Diritto e letteratura / Il caso Balzac
Nel 1896, Léon Daudet pubblicò un romanzo intitolato Le voyage de Shakespeare. Immaginava che un giovanissimo Shakespeare percorresse l’Olanda e la Germania, sino a giungere in Danimarca, e che a ogni tappa gli accadesse di essere testimone di vicende sconvolgenti. Qui una coppia di giovani amanti approdava al suicidio; là un vecchio abbandonato dalle figlie vagava solo nella tempesta… Alla fine del viaggio, il futuro poeta aveva assistito, dal vero, a tutti i drammi che avrebbe poi trasfigurato sulla scena. La narrazione di Daudet, brillantissima, suggeriva ai lettori un’ipotesi tanto fascinosa quanto indimostrabile: all’origine di ogni capolavoro shakespeariano doveva esserci stato un fatto reale. Questo romanzo, ammirato da Proust ma oggi dimenticato, mi è tornato in mente riflettendo su un momento particolare nella storia della critica balzachiana. Accadde infatti che, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento, un gruppo nutrito dei più autorevoli studiosi di Balzac si dedicasse allo studio della Commedia umana adottando la stessa ipotesi su cui era fondato Le Voyage de Shakespeare: ogni personaggio doveva esser stato ricalcato, più o meno fedelmente, sulla realtà storica, doveva aver avuto, senza ombra di dubbio, un modello.
Nessuno si attenne a questa prospettiva con più rigoroso fanatismo di Anne-Marie Meininger (1923-2014), insuperabile segugio delle Archives, che braccò, spesso con successo, i modelli dei banchieri, degli ingegneri, dei faccendieri che popolano la Commedia Umana. Era arrivata al gruppo dei balzachiani per una via inconsueta. Moglie di un medico di provincia, nel 1959 si era presentata sull’opera di Balzac a una trasmissione televisiva tipo Lascia o raddoppia e aveva riportato un tale successo da venir immediatamente cooptata nella cerchia degli specialisti. Fu il grande Pierre-Georges Castex in persona a incoraggiarla alla stesura di una thèse in tre volumi su Les Employés, portata poi a termine nel 1967. Non tutti i balzachiani certo erano convinti, come Madame Meininger, che “Balzac non avesse mai inventato niente”; non tutti pensavano come lei che studiare la genesi di un’opera significasse necessariamente ricondurla ai fatti reali che l’avevano ispirata. Ma in quegli anni importanti, nei quali si gettavano le basi della meravigliosa edizione della Commedia umana che sarebbe uscita nella Pléiade , sotto la direzione di Castex, tra il 1976 e il 1981, la ricerca di fonti e modelli assorbì le energie di molti dei migliori studiosi, suscitò scontri e polemiche, ingombrò di ipotesi inverificabili saggi, prefazioni e ponderosi apparati di note.
In realtà, al comune lettore del XXI secolo non importa poi molto sapere se la carriera dell’immaginario banchiere Nucingen è ispirata a quella di James de Rothschild o a quella di Léon-Beer Fould. Per Marcel Proust era certo un ghiotto pettegolezzo che il modello della principessa di Cadignan, la più sfrontata seduttrice della Commedia umana, fosse Cordélia de Castellane, la bisnonna del suo amico Boni de Castellane; per noi la cosa non è più altrettanto eccitante. Quando leggiamo un romanzo di Balzac, non sentiamo l’esigenza di identificare, dietro ogni personaggio, la figura reale che può averlo ispirato; vorremmo piuttosto riuscire a collocarlo, quel personaggio, nel contesto dei costumi e delle istituzioni che hanno determinato le condizioni della sua vita; vorremmo comprendere come lo spirito del suo tempo, così diverso da quello del nostro, abbia dato forma al suo destino.
