Quattro voli col poeta Blake
Continua lo speciale dedicato a Giuliano Scabia, uno dei padri fondatori del nuovo teatro italiano, maestro profondo e appartato di varie generazioni, artista sperimentatore, poeta, drammaturgo, regista, attore, costruttore di fantastici oggetti di cartapesta, pittore dal tratto leggero e sognante, narratore, pellegrino dell’immaginazione, tessitore di relazioni, incantatore. Dopo l’intervista Alla ricerca della lingua del tempo, va avanti con la pubblicazione in esclusiva, in quattro puntate, di un poemetto inedito, Albero stella di poeti rari – Quattro voli col poeta Blake, recitato per la prima volta dallo stesso Scabia durante il festival A teatro nelle case del Teatro delle Ariette a Oliveto di Valsamoggia (Bologna). Dopo Volo sopra la città di Londra, pubblicato mercoledì 13 maggio, Volo secondo sopra la Francia, pubblicato mercoledì 20 maggio, Volo terzo sopra la Grecia con visione finale di Afrodite, pubblicato mercoledì 27 maggio, il fantastico viaggio guidato da William Blake continua oggi verso il nuovo mondo, incontro allo sciamano Zäreymakù e alla distruzione della terra, fino alla Frisco dei poeti beat e all’inaspettato incontro con un vecchio giovane profeta barbuto e visione finale di dei e profeti che con amore si prendono cura dell’equilibrio del mondo. Termina così questo viaggio fantastico e reale, con un intenso capitolo dedicato alla memoria di Claudio Meldolesi, studioso propugnatore di teatro. E qui troverete un pdf da scaricare e conservare, con tutto il poema. Prosegue però nelle prossime settimane lo speciale di doppiozero dedicato agli ottanta anni di Scabia, con articoli che narreranno le molteplici invenzioni del suo instancabile camminare, ricercare.
Teatro con bosco e animali sui colli di Firenze, camminata con la guida bianca di Roberto Mantovani, su invito di Pupi e Fresedde, 1990, ph. Massimo Agus
VOLO QUARTO SOPRA L’OCEANO FINO ALLA CITTÀ DI SAN FRANCISCO
Dedicato a Claudio Meldolesi
1. Oceano
“O Blake maestro – dopo il mare greco
e la visione della dea d’amore
dove bisogna andare per sentire
la sapienza del volo e il suo mistero?”
“Andremo,” – dice – “seguendo il mare e il vento
per un sentiero tutto da inventare
le porte famose attraversando
dette una volta d’Ercole e di Atlante.”
“E oltre?” – dico. “Andremo,” – dice – “fino a quando
ci sarà rivelazione immaginando, fino a quando
per visione una cosa apparirà
che ora non sappiamo.”
“Ho dubbi,” – dico. – “Talvolta sei preso
così dalle visioni che non hai buon senso.
Che non cadiamo giù. Che non ci manchi il fiato.
Che non si vada a prendere culate
come Icaro, Fetonte o i primi piloti
degli aeroplanetti di legno e tela, o come
il Piccolo Principe Saint-Exupéry
che il volo amando nel mare perì.”
“Guarda,” – dice la mia guida – “siamo già
sopra l’Oceano scuro – là
vedo le tre caravelle di Colombo, le
flotte di Spagna e Portogallo colme d’oro
e argento – e sir Francis Drake e tutti
quei pirati farabutti divenuti leggenda
nelle storie dei narratori falsari – e vedi
i transatlantici e le flotte in mezzo ai flutti
cariche di bombe e cannoni – e le navi
degli emigranti e dei signori – le battaglie
dei sottomarini – e in quella barchetta, solo,
forse è Ulisse che guarda il nostro volo.”
“Ulisse” – dico – “mai esistito personaggio, così
cantato, così sognato.” “E vedi gli uragani,” – dice –
“e i cicloni uno dopo l’altro funghi immensi
sopra New Orleans e il golfo devastato.”
Ora scendiamo verso Sud sempre sul mare
in cerca del passaggio per l’altro Oceano
alla fine delle Americhe – e poi risalire
fino a quando un segno ci farà fermare.
