Un libro di Simon Baron-Cohen / Autismo e creatività
Chiunque andrebbe giudicato per quello che può fare, non per quello che non può fare. O per dirla meglio, come sicuramente faceva Albert Einstein: “Tutti sono geni, ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero, si passerà la vita credendo che sia stupido”.
Simon Baron-Cohen insegna Piscologia e Psichiatria all’Università di Cambridge, dove dirige anche il Centro di ricerca sull’autismo, e a I geni della creatività ha dedicato uno studio e un volume pubblicato in originale lo scorso anno e tradotto da Raffaello Cortina da pochi mesi, con ciò confermando la tempestività e il sicuro interesse della collana “Scienza e Idee”, fondata dal mai abbastanza compianto Giulio Giorello.
La tesi che Baron-Cohen prova a dimostrare, come l’autismo guida l’invenzione umana, compare già nel sottotitolo in copertina (come era già nel testo originale, How Autism Drives Human Invention) ed essendo l’autore uno dei massimi esperti a livello mondiale della condizione autistica, è una tesi che va considerata con grande attenzione e, certamente, il libro merita di essere letto e conosciuto. Non ultimo, giacché è corredato da due utili appendici. Nella prima, rispondendo ad un breve test, si può calcolare il proprio SQ e l’EQ, in ordine: con il primo si identifica il quoziente dello spettro di sistematizzazione (rivisto a dieci item: SQ-R 10), in sostanza la misura di quanto siamo tendenzialmente capaci di identificare schemi ripetitivi, di quanto siamo abili a classificare; con il secondo ad essere testato è il nostro grado di empatia. Rispondendo alle dieci domande della seconda appendice, invece, si calcola il proprio AQ, il quoziente di spettro autistico, e sebbene l’autore si premuri di rassicurare chi legge che l’AQ non ha valore diagnostico, pure ricorda come sia raccomandato dalle linee guida del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) del Regno Unito come strumento di screening per l’autismo. You better watch it!, per rimanere oltremanica.
Va da sé che già alla fine delle poche pagine del primo capitolo, dedicato ai “Cercatori di schemi nati”, sono saltato alle appendici e mi sono autosomministrato i test. Rassicurandomi (forse!, per comprendere la dubbiosità dobbiamo fare qualche passo in più nella lettura). Con il punteggio di 3 mi colloco nell’intervallo 0-4, quello di coloro che hanno pochi tratti autistici; avessi ottenuto un qualsiasi punteggio tra 6 e 10 e se mi fossi sentito in difficoltà già prima del test, ne fossi stato consapevole da tempo e avessi pensato di poter trarre beneficio da una diagnosi, il consiglio di Baron-Cohen è piuttosto fermo: chiedi al tuo medico di famiglia di indirizzarti a una clinica specializzata per una diagnosi. Ma torniamo ai primi due test. Con 5 punti ottenuti rispondendo all’SQ, si conferma (lo confermo a me stesso) che ho un basso drive di sistematizzazione: i grandi sistematori, i cercatori di schemi nati, ottengono tra i 12 e i 20 punti, e io sono indiscutibilmente sotto media, sia considerando quella maschile (6,7) che quella delle femmine (5,5). Con i 14 ottenuti nell’EQ, invece, mi scopro ad un passo dalla vetta dell’empatia (16-20), sopra la media delle femmine (10,8, con un intervallo tra 6 e 16) e, va da sé, di quella maschile (8,9, con intervallo 4-14).
Secondo lo UK Brian Types Study, uno studio sui diversi tipi di cervello realizzato nel RegnoUnito, con l’ambizioso tentativo di misurare i livelli di empatia e di sistematizzazione in ben 600.000 persone, e pubblicato nel 2018 nei Proceedings of the National Accademy of Sciences (115, 48, 2018, pp. 12152-12157), io risulto un cervello di “Tipo E”, quello di un individuo la cui empatia è superiore alla tendenza a sistematizzare; faccio parte di circa un terzo della popolazione, è un tipo di cervello due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini, mi trovo (dovrei trovarmi) molto a mio agio con le persone vedendone facilmente le dinamiche relazionali mentre, pur vedendo nuovi schemi quando sono evidenziati, non mi viene (non mi verrebbe) naturale individuarli; empatizzo in modo intuitivo e posso usare la tecnologia quando ne ho bisogno: pur non essendone appassionato, me ne servo a un livello di base ma non la padroneggio. Almeno, questo è il profilo.
I tipi “S”, è intuitivo, sono speculari, più bravi a sistematizzare che ad essere empatici; rappresentano più o meno un altro terzo della popolazione e sono due volte più comuni tra gli uomini. Il terzo “terzo” della popolazione è costituito da individui con un cervello di tipo “B”, sono in egual misura maschi e femmine e non mostrano alcuna differenza tra la tendenza a empatizzare e quella sistematizzante. Interessante, curioso che la maggior parte della popolazione generale non abbia un cervello di tipo B, ugualmente abile sia nell’empatia che nella sistematizzazione. Ma, scrive Baron-Cohen, si può ipotizzare che i due terzi specializzati nel tipo S o E si siano evoluti sotto la pressione evolutiva: gli empatici sapendo intuitivamente come le altre persone pensano e sentono, i sistematizzatori capendo come funzionano le cose.