Proprio negli stessi anni in cui era in gran voga il “metodo Meininger”, comunque, l’intenso lavoro dei balzachiani riuniti intorno a Castex sfociava in preziosi volumi che ricostruivano lo sfondo storico della Commedia umana: il mondo del giornalismo indagato da Roland Chollet, l’“archeologia di Parigi” ricreata da Jeannine Guichardet, gli scienziati del “Museum” studiati da Madeleine Ambrière, per citarne soltanto alcuni. Sempre più emergeva, da queste ricerche convergenti, quella che era stata l’intuizione di Taine, che a Balzac aveva dedicato uno studio pionieristico nel 1858: l’autore della Commedia umana aveva vissuto nel cuore del pensiero del suo tempo, e ne aveva rispecchiato ed espresso come nessun altro le peculiarità.
“Parigi – scriveva Taine – eccita già troppo noi, persone comuni. Quante idee dovevano affollarsi nella mente di Balzac che, fatta molteplice dall’ispirazione e dalla scienza, in un gesto o in un abito scorgeva un carattere e una vita intera, li collegava al loro secolo, prevedeva il loro avvenire, li comprendeva da pittore, da medico, da filosofo ed estendeva la rete infinita delle sue divinazioni involontarie attraverso tutte le idee e tutti i fatti! (…) Potete immaginare quali piante dovessero nascere dal terreno della sua vita, così artificiale e così impregnato di sostanze acri. Era quel che ci voleva per far vegetare l’enorme foresta della Commedia umana, per imporporarne i fiori di quel cupo splendore metallico, per colmarne i frutti di quel succo penetrante e troppo forte.”
È sullo sfondo di questa tradizione critica che Giuseppe Guizzi, professore di Diritto commerciale all’Università di Napoli Federico II, con il suo volume Il «caso Balzac». Storie di diritto e di letteratura (il Mulino, 2020, 296 pp., 25 €) ha voluto recentemente invitare i lettori di oggi a ripercorrere la Commedia umana. Esauriente nei riferimenti alla ricca letteratura già esistente sull’argomento, la monografia di Guizzi non ha l’ambizione di essere esaustiva né di apportare nuove scoperte su un tema che ha già avuto in Francia specialisti eminenti come Michel Lichtlé. Nasce però da una conoscenza profonda e da una passione autentica per il mondo di Balzac; di quel mondo, letto attraverso la lente delle sue competenze di giurista, l’autore ci offre un’immagine estremamente istruttiva e stimolante, coinvolgendoci nel suo desiderio di esplorarne tutte le contraddizioni, i paradossi e i segreti.
Da sempre, i lettori di Balzac hanno notato la centralità del denaro nel mondo della Commedia umana. Nei romanzi più letti nei primi decenni del XIX secolo, di denaro non si parlava mai: né René, l’eroe di Chateaubriand, né la Corinne di Madame de Staël, né l’Adolphe di Benjamin Constant erano mai costretti ad affrontare volgari preoccupazioni finanziarie. Le cose vanno diversamente nell’universo balzachiano: sappiamo esattamente quanto spende dal sarto e dal calzolaio un giovane che nel 1820 sbarca dalla provincia a Parigi; ci viene detto con precisione a quanto ammonta il patrimonio che il bottaio Grandet è riuscito ad accumulare acquistando beni ecclesiastici nel periodo rivoluzionario e quanto vale la meravigliosa collezione di quadri che il musicista Pons ha pazientemente raccolto setacciando i depositi di antiquari e rigattieri. L’aspetto economico è forse il più conosciuto della Commedia umana. Non a caso, nel film di Truffaut La calda amante (La peau douce, 1964) il protagonista, direttore di una rivista letteraria, viene invitato a tenere una conferenza in provincia proprio sul tema Balzac e il denaro. Di questo aspetto economico, però, c’è un risvolto che non è stato spesso messo in rilievo quanto merita. Quel fiume di denaro, di ricchezza che attraversa la Commedia umana è costantemente arginato, deviato o incanalato dalle leggi del tempo: leggi che regolano (o tentano di regolare) il mercato finanziario e la Borsa; leggi che perseguono i debitori insolventi, che cercano di colpire usurai e bancarottieri; leggi che dettano la forma corretta dei contratti tra privati e dei lasciti testamentari. Qual è il giudizio che Balzac formula su queste leggi? In quale contesto è maturato il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti del diritto del suo tempo? È a queste domande che risponde il saggio di Giuseppe Guizzi, fornendoci tutte le informazioni storiche necessarie per seguire il suo appassionante percorso attraverso la Commedia umana.