Volavamo spesso recitando versi di poeti cari
come Arione, Orfeo, Mosè, Dante Alighieri, Omero,
Ariosto, Milton, Baudelaire, Keats, Rimbaud
e altri per tenerci in voce, canto, tremito
e sintonia col vento ed armonia col tempo.
Luccica il mare, giocano le nubi, viene la notte,
il sole riappare – e noi sempre volare – senza sonno
lieti e leggeri nel nostro immaginare
fin che l’Oceano Pacifico appare – con foche,
balene, squali, velieri ed erte cordigliere
e saliamo, saliamo per il tropico verso
l’equatore – le Ande sulla destra a coronare.
Ed ecco – dopo ore – che un’immensa montagna
appare – lontana. “Quella” –
dico – “è la Sierra Nevada di Santa Marta: là
vive il mamo sciamano Zäreymakù
conosciuto un giorno in altro volo. Lui è uno
che del mondo sa.” “Cosa sa?” – dice Blake.
“Che oltre la Linea Negra,” – dico – “l’uomo (noi)
acque uccelli aria distruggendo sta.”
“Bello sarebbe,” – dice Blake – “chiacchierar con lui.”
“E a chiacchierare andiamo,” – dico. – “Lui
è di sicuro là.” Presto siamo fra gli altissimi
picchi – fra foreste e neve – e canti di uccelli.
Il Teatro Vagante, 1978/1980: albero, carro, grotta, culla, veliero, albero del tempo e teatro, ph. Massimo Agus
2. Colloquio col mamo Zäreymakù(*) sulla Sierra Nevada
Ci inoltrammo sperando che la forza del pensiero
e la fortuna ci sapessero guidare
al villaggio dell’amico sciamano. Com’era
sonante di uccelli e acque la selva
e di ombre e luminosità; com’era
piena, intensa, gravida, orgogliosa!
“Tutto è tremante, tutto è misterioso,” – dice Blake. –
“Siamo, lo senti, nel verde risonante.”
Camminavamo già da qualche ora
quando s’aperse una radura e apparve
il villaggio, le capanne rotonde di rami intrecciati
e paglia, di colore bruno, marron e oro: e
vedemmo loro uscire dalla capanna più grande,
la casa sacra forse: erano quattro: l’amico
conosciuto nel volo precedente e tre assistenti,
in tuniche bianche, il copricapo tondo,
la sacca della coca al fianco, in bocca il bolo masticando.
Zäreymakù si fece avanti e venne ad abbracciarci;
fummo rifocillati. Il tempo passava
ascoltando i respiri e gli sguardi,
cambiava la luce, la selva
trascolorava – in armonia si stava
in attesa di non si sapeva che:
tutto era fermo.
Ed ecco che Blake disse:
“Chi è il mondo?”
Nessuno rispondeva.
Passò altro tempo. Fin
che vedemmo Zäreymakù (piccolo! magro!)
alzarsi in piedi: spesso aveva attinto
col bastoncino alla zucca del popòro
contenente la calce. E cominciò a cantare
a occhi chiusi – ogni poco fermandosi
per respirare secondo strofe sue – non regolari –
nella sua lingua. Noi, attenti, attoniti,
questo racconto credemmo d’ascoltare.
Il canto di Zäreymakù
Tutto, nel tempo dell’origine di tutto,
era solo pensiero.
E il primo pensiero fu quello
della Sierra Nevada di Santa Marta.
Accadde quando
non c’era nulla e tutto era nebbia.
Tramite il pensiero noi mami parliamo con la natura
perché la conserviamo nella memoria fin dall’inizio.
Parlare con la natura è il compito che ci fu affidato
per mantenere l’equilibrio del mondo.
Dopo migliaia di anni trascorsi nel puro pensiero
vennero la vegetazione, gli animali e i cibi.
Tutto era armonia ed equilibrio.
Che però cessarono
a partire dall’invasione spagnola.
Se il nostro pensiero sparirà
verranno le catastrofi, i castighi, le calamità.
Andranno in rovina
non solo quelli che vivono dentro la Linea Negra,
ma tutti, il mondo intero.
