Pino Pascali
La storia dell’arte italiana è tenacemente policentrica. Nei secondi anni Sessanta Roma e Torino sono tropici culturali contrari. Due mondi, due antropologie, distinte divinità tutelari: eleusina Roma, con Schifano nel ruolo di iniziato. Fabbrile Torino, con Pistoletto a introdurre, officiare, collegare. Boetti racconta che Pascali, recatosi a Torino per la mostra delle Armi, insegnò ai poveristi a danzare: loro così “protestanti” e severi. E questo basti per la leggenda. L’artista-Pascali è assai più indecifrabile del personaggio-Pascali, e ha tratti meno ilari. Colpisce anzi, in buona parte della produzione, la persistenza di un motivo morbido e elegiaco, quasi nostalgico, che emerge indiscutibilmente nella serie degli Animali.
Vita eroica di Pascali, il saggio che dà il titolo al volume e che Rubiu ripubblica oggi, rende omaggio all’artista celebrandone il tratto dionisiaco. La rievocazione è ammirata e commossa, pressoché mitografica: solo Nietzsche, invocato costantemente, parrebbe in grado di spiegare il fanciullo prodigio. Restano sottotraccia, nella narrazione di Rubiu, i momenti di impasse, di insicurezza e di dilemma (generazionale prima ancora che individuale) che pure costellano un percorso instabile e segmentato, e soprattutto incompiuto.
Come recuperare “ingenuità”, sottrarsi alle lacerazioni e ai contrasti imposti da Storia e Società? Come emendare l’arte di ogni pur piccola compromissione con la “cronaca”? Come riaffiorare nei territori dello stupore e dell’incanto? Queste sono solo alcune tra le possibili domande poste dall’attività di Pascali: domande che hanno senso ancora oggi e iscrivono l’attività dell’artista in una precisa tradizione mediterranea, italiana, latina.
Non è un caso che tra i mentori dell’artista sia Brandi, trait-d’union, nella Roma del tempo, tra i “lirici” e gli “irregolari” d’anteguerra, come De Pisis e Morandi, e la nuova generazione dei baby boomers. “Pascali aveva il dono, felicissimo per un artista, di non voler sembrare mai troppo intelligente”: velatamente antimodernistica, quest’affermazione di Rubiu non potrebbe essere stata scritta nei decenni entre-deux-guerres? I ponti levatoi di Pascali interrompono i rapporti tra artista e mondo, arte e sistema dell’arte. L’opera si chiude alle esigenze della comunicazione e concede all’artista di ritrarsi egotisticamente in un proprio regno. I ponti istituiscono regioni franche, governi del fantastico, apoteosi private. Bandiscono dichiarazioni di intenti: immaginiamo facilmente l’irritazione dell’artista per l’eccesso di critica pedagogica, di “domesticazione” culturalistica cui l’arte va incontro in anni di programmi, ideologie e dibattiti. Nel rivendicare l’extraterritorialità del gioco, Pascali non è un’isolato, al contrario: pensiamo a Paolini, a Boetti, a De Dominicis, in parte anche a Ontani. Naturalmente a Cy Twombly.
Il tema del sogno a occhi aperti, della fantasticheria attraversa l’arte italiana attorno alla metà degli anni Sessanta e sopravvive nel decennio successivo. Ci lascia immagini dedicate al vagheggiato candore della statua e reinvenzioni del museo, fantasie di volo e memorie iconografiche di visitazioni (o ultime cene), rituali idiosincratici e inventari senza fine. Pascali modifica temerariamente i confini della propria attività senza preoccuparsi di una “riconoscibilità” di mercato. Propone progetti l’uno in contrasto con l’altro, eseguiti quasi con finalità magiche e autoterapeutiche. Alla malinconia delle Giraffe decapitate, su cui si sofferma a lungo in un’intervista con Carla Lonzi, segue la baldanza (argonautica?) dei Mari e dei Fiumi o la rivendicazione delle “radici” regionali e rurali negli Attrezzi.
Nell’ultimo periodo di attività l’esigenza di aggiornamento sul mainstream newyorkese è costante, tanto da rendere assai facile riconoscere i modelli. Ma dal confronto emergono le differenze: se gli artisti americani sembrano interrogarsi analiticamente su forme e processi, Pascali oppone al loro distaccato professionismo le istanze della gioia, dell’evasione e del rapimento.
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