Parolacce
«Scrivo questo articolo perché la direzione della rivista mi ha rotto il cazzo per ottenere un mio contributo sull’argomento». Si può cominciare così un articolo su un giornale? Suona sofisticatamente satirico o inutilmente volgare? Un tempo si sarebbe scritto: «su gentile insistenza della direzione della rivista invio questo contributo su». Era, a sua volta, narcisistico bisogno di riconoscimento o ironica affermazione di distanza? Alternative radicali, senza vie di mezzo o soluzioni di compromesso. Cui si aggiunge, ora: meglio la prima o la seconda formulazione? Dobbiamo considerare la prima libera e la seconda ipocrita oppure cafona la prima ed elegante la seconda?
Il linguaggio, si sa, va storicizzato e contestualizzato: non esiste una sua dimensione assoluta, per cui una parola è di per sé volgare al di fuori della semantica e delle intenzioni. Le cose si complicano subito, però, perché c’è un destinatario, che decodifica la frase, per cui alle intenzioni volute vanno aggiunte quelle percepite e alla semantica la semantizzazione. A cui a sua volta va aggiunta la consapevolezza che chi parla assume una posizione di dominio, perché enuncia e definisce (fatto salvo tuttavia il monito benjaminiano che la parola che nomina non è la parola che giudica), mentre chi ascolta ha una posizione di subordinazione, che può essere capovolta solo attraverso un atto, anch’esso linguistico, di ribellione (essendo la libertà, giusta Rosa Luxemburg, sempre e solo «la libertà di chi pensa diversamente»).
La dinamica linguistica è più complessa di tutte le semplificazioni a tavolino che continuamente si mettono in atto da parte tanto di parlanti poco consapevoli quanto di addetti ai lavori alla ricerca di facile successo mediatico. Nel mondo della comunicazione di massa vige infatti la regola della riduzione, ulteriormente accentuata dalla comunicazione virtuale: urla e scandalo ne sono il cuore, per creare audience, chiamare a raccolta e incidere sul mercato.
Cosa meglio di una parolaccia, allora, se la parolaccia conserva una potenzialità di trasgressione che suscita interesse e fa gridare alla vergogna? Certo, ci si attirerà antipatie e accuse; ma il successo vale la pena anche di questo. Il problema è che però la parolaccia da tempo di scandalo non ne fa più tanto: «rompere il cazzo», per esempio, nel senso di insistere fino allo sfinimento e alla resa dell’altro, è talmente penetrato nel linguaggio comune da essere un titolo musicale dello Stato sociale (Mi sono rotto il cazzo) e un ritornello televisivo di Vittorio Sgarbi (contro Draghi, Scanzi e altri, nelle varianti di «rompere i coglioni, le palle, i maroni», ecc.).
Volgare, ironica, comica, provocatoria, sfida al perbenismo oppure espressione emotiva, la parolaccia è sempre più difficile da etichettare sul piano linguistico, come mostra un bel libro recente di Pietro Trifone (che si affianca a quelli precedenti di Vito Tartamella, Giovanna Alfonzetti, Massimo Arcangeli, e tanti altri): quali sono ancora parolacce, tra le tante che lo sono state in origine, e quali lo sono diventate, tra le tante che originariamente non lo erano? Trifone dimostra che della parolaccia c’è bisogno, perché il linguaggio porta con sé anche la negatività e la violenza che fanno parte dell’essere umano: imparare a controllarle in una dimensione sociale, secondo i principi del razionalismo borghese, è una conquista di civiltà, ma reprimerle sempre e comunque rischia di provocare sfoghi altrimenti e altrove.
