Tre mostre / Genius Loci
Il Genius Loci, lo spirito del luogo, è un filo rosso che nell’arte novecentesca permette di raccontare panorami complessi, articolati, spesso sorprendenti. A Venezia, nel gelo di questo gennaio alla Brueghel, due mostre, a diverso titolo importanti, danno conto di due episodi delle arti nella città, nel corso del secolo breve. Al Museo Fortuny, che mantiene intatto il fascino di cornice d’eccezione per i mondi tra simbolismo e cosmopoli tra ‘800 e ‘900, secondo la felice intuizione di Daniela Ferretti, che negli ultimi anni ha creato importanti eventi intorno ai pittori ispirati da Richard Wagner, sulla Marchesa Casati, su Romaine Brooks e Henriette Fortuny, arriva una notevole esposizione dedicata a La Bottega Cadorin (accompagnato da un ricco catalogo, a cura della stessa Ferretti, pubblicato da Antiga Edizioni). Per questa occasione la padrona di casa cede la curatela a Jean Clair, estimatore di antica data di Guido Cadorin, a cui aveva dedicato uno scritto appassionato già nel 1988, rivisitando la paradossale vicenda dell’Hotel Ambasciatori a Roma, dove nelle sale da pranzo l’artista aveva ritratto in un magnifico affresco la high society di quel tempo, proseguendo l’attività di decoratore in cui aveva dato prova di straordinario talento nella Villa Papadopoli a Vittorio Veneto, per cui aveva creato mobili e tappezzerie.
La vicenda ricostruita nella ricca rassegna fa capo all’ultima erede di questa attività, Ida Barbarigo, quasi centenaria, che nella sua dimora-museo a Palazzo Balbi Valier ha raccolto tutte le testimonianze che è riuscita a reperire. Colpiscono certe persistenze iconografiche, come il mito della “tabacchina”, l’operaia della manifattura tabacchi (che era sita in laguna alla Giudecca), figura di donna per eccellenza libera, come vuole il mito di Carmen e seducente fantasma erotico. Vincenzo Cadorin le scolpisce in legno (in bassorilievo su uno squisito cassone) e bronzo, mentre Guido, autore di quel capolavoro che è il trittico Carne, carne, sempre carne del 1914, pone quel fantasma d’amore sugli sfondi della sua amata Venezia. Lo sfondo lagunare torna per tutta la sua esistenza, anche negli anni del dopoguerra in cui l’artista era sempre più isolato, ma coglieva i segni del tempo, come in un sorprendente Piazzale Roma del 1958, di gusto quasi iperrealista. L’intensa vita familiare è uno dei fili della mostra, con le fotografie di Augusto Tivoli e degli altri familiari (Livia era la moglie di Guido). In un continuo intreccio di destini, si giunge all’opera di Zoran Music, marito di Ida, che a Dachau, rischiando punizioni estreme, come Avigdor Arikha, disegnava immagini di morti, cadaveri scomposti, che mettevano a confronto l’eredità dell’espressionismo austriaco (e in primo luogo certe figurazioni di Schiele) con l’orrore novecentesco. A quel nodo di memorie, l’artista tornò negli anni ’70 con il ciclo di pitture Noi non siamo gli ultimi, di notevole forza iconica, che ebbe particolare risalto nella sua avventura critica. La mostra non fornisce didascalie sulla committenza degli oggetti, ricreando l’impressione di un atelier in movimento, intorno a temi e a tecniche ricorrenti, mentre il tempo passa e mutano gli stili.
Da Guggenheim Luca Massimo Barbero realizza, a cinquanta anni di distanza dall’ultima esposizione, la maggiore (e notevole) retrospettiva di Tancredi (catalogo Marsilio), dopo quella del 2011 alla Galleria d’Arte Moderna Carlo Rizzarda di Feltre, città natale dell’artista. L’opera è scandita da ossessioni, dall’iterazione di azioni e scelte, ribadendo il mito romantico di un’artista il quale, da solo, affronta il compito immane di connettere tradizione e avanguardia, natura e cultura. Mutano gli stili tra punti, echi del dripping pollockiano, rimandi a Paul Klee, sempre nell’idea di una necessità di mutare stili e forme nel bruciante bisogno di mettere a punto nuovi dispositivi di rappresentazione. Nella sua breve esistenza (nato nel 1927, pose fine alla sua vita nel 1964) fu fedele a Venezia, di cui reinterpretò i mosaici, i colori di Tiepolo, reinterpretando magistralmente certi spunti dei divisionisti (e in specie di Seurat) e l’eredità del movimento futurista di Balla e Boccioni che negli anni ’50, malgrado i divieti ideologici espressi dalla cultura di sinistra, erano ben presenti alle neoavanguardie, come ben dimostra il nesso tra l’esperienza delle ceramiche sperimentali di Albisola (esperienza che faceva capo a artisti mirabili come Tullio D’Albisola e Farfa) e l’esperienza situazionista di Alba, con Pinot Gallizio e Asger Jorn in primo piano.