Per noi nessun elemento della natura è cattivo.
Tutto è buono.
Sono state le leggi dei fratelli minori
a far sì che tutto si trasformasse in male.
Il loro cammino si è confuso
e stanno accelerando la propria distruzione:
si stanno rovinando l’anima col petrolio e con l’oro.
L’oro è la forza interiore della terra a cui dà potere il sole.
Oro e petrolio sono dei.
Ma i fratelli minori non li rispettano,
li trasformano in potere di ricchezza e si confondono.
La foglia di coca è un elemento speciale della natura
consegnato a noi indigeni.
La coca è una delle prime piante sacre:
è il pensiero, è lo spirito, è l’asse, è tutto.
È l’essenza della natura,
il mezzo per entrare in comunicazione
con esseri d’altra dimensione
e per poter rivolgersi al mondo, all’universo.
Ma i fratelli minori hanno trasformato la nostra pianta sacra,
anche modificandola tramite innesti,
in un losco traffico da cui traggono la cocaina:
e ciò, per loro, ha significato la morte
perché hanno violato la natura sacra della coca,
che adesso avvelenerà il mondo intero.
L’universo è un unico tutto
come un respiro, un soffio.
Che stiano attenti gli uomini
che vivono al di là della Linea Negra,
che stiano attenti
perché distruggendo
noi, le acque, le foreste, gli animali, la natura, la terra,
distruggono se stessi.
Che stiano attenti.
L’albero dei poeti: Sveno murator sul foglio chino che legge l’inizio del poema in ottava dedicato all’amico Giuliano Scabia, ph. Massimo Agus
Il canto era finito – Zäreymakù tremava:
era come se la selva avesse parlato.
Tante voci ha il tempo – ma quando
lo spirito svela il pericolo del mondo
i poeti capiscono d’essere sciamani e,
incontrando i fratelli lontani
nei boschi e sui monti, sentono
che le rivelazioni si formano
per tremito, canto e ascolto – e che così
il fiato della vita segna il suono
delle parole – che prendono paura:
come gli uccelli in bosco spaventati.
Veniva sera. Tutto era stato detto.
Era l’ora d’andare.
Ci abbracciammo
e riprendemmo il volo.
Disegno preparatorio dell’albero-Teatro Vagante azzurro, fatto da Giuliano Scabia a Tagliaborse, sull’Etna, fra il 1978 e il 1980
3. La scuola dei pivieri
Volavamo da tempo – ora largheggiando
ora costeggiando – e sempre cercavamo
gli animali non disturbare
onde capire chi essere loro e noi.
Fu quando fummo nei pressi di quella luminosa
città di San Francesco che vedemmo
sulla spiaggia immensa punteggiata d’uccelli
i piccoli pivieri – snowy plover – protetti da estinzione.
Correvano – da poco nati nella vita nuova –
con le zampette lunghe velocissime cercando
granchi lombrichi e altre nella sabbia nascoste trovando
prelibatezze – bianchi e grigi – curiosi – meravigliosi.
Ed eccone un branco somigliante una scolaresca
in attesa d’interrogazione – davanti stavano gli adulti
snelli – specie rara di pavoncelle
che ora calavano nelle onde, ora prendevano volo.
Erano forse cento i piccoli scolari – attenti,
in fila ordinati – in attesa di che cosa?
“Guarda,” – dico – “sembra una scuola: i grandi
mostrano come fare – e i piccoli osservare.”
“È una scuola, sicuramente,” – dice Blake – “perfetta
e naturale – vera scuola d’imparare.”
Ed ecco uno scolaro fa un voletto, subito atterra per paura,
torna indietro e si porta lento ultimo in fondo.
“Vedrai, al suo turno riproverà,” – dice Blake. – “È la scuola
dell’insegnar volare.” Il vento solleva le onde
che bianche formano scrosci di corone
e calmate dalla sabbia sfiorano pivieri e noi.
“Natura è madre di vero insegnamento,” – dice Blake. –
“Nascere, correre, mangiare, volare nel vento,
ecco che i pivieri danno senso
al loro essere viventi: e a noi.”