E poi ci sono i cervelli “Tipo E estremo” e “Tipo S estremo”. Le persone con un profilo “E estremo” sono rare anche se più comuni tra le donne: il 3 per cento, contro il solo 1 per cento degli uomini. Veloci ad anticipare ciò che qualcuno sentirà o penserà, si rendono facilmente conto del disagio e del turbamento altrui ma si accorgono a malapena della presenza di schemi. Il tipo “S estremo” è anch’esso abbastanza raro nella popolazione generale, più comune tra gli uomini, con il 4 per cento, che nelle donne, mediamente al 2. Sono, ovviamente, super sistematizzatori, mentre viaggiano ben sotto la media nell’empatia, le loro menti sono perennemente tese alla ricerca di schemi. E a questo gruppo appartengono anche le persone autistiche.
Ne incontriamo uno, o forse due, proprio nelle prime pagine, Al e Jonah e il racconto delle rispettive peculiarità, a volte vere e proprie stranezze comportamentali, è quello tradizionale. Poche pagine e Baron-Cohen ci rivela che Al era nato nel 1847, da adulto sarebbe diventato famoso, il suo nome per intero era Thomas Alva Edison, divenne un celebre scienziato, titolare di brevetti, inventore di notevoli tecnologie tra le quali, è ben noto, la lampadina: il suo soprannome fu “il mago di Menlo Park”. Jonah, invece, è autistico ed è nato nel 1988, si interroga su tutto, come faceva Edison, guarda il mondo in maniera nuova e ogni volta originale e, come fu già per Al, sembra interessato solo ed esclusivamente alla ricerca della “verità”, intesa come la parola che indica la presenza di schemi coerenti. Invenzione e autismo: quali le differenze, quali le connessioni?
Il libro presenta, appunto, una teoria della capacità di invenzione umana e sostiene, in ordine: che homo sapiens ha un tipo specifico di “motore” nel cervello, un motore che cerca schemi se-e-allora, un sistema che l’autore chiama Meccanismo di sistematizzazione; secondo, che tale meccanismo si è sviluppato tra i 70 e i 100 mila anni fa, quando gli esseri umani cominciarono a creare strumenti complessi in un modo che non era mai riuscito a nessun animale precedente; terzo che proprio questo Meccanismo ci ha permesso, soli sul nostro pianeta, di padroneggiare la scienza e la tecnologia, surclassando ogni altra specie vivente; quarto, che il Meccanismo di sistematizzazione ha un’altissima sintonizzazione nelle menti degli inventori e di quanti si dedicano alle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) ma anche di coloro che si sforzano di perfezionare qualsiasi tipo di sistema, segnatamente i musicisti, gli artigiani, i registi, i fotografi, gli sportivi, gli uomini d’affari o gli avvocati (anteponendo un “tra gli altri…” che induce già qualche perplessità: chi mancherebbe?); quinto – e si arriva al punto – che il Meccanismo di sistematizzazione ha un’alta sintonizzazione anche nella mente autistica; sesto, che la tendenza a sistematizzare è in parte genetica, e quindi molto probabilmente è stata plasmata dalla selezione naturale. Indi: gli autistici, quelli che si dedicano alle discipline STEM, e tutti gli altri ipersistematizzanti condividono questi geni; ne consegue che tutti gli esseri umani che avevano, e hanno, una mente con un Meccanismo di sistematizzazione in overdrive erano, e sono, al centro della storia dell’invenzione.
Nei capitoli che compongono il volume si dà conto, quindi, di cosa sia nello specifico il Meccanismo di sistematizzazione e dove sia cablato nel nostro cervello, dei cinque tipi di cervello di cui abbiamo già riassunto le principali caratteristiche, di come funzioni la mente di un inventore (tra l’altro definendo il “genio” come colei o colui che, pur avendo le stesse informazioni che hanno gli altri, nota uno schema a loro sfuggito, ovvero ne trova uno nuovo, che porterà a un’invenzione, e che se “non si deve pensare però che tutti gli autistici siano geni […] quello che sappiamo è che un numero sproporzionato di autistici sono super sistematizzatori”). Per Baron-Cohen, comunque, speculare sulla eventuale diagnosi di autismo di personaggi famosi – Glenn Gould, Bill Gates, Kobe Bryant (sì, proprio il grande cestista perito nell’incidente con il suo elicottero, che cercava con grande e a tratti ossessiva determinazione schemi ricorrenti nelle sue prestazioni), Ludwig Wittgenstein, Han Christian Andersen, Andy Warhol, Albert Einstein e Henry Cavendish, è sbagliato: una diagnosi è utile se e solo se la persona sta cercando aiuto e “fatica a funzionare”. Nel capitolo 5, “Una rivoluzione nel cervello” Baron-Cohen argomenta le ragioni per cui la sistematizzazione era assente nei precedenti ominidi come Homo habilis, Homo erectus e nei Neanderthal: ruota, scrittura, matematica e religione sono prodotti di Homo sapiens, l’unico che diventa capace di inventare e sperimentare in modo generativo invece che una tantum.