In primo piano, ovviamente, è la relazione con la padrona di casa. Peggy Guggenheim compare in catalogo fotografata con le opere dell’artista che collezionò da subito, e donò ai musei negli Stati Uniti (da cui le opere tornano per la prima volta), creando un mercato per il suo protetto. A Ca Venier dei Leoni ella concesse uno studio al pittore già nel 1951, riconoscendone subito il talento e, malgrado la seguente separazione, a lungo lo sostenne per esposizioni all’estero. Per Tancredi il genius loci è in primo luogo la luce, di cui esplora minuziosamente gli effetti e la dinamica, e la natura, che vorrebbe portare nelle case, dove a suo parere ce n’è troppo poca, nel momento in cui le città diventano giungle di palazzi, nel veloce (e spesso feroce) rinnovamento edilizio postbellico. La frase scelta dal curatore, come motto della mostra, riassume esattamente tutta questa tensione: “la mia arma contro l’atomica è un filo d’erba”: non per caso Tancredi trovò una ispirazione nel paesaggio nordico, vissuto insieme alla moglie norvegese, la pittrice Tove Dietrichson. In occasione della mostra retrospettiva veneziana del 1967, a Palazzo Vendramin Calergi, Dino Buzzati, in un articolo sul Corriere (riprodotto in catalogo), confermando il suo notevole talento narrativo sulle arti (basti pensare agli scritti, incisivi e rivelatori, su Yves Klein, con cui fu in legame di amicizia), indica chiaramente quale sia l’elemento principale della sua produzione che: “consisteva in una specie di afflato, di grazia, di impeto lirico, di levità giovanile, di felicità espressiva per cui le esperienze e anche le invenzioni altrui venivano da lui assimilate, bruciate, fatte sue e restituite sulla tela con un accento spesso inconfondibile”, in questo per lo scrittore stava la sua “verità poetica”.
E a rivedere il percorso delle sue opere, colpisce la luminosità delle tempere, quando tante opere di quella stagione (da Vedova a Rauschenberg) amavano gli strati, la matericità, la cupezza delle gamme cromatiche. L’ultima, intensissima stagione, quella dei Fiori dipinti da me e da altri al 101% (ironizzando sulla falsificazione delle sue opere che cominciava a diffondersi) mette sulla tela fiori di stoffa, crea un collage di fantasmi della natura resa in tutto lo strazio del suo continuo rinnovarsi.
Da Venezia a Perugia, per un gelo anche più pungente: al Palazzo Della Penna, sede della Galleria d’Arte Moderna del Comune, è da poco attivo il nuovo allestimento delle collezioni di Gerardo Dottori e dei Futuristi Umbri, a cura del massimo studioso del tema, Massimo Duranti, insieme a Andrea Baffoni e Francesco Duranti. La lezione marinettiana trova nell’artista perugino, una declinazione singolare e pungente: egli dal magnifico Primavera del 1912, non scompone il paesaggio urbano, ma si dedica alla campagna, siglando un suo personalissimo Futurismo Rurale. Protagonista dell’aeropittura e della linea (condivisa insieme a Fillia) di una figurazione mistica, che unisca avanguardia e tradizione, incide visioni aeree che gli danno il primato (insieme a Benedetta) in questa avventura estetica, con opere perfette come Aurora sul golfo (1935) e Lago umbro (1942). In primo piano è la sua opera più nota, il magnifico trittico “automobilistico” Della velocità, offerto per acquisto a Nicola Valletta della FIAT, che non lo volle comprare. Curiosa nella sezione degli artisti affini, è la presenza di Leandra Angelucci Cominazzini, dalle declinazioni quasi surrealiste, in immagini dall’alta temperatura visionaria.
A concludere questa esplorazione del rigoroso (spesso severo) genius loci umbro, una esposizione su Enzo Rossi (a cura di Enrico Crispolti, Massimo Duranti, Orietta Rossi Pinelli), neocubista, versato nelle arti applicate (tra illustrazione scientifica, e scenografia, come ad esempio in quelle, cupissime, per la prima de Il prigioniero di Dallapiccola) che dichiara un suo legame fortissimo con le tradizioni estetiche della sua terra, nell’impegno per un’arte sacra contemporanea, che ha portato avanti inaugurando una scuola dedicata al tema, ancora esistente a Roma, gestita già negli anni ’60 in chiave di laboratorio.