Va gestita anche la politica linguistica, insomma, con un equilibrio tra consapevolezza psicologica, funzioni sociali e dimensioni estetiche. Non esistono, infatti, spiega Trifone, ragioni intrinseche per cui una parola sia bella o brutta, visto che la bruttezza di «cazzo» rispetto alla bellezza di «cozza» sta solo in un’associazione contenutistica, ideologicamente connotata, per cui mangiare una cozza per lo più ci piace, mentre mangiare quell’altra cosa ci fa ribrezzo (su cui giocava genialmente Peter Greenaway per dimostrare che nel capitalismo avanzato abbiamo ridotto tutto, merci e corpi, a cibo da ingurgitare: "Try the cock, Albert. It's a delicacy, and you know where it's been").
Né erano parolacce, in origine, nella lingua italiana, «negro» o «mongoloide», che lo sono diventate a causa di usi culturalmente distorti o aberranti. Ogni parola, del resto, come spiegava Federico Faloppa qualche anno fa, porta con sé tutta la sua storia, al punto da non poter essere improvvisamente ricondotta a un orizzonte neutro o addirittura positivo. Né castigata nell’angolino della proibizione, tuttavia, se non si vuole correre il rischio di fare del linguaggio una forma esteriore di pulizia ideologica che non corrisponde alla realtà delle dinamiche umane.
A caratterizzare un violento sul piano linguistico lo scrittore non potrà fare a meno di mettergli in bocca insulti e parolacce sgradevoli, ma necessari. Cancellarli non avrebbe senso, a meno che non si voglia fingere che il latifondista dell’Alabama si rivolgesse ai suoi schiavi chiamandoli, in un impulso di civiltà linguistica, «sir of colour». Oppure fingere che Verdi e i suoi librettisti si vergognassero di scrivere parole che a quel tempo proibite non erano, perché servivano a caratterizzare personaggi, veicolare messaggi ed esprimere conflitti.
Fanno bene le parolacce, che non sono certo solo povertà linguistica o mancanza di civiltà. Lo dimostrava qualche anno uno studio psicologico americano, intitolato Swearing is Good for You: The Amazing Science of Bad Language (di Emma Byrne, una neuroscienziata), dal quale emergevano una serie di usi positivi della parolaccia, dalla capacità di costruire complicità sul lavoro alla funzione terapeutica.
Nel libro l’autrice ricordava il pregiudizio in base al quale la parolaccia sarebbe stata prerogativa maschile, per cui una donna che dice parolacce era considerata biologicamente perversa e a rischio di trasformarsi in uomo, fino ad avere la barba e perdere la fertilità. Nella cultura inglese il pregiudizio risaliva al 1673, sancito nel libro The Ladies Calling di Richard Allestree («non c’è suono più odioso alle orecchie di Dio che una bestemmia nella bocca di una donna»), ma le cose non sono troppo cambiate nell’era moderna: se le donne possono ora dire parolacce, perché abbiamo abbattuto uno stereotipo arcaico, non sarà forse opportuno evitare di costruire una nuova proibizione collettiva, che rischia di proiettarci più indietro ancora?
Ricostruire storicamente le parole, per restituire anche la necessità di confrontarsi con le violenze e le aberrazioni della storia, sarà allora più utile che censurarle, cancellarle o modificarle. Trifone ricorda il caso di Arbasino che negli anni Sessanta non poteva permettersi di scrivere «vaffanculo», preferendogli un illeggibile e insensato v*ff*nc*l*, subito corretto nella forma autentica all’alba degli anni Settanta, ma convertito più tardi, negli anni Novanta, in un ideologico «vaffa», che rispecchiava l’atteggiamento borghese di snobistico rifiuto generalizzato più e meglio dell’originaria parolaccia troppo mirata a un soggetto specifico.
Sono gli usi e le convenzioni, allora, a rendere significante la parolaccia, dandole o togliendole densità semantica e scandalo culturale. Le usava pure Dante, del resto, le parolacce, che gli servivano per rappresentare un mondo plurale rispetto alla nascente ideologia dell’uniformità borghese: «merda ricorre nell’Inferno perché l’inferno è il paradigma di una società di merda», ha detto l’autore di un libro recente sulle parolacce dantesche, Federico Sanguineti, sottolineando il valore di critica politica che la parolaccia può portare con sé.