Nota Guizzi che i biografi hanno sempre dedicato molta attenzione ai due stages del giovane Balzac, il primo presso un avvocato e il secondo presso un notaio. Negli studi di questi due professionisti il futuro romanziere si è certamente trovato di fronte a drammi della vita privata per lui molto istruttivi: storie di eredità contese, di cambiali falsificate, di battaglie legali di ogni genere. Non meno importante però, sottolinea Guizzi, è stata la frequentazione della Facoltà di legge, cui Balzac è stato iscritto dal novembre del 1816 all’aprile del 1819. I regolamenti della Facoltà, risalenti al periodo napoleonico, imponevano allora ai docenti di limitarsi a dettare agli studenti il testo delle leggi, senza mai permettersi di formulare critiche o dubbi. Ma non tutti i professori rispettavano quelle disposizioni e lo studente Balzac ebbe modo di riflettere sulle lacune e le contraddizioni del diritto positivo. Sicuramente, poi, non restò insensibile allo scandalo scoppiato in Facoltà al momento della fine dei suoi studi: la sospensione del professor Bavoux. Bavoux si era permesso di criticare a lezione gli articoli di legge che punivano severamente il cittadino che osasse fare resistenza alle irruzioni e perquisizioni della polizia. La sua sospensione provocò tra gli studenti proteste, poi riprese dall’opposizione in parlamento. Assolto in un successivo processo, Bavoux aveva dimostrato che la legge non era un idolo inattaccabile: la sua lezione riaffiorerà in moltissimi punti della Commedia umana, dove legalità ed equità raramente coincideranno e dove i trionfi del diritto non saranno quasi mai, se considerati attentamente, trionfi della vera giustizia.
Le leggi dovrebbero assicurare la protezione degli innocenti e il giusto castigo di prevaricatori e profittatori, ma nella Francia descritta da Balzac la realtà è ben lontana da questo ideale. La legislazione sui fallimenti, ad esempio, colpisce crudelmente l’onesto profumiere César Birotteau, messo in difficoltà dalla fuga del suo notaio, e viene invece aggirata dal banchiere senza scrupoli Nucingen, che proprio su una serie di fallimenti fittizi fonda la sua enorme ricchezza. Analogamente, le leggi sui testamenti, formulate per assicurare la realizzazione della volontà del testatore, si prestano a raggiri e macchinazioni che la vanificano, come dimostra il destino del musicista Pons, impossibilitato a lasciare al fedele amico Schmucke la collezione d’arte cui ha dedicato la sua vita intera. Da un romanzo all’altro, Guizzi moltiplica gli esempi, aggirandosi nella Commedia umana con la sicurezza del frequentatore di vecchia data e con tutte le conoscenze storiche necessarie alla comprensione di un mondo oggi in gran parte scomparso. Di quel mondo non manca però di segnalarci le analogie con quello nel quale viviamo: già i finanzieri descritti da Balzac mettono in piedi truffe “piramidali”, pagando inizialmente agli investitori ricchi interessi desunti dai loro stessi investimenti e poi scomparendo nel nulla con il grosso del capitale investito. L’amaro commento del giornalista Blondet alla stupefacente carriera del banchiere Nucingen non sembra dunque aver perduto attualità: “Le leggi sono tele di ragno attraverso le quali passano le mosche grosse, mentre vi restano impigliate quelle piccole”. È un aforisma di Swift, che Blondet attribuisce a Montesquieu e che potrebbe fungere da epigrafe al volume di Giuseppe Guizzi; per ricordarci che la grande letteratura – nel campo del diritto come in quello della psicologia – arriva a verità importanti seguendo la strada della finzione e si allontana dalla rappresentazione letterale della realtà soltanto per meglio coglierne, come affermava Proust, le grandi leggi.