensabile incistato da questa politicizzazione della religione e dalla sacralizzazione dei primi testi? Tale sacralizzazione dei testi ha congelato il pensiero, cosicché esso non ha potuto decostruire la rappresentazione differenziale e segregazionista che grava a tutt’oggi sulle donne.

 

3. Ma che cos’è mai la donna, per indurre l’uomo a fare appello al cielo? Insomma, il discorso teologico che sta tornando massicciamente in scena non maschera forse un’angoscia di castrazione, se non altre angosce addirittura più primitive?

 

4. Assistiamo al ritorno dell’incistato della storia proprio oggi che la donna araba comincia a vivere una mutazione antropologica.

 

L’Islam deve dunque diventare oggetto di riflessione, di studio, di interrogazione. Ma a tal fine, come abbiamo detto in apertura, oltre a sapere ciò che si vuole, occorre anche sapere dove si situino il nostro non-sapere, le nostre paure latenti, i nostri desideri inconsci.

 

Questo è il testo della lectio con cui si è conclusa la quarta edizione del festival dela Psicologia di Torino, Donne violenza e islam, organizzata dall’ordine degli Psicologi del Piemonte, con la direzione scientifica di Massimo Recalcati. Traduzione di Marina Astrologo.

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