E la sistematizzazione è assente anche tra i nostri parenti più stretti, grandi scimmie, scimmie e altri animali. Non che non esista capacità innovativa tra i nostri vari antenati ma, nella convinzione di Baron-Cohen, si tratta al meglio di apprendimento associativo, mai di invenzione generativa. Per altro, come amava ricordare Giulio Giorello citando uno dei suoi saggi preferiti, Conoscenza ed Errore di Ernest Mach, “il gatto che cerca la sua immagine riflessa dietro lo specchio, ha fatto, anche se in modo istintivo e inconsapevole (corsivo nostro) un’ipotesi sulla propria corporeità, e si accinge, per l’appunto, a verificarla. Ma con ciò per lui il processo è finito, mentre l’uomo, in casi analoghi, proprio a questo punto comincia a stupirsi e a pensare”.
La “battaglia tra giganti” di cui al capitolo sette, si confronta con la spiegazione alternativa più consistente: “noi inventiamo perché sistematizziamo, come ho sostenuto, o perché abbiamo il linguaggio?”. Anche in questo caso la risposta di Baron-Cohen è netta: pur considerando ricorsività (Chomsky) e sintassi, non si vede come queste siano essenziali per l’invenzione, “… per contro, la mia teoria, il ragionamento se-e-allora ne è un requisito. Senza di esse non ci sarebbe l’invenzione”. Tesi forte, che forse confonde e riduce la capacità linguistica all’operatività sintattica. Da questo punto di vista, almeno a parere di chi scrive, le spiegazioni di Joseph LeDoux sull’esclusività dei processi coscienti in Homo sapiens di cui abbiamo scritto su queste pagine, quelli che considerano il ruolo della coscienza autonoetica e del linguaggio, appaiono più solide e convincenti.
E infatti, dopo aver illustrato nel penultimo capitolo la possibilità/probabilità che genitori super sistematizzanti abbiano geneticamente maggiori probabilità di aver un figlio autistico, nell’ultimo, dedicato a “Coltivare gli inventori del futuro”, Baron-Cohen – mentre introduce positivamente il concetto e la risorsa della “neurodiversità”, quel modo di considerare più e diverse vie nello sviluppo cognitivo in luogo di una non più accettabile contrapposizione tra normalità e anormalità – si lascia andare a una galassia metaforica per la quale la mente autistica userebbe essenzialmente “un sistema operativo diverso” che “se costretto a fare ciò per cui non è stato progettato, potrebbe andare in crash e sembrare incapace di funzionare”: uno schiacciamento della coscienza sul modello computeristico-informatico che lascia qualche dubbio.
Che ci sia un problema come pure, in prospettiva, un’opportunità di inserimento delle menti super sistematizzanti nel tradizionale quadro educativo, problema che potrebbe essere risolto considerando modelli di insegnamento alternativi a quelli che chiaramente non sono adeguati per il tipo di mente “S” o “S estremo” o dichiaratamente autistico, non vuol dire, però, e non autorizza un’affermazione per cui “… alcune materie scolastiche sono costruite intorno a compiti confusi, come scrivere una storia, anziché a sistemi basati su regole, come capire in che modo funzionano le cose”.
Non si tratti qui di rivendicare primazie a una o all’altra cultura, ma scrivere una storia non è riducibile a un “compito confuso”. Si tratta essenzialmente della proprietà costitutiva della testualità linguistica (non dell’operatività sintattica), è giusto giusto la capacità di inventare ruoli e scambiarli e camuffare e mentire, proiettando nel testo le istanze dell’enunciazione, i simulacri dei soggetti coinvolti nell’atto comunicativo, dispiegando l’infinita capacità generativa del linguaggio (niente a che fare con la “banale” capacità di parlare o emettere suoni).
Che un programma di studi ristretto, progettato per i punti di forza degli individui autistici, possa evitare loro che l’istruzione sia un periodo di infelicità, ci sembra un punto di riflessione da consegnare al pubblico dibattito. Che il riconoscere come alcuni autistici sono stai e sono tuttora i motori dell’evoluzione della scienza, della tecnologia, dell’arte e di altre forme di invenzione, possa garantire loro un futuro diverso e migliore, a un tempo permettendo un generale miglioramento della nostra cultura e delle nostre società, ci pare anche questo un orizzonte più che condivisibile. Ma se si giudica una mente sulla principale, se non unica capacità di capire “in che modo funzionano le cose”, non si va molto lontano da chi pensa che un pesce sia stupido solo perché è incapace di arrampicarsi su un albero.