Giungono adesso due giovanotti
a torso nudo – e non scansano il branco.
I pivieri si sperdono, disturbati. “Ecco” – dico –
“disturbatori siamo. Non vediamo i colloqui
che ci avvengono accanto; gli animali selvaggi
sono scompigliati – la loro anima viene
disanimata – come la nostra – e sterminata.
Come ha ragione Zäreymakù.”
Da lontano la scuola di pivieri
restiamo a osservare – per impararla. Siamo
attoniti e in quel branco di scolari e genitori
ci appare, all’improvviso, oro della vita,
la trasmissione dell’insegnamento
e del mutamento. Ma ora nel vento
chi siamo? O Blake – chi siamo? “Sento,” –
dice Blake – venire un fatto di sconvolgimento.”
In quella improvvisamente passa
radendo scogli e onde uno stormo
di piccoli pivieri che, come un aquilone estesi,
il volo appena appreso sta sperimentando.
“O Blake,” – dico – “perché non andiamo a passeggiare
la famosa città meravigliosa?”
“Sì,” – dice Blake. – “Per un poco lasciamo il volare,
i piedi per terra è conforto posare.”
Passeggiata
vento
vento
vento
Blake spettinato dal vento
a Union Square caffè espresso (nero, buono)
store
store
store
entriamo
cappelli
cappelli
Blake si prova un cappello
vento
vento
vento
cable car
saliamo
appesi
ripidi
vento
poi giù
verso il porto
appare Alcatraz penitenziario isola
cammina
cammina
cammina
Market Street
Financial District
banche
banche
banche
quadri grandi astratti
nelle vetrine delle banche
Blake curioso dei quadri senza figure dice: perché nelle banche?
tram
metro
autobus
taxi
biciclette
pedoni
mare
grattacieli
monti
di là dal golfo Oakland
la malfamata
la devastata dagli incendi
sul San Francisco Chronicle intervista a Roy, mendicante: “Guadagno 50 dollari al giorno, ero camionista, 17 anni fa ho contratto l’Aids, non ho più trovato lavoro”
Aids, – dice Blake – ahimè
musicanti
mendicanti
qualcuno con
stivali
anelli
catene
borchie
capigliature
una volta hippy?
guarda!
una vecchina
con la chitarra
ricciuta
ha i capelli bianchi
un tempo forse figlia dei fiori
fioca
canta Farewell Angelina
commovente, – dice Blake
baia
colline
monti
paesaggio fatto dai terremoti
dorsali come onde immense
ponti
Richmond Bridge
Bay Bridge
San Mateo Bridge
Dumbarton Bridge
Golden Gate Bridge
lunghissimi-------------------------------------------------------------------------sospesi
(un grumo là, vedi?)
vento
vento
vento
Oceano--------------------------------------------------------------------------------->
Little Italy
Columbus avenue
ristoranti
quanta gente ai tavolini
tramonto
aperitivo
City Light books library
profumo di libri
scala
stanza della poesia
Kerouac
Ginsberg
Corso
Ferlinghetti
Lamantia
Williams
Pound
bravi, – dice Blake, sta leggendo
notte
luci
vento forte ->qui tutti arrivati da poco->migrati
(chi si diventa migrando?)
bianchi
neri
gialli
messicani
italiani
irlandesi
cinesi
yankee
quanti colori umani, – dice Blake
Fisherman Wharf
Northern Beach
Nob Hill
Telegraph Hill
Chinatown
Marina
Presidium
Pacific District
Western Addition
Civic Center
Richmond
le donne in tram filovia metró mercato
parlano spagnolo
le foche giunte col terremoto del 1996
parlano continuamente
distese sui cassoni in acqu
cammina
cammina
cammina
cammina
cammina
cammina
fino al quartiere Castro omosessuale
vento
vento
vento
notte
è la notte di Hallowen -> zucche come a Vetrego/Mira/Ve (Italia)
All hallows Eve--------------------------------------------------------- tutti lodano Eva ->
maschere costumi (meravigliosi)
(sanno di essere i morti a spasso?)