Di fronte al rischio della «dittatura del significante», come l’ha chiamata recentemente Andrea De Benedetti, l’unica operazione possibile è proprio quella di rivendicare la complessità, a rischio di perdere quella battuta facile che sembra tanto piacere ai linguisti a fini di presenza mediatica (e cui pure Trifone a tratti sembra indulgere): ricostruire le sfumature e i contesti, capire le etimologie e gli intrecci, indagare le soggettività e le formazioni di compromesso. Oggi al posto dei grammar nazi che hanno segnato una stagione di fanatismo linguistico su internet imperversano i correct nazi, se possiamo chiamarli così, che partono da giustissime posizioni di difesa dei diritti dei più deboli per farsi improvvisamente aggressori di chiunque la pensi diversamente da loro, aprendo – per lo più, per fortuna, online – la caccia al razzista, al maschilista, allo sciovinista, al nazionalista e al suprematista come un tempo si faceva con le streghe o i comunisti.
Basta usare un aggettivo al plurale maschile per designare un gruppo di due donne e un uomo che l’aggressione è garantita, perché non hai scelto il doppio plurale, l’asterisco o la schwa. Nessun ritratto psicologico, nessuna provocazione intellettuale e nessuna funzione espressiva saranno più consentiti sul piano linguistico, se prevarranno i correct nazi, i campioni dell’etichetta senza etica. Il loro bersaglio è infatti sempre l’universitario, in una forma di rivalsa socioculturale all’insegna dell’essere depositari di una verità perbenista che farebbe più tenerezza che rabbia se non fosse così pericolosa per i germi di intolleranza manichea e di rifiuto di ogni forma di pensiero critico che contiene in sé.
Dopo trent’anni di televisione fatta di posizioni antitetiche urlate anziché discusse e di giornalismo ostile a ogni possibilità di ipotesi alternative e punti di vista diversi, persino ciò che in linea di principio sembra giusto sta diventando uno strumento di organizzazione per bande, che mette al bando (suprema coerenza linguistica) tutto ciò che potrebbe allargare lo sguardo. Basterebbe leggersi, invece, il bellissimo lavoro di Neal A. Lester sulla N-word, come dicono gli americani, per capire che parole fonti di stigma possono essere rovesciate nel loro contrario a fini identitari e comunitari, perché nessuna parola è riducibile a un’ontologia del significato.
Ben vengano, quindi, libri che il linguaggio lo storicizzano senza paura di nominarlo, perché la divisione delle parole in buone e cattive sta riducendo la percezione stessa del reale a un’ingiusta e orrenda dicotomia tra buoni e cattivi. I famosi «parla come mangi», in italiano, e «parla come t’ha fatto mammeta», in napoletano, detti proverbiali che sono inviti alla sincerità e alla spontaneità, andranno sostituiti da «parla come vogliono i democratici» e «parla come t’hanno fatto le buone maniere», che possono pure essere in parte giusti, come invito alla consapevolezza linguistica, ad evitare di offendere sensibilità e identità, ma rischiano di tradursi nel regno dell’ipocrisia sociale, con un copione che prevede una società esteriormente perfetta nelle forme e interiormente irrisolta nei contenuti: come nella scena-capolavoro del Fantasma della libertà di Luis Buñuel, dove il perbenismo viene irriso nelle sue fondamenta, perché lecito e proibito si capovolgono all’insegna della convenzionalità.
Piuttosto che rimuoverle perché rientrino dalla finestra, o si sfoghino nel bagno, le parolacce andranno a loro volta controllate consapevolmente, gestite intelligentemente, usate cum grano salis. Altrimenti ci troveremo di fronte al paradosso per cui la parola proibita rischierà di sostituirsi a quelle offensive perché le prime, essendo state messe al bando, saranno state rafforzate nella loro carica trasgressiva, mentre le seconde sono state depotenziate dall’uso frequente e ormai legittimo.