ci travestiamo anche noi
con le ali, volto bianco, parrucca, da angeli
angeli diavoli streghe ondine sirene
maschere
maschere
maschere
maschere
maschere
maschere
notte
tutti lodano Eva
tutti i santi lodano Eva
alba……………………… ……………………. ……………………………->
è tempo di tornare verso l’Oceano
filovia 38 filovia 28 capolinea
l’Oceano è là
sotto di noi
discesa
sabbia
sole
tepore
azzurro
(o Blake, guarda, là in alto, quel grumo)
costa alta
Oceano
Oceano
vasto
ventoso
lucente
vegetazione secca
il sentiero sale scende
Golden Bridge
lontano
stupendo, – dice Blake – sembra che voli
voli
voli
voli
voli
voli
o Scabius!
o Blake, vedi?
è nel volo il segreto dei ponti
“Attenti, prima di fare il bagno informarsi, pericolo batteri.”
noi
due
soli
verso il ponte,
Scabius e Blake
(guarda, il grumo!)
grattacieli lontani delicati lucidi trasparenti anime
vento
(Alcatraz in mezzo alla baia
Al Capone rinchiuso là diventò matto)
il ponte è più vicino->spuntano
come corna
i pilastri rossi
(si vede bene il grumo)
ciao Kerouac ciao Ginsberg ciao Ferlinghetti ciao beat
beati
bastonati
ciao Jack London ciao Martin Eden
ciao Burroughs
matto
pistolero
assassino che gioca a Guglielmo Tell
e centra la moglie in fronte
copà
ciao ciao
(cosa sarà quel grumo? non è una nuvola)
è finito il sentiero caliamo sul ponte d’oro
auto auto auto
poco vento
ciclisti
pullman
il turismo è veggente?
Zäreymakù
coca
peyote
mescalina
avrà poi ragione Zäreymakù?
(i turisti non vedono il grumo)
drugs/droghe
per andare oltre
noi solo immaginando
senza droghe
riprendiamo il volo? – dice Blake
America America, quanto vendi? E l’anima?
(il grumo
adesso
vibra
trema)
Oceano
vento
monti
navi
aerei
foreste
valli
cielo
si vede bene il grumo
sopra san Francisco
sopra il ponte
dopo tanto camminare
Blake, torniamo in volo?
Torniamo, Scabius,
è tempo.
Il Teatro Vagante: mese di maggio: Giuliano Scabia cavaliere gioca e combatte col drago d’Abruzzo, ph. Massimo Agus
4. La rosa degli dei
Eccoci adesso a contemplar là in aria
sopra il ponte d’oro il grumo strano
vibrante forse per il vento
forse per altra sua segreta gloria.
Ci avviciniamo – e il grumo,
che pare una rosa viva, si rivela
di bestie piante pietre frutti corpi umani
e disumani fatto – e davanti
dai lunghi capelli e dal viso, jeans, barba, uno
che in mano tiene un tablet riconosciamo: era
Gesù: e Blake disse: “Siete voi, Signore,
o un attore che vi somiglia?”
“Sono io,” – dice Gesù – “e sto qui
nel tempo e fuori dal tempo, qui
perché passate voi, per colloquiare: sempre
giro vagando andiamo – il mio gregge e me.”
“Il tuo gregge,” – dice Blake – “non era fatto
di dodici apostoli pazzi? Là vedo bestie, cose,
mostri strani: sei diventato matto? Non era
per il genere umano che t’eri donato?”
“Sbagliato,” – dice Gesù. – “Riflettendo
nella sapienza del Vento Santo e ascoltando
le molteplicissime voci del mondo ho capito
(finalmente) che tutti gli dei precedenti
gli spiriti, le fate, le streghe, Zeus, Odino,
Ganesh, Allah, Yahwe, Mio Padre
e altrissimi altri, cipolle, coca, coccodrilli,
cavalli, balene, orsi, civette, lupi, Iside, Osiride,
volpi, cani, Baal, Trimurti e altrissimi altri
a migliaia per millenni un unico vento
e fiato sono stati in cerca di capire la vita
e la morte – che io credo d’aver vinta.”
“Per Bacco!” – dico. “Anche lui,” – dice Gesù – “che dio!
Baccho, il bacchio – re della natura e delle bestie,
Dioniso, fratello feroce e dolce, Iaccho
dai cento e cento nomi, sempre forestiero,
pericoloso a chi non l’accoglie, capo delle danze
e del teatro e della poesia che canta.”
“O Jesu,” – dico – “non è che anche tu
sei uno incistato nel tempo, nel mutamento?”
“Sì e no”, – dice. – “Mi sono perfino ammodernato
col tablet e sempre m’ammodernerò
per seguire la vita e il suo fermento
nel gran mistero che si va evolvendo.”
“Che visione!” – dice Blake. – “Che insegnamento!
Che ne dici, Scabius?” “Sì,” – dico. – “Adesso capisco, nel vento
del nostro vagare, che gli dei sono invenzioni
di noi poeti: come te, Gesù, uomo divino.”
“Mai,” – dice Gesù – “noi della rosa
che io tengo in vita – vera mia sposa – fummo
così capiti. Tutta la memoria della vita
volando rinfiora. Avete avuto in sorte,
o Blake, o Scabius – di farmi rivivere in poema:
eccomi, sono qui, inventato
e no: dal profondo sorgono gli dei, dal vento
e dagli occhi in cui vola Amore
che ci tiene in vita. Divino è chi
rimemorando immagina e nominando
prega – preghiera è il lavorio
di chi vola in tremore di poesia.
Dite a Baudelaire uccello, a Rimbaud
disgraziato – dite che il logos incarnato
è in ascolto quando un poeta nell’abisso va
e vede quanto inferno dentro ognuno sta.
Dite a Virgilio e ai suoi poeti nella valletta
che sono tutti in Paradiso – che la loro voce
è il Paradiso – come la rosa che mi segue
e trema, beata d’essere nominata.
Dite a tutti quelli delle religioni
che unico è il vento, unico il tempo,
unico l’andare della luce
e del buio, unico il cuore della vita
indistruttibile nel corpo delle mente nata
dal giro vagare delle particelle
misteriosamente sorte, mai morte,
all’inizio del tempo infinito.
Dite dite dite – come sorrideva,
com’era bello: era come lo desideravo,
fratello di tutti gli dei, era
come uno sogna che la guida sia.”
Fu allora che la rosa degli dei – ognuno
a suo modo salutando – teneri e tremendi –
si mosse e ci passò vicino – lui Gesù
col tablet davanti era il pastore
e noi, guardandoci, sentimmo
per tutti quegli dei dimenticati
batterci il cuore. Era amore?
Era sentirci un poco illuminati?
Fu allora che pensammo a quando l’eterno
si preparava a creare il tempo e noi e tutto,
bestie, sassi, acque, piante – e al canto
di Zäreymakù pensammo – e a quanti
si prendono in cura l’equilibrio del mondo.
Pesante è il fardello da portare
se la specie umana si vuole amare.
Saprà l’amore diventare fecondo?
“O Blake,” – dico – “così ci è apparso Gesù:
era una nostra immaginazione, lo sai.” “ Sì, –
dice Blake – “e così adesso è colui
che gioca con noi – e vola su e giù.”
E volando la rosa immaginata
piano piano trasfigurava diventando
l’albero in fiore colmo sui rami
di dei e poeti – albero che penetrava
fin oltre ogni spazio ogni tempo – oltre
ogni immaginare. Correte bambini del mondo
a salire le braccia stellari
dell’albero stella di poeti rari.
Prima recita del poema Albero stella di poeti rari il 5 ottobre 2014 a Oliveto per la rassegna «A teatro nelle case» del Teatro delle Ariette. Video di Stefano Massari.
* Il mamo (sciamano) Zäreymakù è una persona vera, da me incontrata nel 1997 a Medellin, Colombia, al Festival Mondiale della poesia. Il discorso che lui ci tiene (a Blake e a me) è composto di frasi dei suoi racconti cosmogonici. Discorsi che lui faceva al microfono in stato di semi trance.